N.01
Gennaio/Febbraio 1997

Fino a lasciare tutto

E’ del 1979 un corso di esercizi spirituali del card. Martini che è stato pubblicato con il titolo “Abramo nostro padre nella fede”[1]. È di parecchi anni fa, dunque, ma ricordo molto bene un’immagine di quel libro.

 

La promessa in tasca

Martini commentava il rapporto tra Abramo e il nipote Lot e in particolare illustrava il momento in cui i due decidono di separarsi e scelgono dove andare. Abramo lascia scegliere a Lot e Lot sceglie la parte più bella e ricca della vallata che hanno di fronte. Ad Abramo va bene lo stesso anche il resto. Non gli importa di lasciare la parte più bella e fertile. Perché? si domanda Martini. E risponde: perché lui aveva la promessa. Lot no. “Questa promessa gli è più ricca di qualunque altra cosa e lo rende libero, tranquillo, disponibile a cedere il meglio” (p. 73). Abramo aveva la promessa. Aveva qualcosa di più. Certo, era solo una promessa, ma era una ricchezza, una sicurezza basata su una fiducia. Abramo aveva qualcosa. E poteva lasciare perché aveva qualcosa. Lot doveva arrangiarsi.

Sempre commentando questo passo, Martini opera un accostamento del brano della Genesi con l’inno di Paolo dalla lettera ai Filippesi. E traduce: non “Gesù pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio” ma “Gesù essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso….” Cioè, Gesù lascia non “pur essendo”, ma “perché era” Gesù diventa uomo non pur essendo Dio, ma perché era Dio. Non lascia ogni cosa pur avendo tutto, ma proprio perché aveva tutto. “Essendo così ricco, trovò in questa sua ricchezza la gioia e la pienezza di donare. Poté farlo grazie alla sua ricchezza” (p. 81).

Adesso è chiaro il primo punto di questa riflessione sul lasciare tutto in chiave psicologica. Sì, perché anche se sono stati citati Martini, la Genesi e l’inno della lettera ai Filippesi, il messaggio ricavato tiene conto di una dimensione psicologica essenziale: bisogna avere per poter lasciare. Bisogna aver ricevuto per poter essere liberi di lasciare. E bisogna sapere di avere ricevuto per poter lasciare liberamente.

 

Il furto

Per lasciare liberamente occorre sapere di aver ricevuto abbastanza. Occorre quindi fare esperienza di gratitudine. Altrimenti si lascerà, forse, ma con la sensazione di essere derubati. Si consegnerà, forse, ma con l’impressione che venga portato via qualcosa. La persona vuole dare, lasciare, e lo fa, ma lo fa con frutti di risentimento, che a volte emergono molto più tardi. Una specie di protesta: mi hanno ingannato, io ho dato, e adesso? ho lasciato, e adesso?

Perché evidentemente si sente che il bilancio è fallimentare: si è dato più di quello che si pensa di aver ricevuto. Non c’è abbastanza sicurezza: che se anche mi prendessero tutto, tanto io avrei comunque quello che conta e che basta. Uno che si sente amato non ha paura di perdere. O se ce l’ha, ce l’ha nella fiducia, in una sostanziale sicurezza: sa che forse bisogna attraversare incertezza e timori, ma sa anche che ne varrà a pena. Che in ultima analisi non ci rimetterà.

Come dice Gesù: “Nessuno me la porta via, la mia vita, sono io che la do. Perché ho il potere di lasciarla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio” (Gv 10,18). Gesù è Signore della sua donazione, Signore della sua obbedienza. Non si lamenta: è lui che lascia che gli tolgano tutto, è lui che vuole che gli tolgano tutto, perché vuole donare tutto. Sa che ha il potere di riprendere di nuovo. Pur dando tutto non dipende dagli altri. Così ci assolve dal furto della sua vita: dicendoci che ha deciso lui. Ma noi assolviamo gli altri dal furto delle nostre cose, del nostro tempo, dei nostri programmi, dei nostri affetti?

