N.06
Novembre/Dicembre 1996

Povertà evangelica: consiglio per pochi o valore per tutti?

Chiunque voglia diventare discepolo di Gesù Cristo è posto di fronte, dall’Evangelo, alle esigenze radicali racchiuse nelle parole che Gesù ha rivolto ai discepoli e alle folle tutte: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8,34). È solo e soltanto alla luce del primato di Cristo, dell’amore preferenziale per lui – il Signore – che la radicalità cristiana prende il suo senso. È solo e soltanto nella prospettiva del Regno di Dio veniente che il credente può relativizzare le realtà penultime e viverle senza farle assurgere a idolo. Ed è all’interno della relazione di fede e di amore con il Signore Gesù che si impone al credente un giudizio sui beni del mondo e sul loro uso[1]. Colui infatti che, quale servo, vuole essere là dove si trova anche il suo Signore (cfr. Gv 12,26), non può non entrare nel regime della povertà che è dimensione cristologica, spazio cristico: “Cristo, infatti, da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9).

Appare così che la povertà evangelica non è né un consiglio né un valore, ma uno “spazio”, una “dimensione” della fede, della relazione con il Signore Gesù. Solo i poveri, infatti, sanno riconoscere il bisogno di salvezza e accogliere il vangelo come buona notizia di salvezza. La povertà è dunque “mezzo di salvezza” per il cristiano e in quanto tale non solo non è un consiglio riservato a pochi che percorrono una via “più perfetta” rispetto a coloro che si attengono alla via comune dei “precetti”, ma è esigenza inscindibilmente connessa alla vocazione cristiana, alla vocazione battesimale. Il battesimo, infatti, immette il credente in una nuova vita che è vita in Cristo, vita in cui egli “riveste” Cristo spogliandosi dell’uomo vecchio, vita in cui egli confessa l’evento pasquale – la morte e resurrezione di Cristo – quale evento che determina e riorienta tutta la propria vita, e dunque anche tutte le relazioni, tra cui il rapporto con i beni, con il denaro, con le cose.

La povertà è dunque un’esigenza della fede cristiana! In questo senso, in una prospettiva cristiana, la povertà non è neanche un valore autosussistente, ma una realtà che prende tutto il suo senso dalla relazione con il Signore e con gli uomini che essa conduce a vivere in modo fedele all’Evangelo, in modo cioè improntato all’agape, all’amore. Non a caso già l’antica esegesi giudaica aveva interpretato il comandamento di amare Dio “con tutte le forze” (cfr. Dt 6,5; Mc 12,30) nel senso di amarlo “con tutti i beni”, “con tutte le ricchezze”, cioè nella disponibilità a perdere, ad abbandonare tutte le ricchezze[2].

La povertà evangelica è dunque un’esigenza per tutti i chiamati, ma le sue forme e modalità non sono normate dalla Scrittura in modo univoco: in questo senso la povertà evangelica non è neppure una legge. Riguardo al rapporto con i beni da parte del discepolo il NT parla di “vendita” (Lc 12,33), di “rinunzia” (Lc 14,33), di “abbandono” (Mc 10,28-30 e par.) di tutto; ma poi presenta Zaccheo che dona una parte cospicua, ma non la totalità, dei suoi averi ai poveri (cfr. Lc 19,1-10), narra la vita della chiesa primitiva come spazio in cui avviene la koinonía, cioè la condivisione dei beni che, tra l’altro, è descritta come assolutamente facoltativa (cfr. At 2,42-45; 4,32-5,11; cfr. anche la menzione della “cassa comune” del gruppo dei discepoli di Gesù: Gv 12,6), espone la necessità che all’interno della comunità si faccia “uguaglianza” attraverso una prassi di condivisione, una colletta (cfr. 2Cor 8,13), una messa in comune di beni che dunque erano presenti… Cioè, nella testimonianza neotestamentaria non vi è unanimità nel presentare i modi e le misure della povertà (o, forse meglio, dell’impoverimento) richiesta. Vi è invece, con impressionante frequenza e unanimità di testimonianza, la messa in guardia contro l’ostacolo che la ricchezza rappresenta sulla via della sequela del Signore e dunque della salvezza. La ricchezza tende a occupare il cuore dell’uomo e a divenire un idolo e allora l’Evangelo è netto: “Non potete servire a Dio e a Mammona” (Mt 6,24). Infatti, “dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (Mt 6,21): il problema è, da un lato, la relazione con il Signore, la fede, che viene impedita o compromessa quando i beni assurgono a idolo e, dall’altro, la deumanizzazione dell’uomo divenuto idolatra del denaro e del possesso. E non a caso il termine “Mammona” sembra derivare dalla radice ebraica aman[3], che esprime anche la fede, l’affidamento che il credente è chiamato a fare al suo Signore: “Quando un credente mette la fiducia nei suoi beni, allora egli soffoca in sé la disponibilità per il Regno”[4]. L’episodio dell’uomo ricco che trova nella gran quantità di beni posseduti l’ostacolo che gli impedisce di accogliere la chiamata del Signore, esemplifica bene questo aspetto (cfr. Mt 19,16-26 e par.). La tentazione illustrata in questo episodio è quella di lasciarsi definire da ciò che si possiede, invece di ricevere la propria identità dalla relazione con Gesù il Signore. Certo, mai il Vangelo pone la rinuncia radicale a tutti i beni come condizione necessaria per la salvezza, ma se tanto insistente è la sua messa in guardia contro il pericolo costituito dalle ricchezze, questo è dovuto al fatto che “la ricchezza falsa la verità dell’uomo”[6].

La povertà che l’Evangelo richiede al cristiano non è dunque tanto misurabile sulla quantità delle cose lasciate, ma è anzitutto appello al ritrovamento, da parte dell’uomo, della sua intima verità, del mistero della sua povertà radicale, ontologica, in cui anche consiste la sua verità: egli è povero, è bisognoso[7]. In questa verità egli può anche situarsi nella giusta relazione con il Signore creatore e redentore e può, con il proprio agire, narrare l’agire di Dio.

Emblematiche, in questo senso, le direttive sinottiche in vista della missione (Mt 9,35-10,42; Mc 6,7-13; Lc 9,1-6; 10,1-16). Il tenore originale, gesuano, di tali direttive doveva essere estremamente radicale e rigoroso: proibizione di prendere con sé denaro, cibo e bastone, di indossare calzature e di avere doppia tunica: sono proibiti non tanto degli oggetti “superflui”, che potrebbero essere di ostacolo alla missione, ma oggetti necessari che la agevolerebbero rendendola più rapida, efficace e sicura. Sono proibizioni motivate dall’idea che la missione è opera di Dio, non delle forze umane: la povertà dell’inviato diviene “segno” di tale soggetto trascendente della missione. L’inviato è posto in una situazione di precarietà: “la proibizione ha sempre per oggetto qualcosa che ci si prepara adesso per poterne disporre all’occorrenza in futuro: la bisaccia è cibo per il domani, la seconda tunica è vestito per il domani, sandali e bastone sono una difesa preventiva contro le insidie improvvise che si celano lungo il cammino, il denaro poi – per chi vive nella società degli uomini è potenzialità di beni e servizi di ogni genere in qualsiasi momento se ne abbia bisogno”[8].

La povertà impressionante in cui sono posti i missionari (e che ha talmente colpito Gerolamo da fargli dire che essi sono inviati “pressoché nudi”) non va elusa attraverso interpretazioni simboliche: i lavori di Gerd Theissen hanno mostrato la praticabilità effettiva di tali direttive[9]. Che poi già le differenti redazioni evangeliche mostrino rielaborazioni e adattamenti ai diversi contesti geografici e climatici delle direttive gesuane (in Marco troviamo la concessione dei sandali e del bastone: cfr. Mc 6,8-9), non sminuisce certo la loro portata e la loro radicalità. Anzi, gli adattamenti stessi mostrano l’esigenza di rifarsi sempre ad un nucleo fondante, al paradigma missionario dei Dodici “non come un ‘modello’ da imitare alla lettera, ma per le esigenze di fondo che lo ispirano”[10].

Esigenze e istanze che si possono sintetizzare, da un lato, nella necessità che la missione sia segnata da povertà per poter apparire come “sacramento”, come azione di Dio e non dell’uomo e, dall’altro, nel fatto che l’annuncio del Vangelo i cui destinatari privilegiati sono i poveri, non può che essere opera di messaggeri poveri. “Se i poveri e i sofferenti sono i primi destinatari del Regno (cfr. Lc 4,18; Mt 5,3 par. Lc 6,20; Mt 11,5 par. Lc 7,22), come potrebbe la sua proclamazione essere affidata a messaggeri ricchi, o a mezzi di diffusione che presuppongono ricchezza e potere?”[11].

Così l’istanza della povertà è un’esigenza evangelica che implica l’attivo coinvolgimento della responsabilità e della creatività obbediente dell’uomo. Essa si configura non come una legge, ma come un evento pneumatico in cui compito dell’uomo è l’obbedienza alla Parola di Dio e all’esempio di Gesù, il Povero per eccellenza, e la sottomissione all’azione dello Spirito.

Nell’incontro fra una libertà personale e il Signore con le radicali esigenze della sequela emergerà la forma della povertà, non prefissabile in anticipo, ma che deve riguardare tanto la vita del singolo quanto quella delle comunità, delle chiese, e che deve conoscere l’apertura alla dinamica della condivisione e la disponibilità ad un abbandono anche radicale dei beni.