 

Fogli sprecati

Un interessante lavoro di Bettelheim racconta, tra molte altre cose, l’esperienza di insegnanti che avevano notato come bambini provenienti da un contesto di povertà e privazione sprecavano più degli altri. In classe, davanti ai fogli di carta messi a disposizione di tutti, arraffavano e sprecavano nonostante l’assicurazione della maestra che ci sarebbero stati fogli per tutti. I bambini più abbienti riuscivano a prendere un foglio per volta. Loro no, non erano capaci. Così riporta Bettelheim lo sfogo di un insegnante:

 

“I bambini che vengono da ambienti poveri tendono a sprecare molta più carta degli altri. Iniziano con un foglio, ma se il disegno non piace o pensano che non piaccia a me, lo buttano via, dicono ‘non mi piace’ e lo stracciano. Vogliono un  altro foglio, ma non pensano che si può voltarlo e scrivere dietro…Secondo me sprecano un mucchio di fogli… È duro far capire che devono far conto della carta… Ho spiegato spesso che chi paga le tasse paga anche per questo spreco. Poi ho detto che non c’è un secondo foglio, devono arrangiarsi con quello che hanno. Ma non ha funzionato…”.

E Bettelheim commenta: 

“L’insegnante non ha capito che questi bambini, sprecando e chiedendo sempre di più, tentano di  vedere se il futuro paga, se il rifornimento è adeguato, se ce ne sarà ancora anche se non lo prendono subito… È solo sulla base di una sazietà piacevole, ripetuta tante volte e fatta oggetto di riflessione, che si può incominciare a dilazionare. Invece l’insegnante pretende che i ragazzi vivano questo principio prima che lo abbiano appreso”[2].         

E ancora:

“Chiedere di non sporcare o di non mangiare subito il dolce sarà efficace se il bambino ottiene molta lode e affetto per la dilazione, se nel passato la sua fame è sempre stata saziata, a sufficienza e piacevolmente. Lui lo farà perché altrimenti teme di perdere tutte queste soddisfazioni garantite. Nessuna lode funziona se la fame rimane insaziata, nessuna pretesa è efficace se non si crede che la dilazione procurerà maggiori guadagni (cioè sazietà e lode) e che non comporta perdita, mentre mangiare subito dà sazietà, ma con l’aggiunta di colpa e ansietà. Non c’è dilazione possibile se tutta l’esperienza mi dice: ciò che non prendo adesso non lo avrò mai più. Ecco perché si vede così spesso che i ragazzi meno privilegiati imparano solo finché hanno l’attenzione dell’insegnante: almeno hanno la ricompensa emotiva subito, appena si applicano. La loro vita li ha troppo confermati nell’idea che se non si ha subito lode, attenzione o altre ricompense, non ci saranno più”[3].

Evidentemente la paura sottostante la convinzione che “quello che prendo ora non lo prenderò più” ha le sue radici nelle prime esperienze, particolarmente in quelle di nutrizione e amore.

 

Il nome psicologico della speranza

Ciò che conta è l’esperienza della vita: e forse la vita ha insegnato che domani non avrò quello che magari ho oggi. Se non arraffo il foglio, l’affetto o non mi bevo il guadagno, se metto da parte, aspetto, rinvio, non avrò più niente. Non posso fare a meno, se non ho la sicurezza che rinviare è per il meglio: devo potermi fidare. E posso fidarmi se almeno qualche volta ho provato a dire no per un sì e poi vedere il sì realizzato; se ho provato ad astenermi per una gioia più grande e poi ho sperimentato la gioia più grande. Se ho ricevuto, so che si può ricevere. E soprattutto imparo che si può dare.

Capacità di rinvio, si dice in termini psicologici. Vuol dire saper aspettare. In termini spirituali è la capacità di rinunciare “per”, è l’ascesi. L’ascesi è capacità di rinvio. Dico un no perché c’è dietro un sì più grande. Ed è speranza; perché nella speranza so che quel “dopo”, quel “più grande” mi verrà dato.