Come il battesimo dischiude al credente la possibilità del martirio, della perdita della vita, così gli dischiude la possibilità del distacco radicale dai beni. Tutto questo è insito nella vocazione cristiana e il battezzato deve esserne cosciente! Così il radicalismo dei testi evangelici che parlano della povertà come esigenza del discepolato (“Chi non rinuncia a tutti i suoi beni non può essere mio discepolo”: Lc 14,27), che narrano la comunione di beni nella chiesa primitiva (“I credenti tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti secondo il bisogno di ciascuno”: At 2,44; cfr.At 4,32.34-35), che prospettano la radicale precarietà e assenza di umana sicurezza della missione (“Non prendete nulla per la via, né bastone, né bisaccia, né pane, né denaro, e non dovete avere due tuniche”: Lc 9,3), restano come perenne fonte di ispirazione per i cristiani e le chiese di tutti i tempi.

Così come l’esigenza evangelica della povertà resta come pungolo per chiese spesso ricche, resta come spina nella carne per cristiani pienamente partecipi dell’opulenza delle società in cui vivono, resta come giudizio per una vita religiosa che professa il voto di “povertà” ma che, vivendolo come mancanza di proprietà da parte dei singoli all’interno di comunità possidenti e ricche, lo riduce di fatto all’accezione giuridica della dipendenza. C’è da chiedersi se non sia blasfemo, oltre che menzognero, parlare di “povertà” a partire da tali condizioni, che sono quelle del mondo occidentale in cui viviamo, in cui ogni bisogno può essere immediatamente soddisfatto. C’è da chiedersi se il nostro discorrere di povertà non cada sotto il giudizio dell’amara e tagliente immagine utilizzata da Kierkegaard: “Nella splendida chiesa del castello si presenta un pomposo predicatore di corte, l’eletto del pubblico colto, e davanti ad una schiera di aristocratici e intellettuali, commenta con unzione queste parole dell’Apostolo: Dio ha scelto le cose umili e spregevoli” (1Cor 1,28). E a nessuno viene da ridere!”[12].

 

 

 

 

Note

[1] Per un sommario orientamento bibliografico sul tema indico: S. LÈGASSE, L’appel du riche. Contribution à l’étude des fondements scripturaires de l’état religieux, Beauchesne, Paris 1966; J.M.R. TILLARD, La pauvreté religieuse, in Nouvelle Revue Théologique 8 (1970), 806-848, 9 (1970), 906-941; E. BIANCHI, Povertà e ricchezza nella Bibbia, in Servitium 25-26 (1972), 277-309; J. DUPONT, A. GEORGE, S. LÈGASSE, B. RIGAUX, PH. SEIDENSTICKER, La povertà evangelica, Queriniana, Brescia 1973; TH. MATURA, La pauvreté religieuse, in Vie consacrée 6 (1994), 359-384.

[2] B. GERHARDSSON, Du Judéo-christianisme à Jésus par le Shemà, in Recherches de Science Religieuse 60 (1972), 23-36; T. LORENSIN, Fondamenti biblici della povertà consacrata, in C. SQUARISE (a cura di), La povertà religiosa. Un approccio interdisciplinare. Dehoniane, Bologna 1991, 35-58.

[3] F. HAUCK, Mamonâs in Grande Lessico del Nuovo Testamento VI, Paideia, Brescia 1970, coll. 1047-1054 (sull’etimologia del termine col. 1047).

[4] J.M.R. TILLARD, Le propos de pauvreté et l’exigence évangélique, in Nouvelle Revue Théologique 2 (1978), 211.

[6] V. FUSCO, Povertà e sequela, Paideia, Brescia 1991, 14-15. J.M.R. TILLARD, o.c., 217

[7] J.B. METZ, Povertà nello spirito, Queriniana, Brescia 1966; E. BIANCHI, L’essere vero come condizione essenziale per leggere la Bibbia, Qiqajon, Bose 1991.

[8] V. FUSCO, Dalla missione di Galilea alla missione universale. La tradizione del discorso missionario (Mt 9,35-10,42; Mc 6,7-13; Lc 9,1-6; 10,1-16), in Ricerche Storico Bibliche 1 (1990), 118.

[9] G. THEISSEN, Wanderradikalismus, Literatursoziologische Aspekte der Uberlieferung von Worten Jesu im Urchristentum, in Zeitschrift fúr Theologie und Kirche 70 (1973), 245-271, ripubblicato in Idem, Studien zur Soziologie des Urchristentum, Tùbingen 1979, 79-105 (attualmente anche in traduzione italiana: Radicalismo itinerante. Aspetti sociologici-letterari della tradizione delle parole di Gesù nel cristianesimo primitivo, in Idem, Sociologia del cristianesimo primitivo, Marietti, Genova 1987, 73-94); Idem, Soziologie der Jesusbewegung, Múnchen 1977, 11-32 (trad. it Gesù e il suo movimento, Claudiana, Torino 1979).

[10] V. FUSCO, o.c. 122.

[11] Ivi, 117.

[12] S. KIERKEGAARD, Diario, 1850, (a cura di C. FABRO), vol. 7, Morcelliana, Brescia 1991, 12.