Applichiamo tutto questo all’avventura vocazionale. Infatti, citando Bettelheim, non si intende qui riferirsi solo a esperienze di notevoli privazioni materiali o affettive, né certamente si intende dire che la povertà in se stessa impedisce di scegliere il lasciare o sia in quanto tale criterio di discernimento.

Si intende piuttosto invitare a considerare quale tipo di “memoria” si ha della propria storia, quale interpretazione si fa della misura di amore ricevuto, quale lettura della propria vita: in chiave di grazie o di lamento? Si percepisce il bilancio in deficit, ci si sente consciamente o inconsciamente in credito, e quindi ancora in attesa di ricevere, anziché maturamente aperti a dare?

 

Scritto dentro

C’è un’altra dimensione importante da aggiungere: che la realtà stessa del lasciare è un bene. Siamo fatti per lasciare. Non è un’imposizione del formatore, una mania di risparmio dell’economo, una visione distorta delle gioie della vita, un interpretare come minaccia il gusto di possedere e godere. No, è qualcosa scritto dentro, e di nuovo parliamo di dimensioni psicologiche oltre che spirituali.

Crescere umanamente vuol dire lasciare. Vuol dire “dire dei no”. Vuol dire che se voglio qualcosa devo rinunciare ad altro. Vuol dire che la scelta mi costruisce e la scelta è sempre un lasciare; tanto più costruttivo quanto più consapevole. Il bambino cresce attraverso dei no, delle scelte; cresce se impara ad aspettare, ad affrontare problemi non troppo grandi, ma un po’ più grandi di lui; se impara a rinunciare al prima per il dopo, a sopportare l’incertezza e l’astinenza tra lasciare e ricevere. La crescita passa anche attraverso piccole scelte: perché piccola o grande che sia la scelta, quello che importa è la direzione presa. Per lasciare tutto bisogna lasciare anche il poco; e lasciare il poco è già ostacolare la tendenza contraria. E intanto si fa un piccolo spazio.

Crescere comporta il passare dal lamento al servizio generoso, al dono gioioso. Nel divenire adulti, si tratta di cambiare prospettiva: un altro, non io, è il centro del mondo. Maturità è decentrarsi. Il troppo che il Signore chiede, l’assurdo della sua logica (chi perde la vita per me la trova) non è così folle come potrebbe sembrare: siamo fatti per quel troppo e per quella logica. Siamo fatti per amare, per donare, per essere per l’altro e non viceversa.

Chi educa, chi è formatore, animatore vocazionale, deve crederci lui per primo. Deve saper riconoscere che nella persona ferita e limitata che non sa essere grata, che si lamenta e si risente, che vorrebbe tenere strette le sue cose, deve saper riconoscere che dentro questa persona c’è anche una tensione grande verso il “perdere la vita per trovarla davvero”. Gesù non chiede di andare contro la nostra natura, ma contro una parte della nostra natura. E dicendo un no, sentiamo la fatica e la tensione del no, ma ci sentiamo a casa nel sì.

 

Per sentirsi a casa nel sì

Quali passi verso un sentirsi a casa nel sì? Tiriamo le conclusioni da quanto esposto, dal punto di vista dell’educatore. Occorre avere e saper di avere per poter lasciare: deriva da questo la necessità pedagogica di aiutare la persona a riconciliarsi con il suo passato, aiutarla a notare quanto di positivo c’è nella sua vita, aiutarla a gioire dell’affetto che ha ricevuto e riceve.

Attraverso un rapporto costruito con pazienza sulla fiducia, si tratta di condurre all’esperienza della gratitudine, che significa appunto, a conti fatti, un buon rapporto con il proprio passato. Gratitudine, segno splendido della capacità di donare, segno di maturità e libertà. Ne verrà il fidarsi del centuplo, della promessa, perché ci si può fidare solo basandosi sull’esperienza fatta. Si lascia con la speranza che la cosa convenga: la gioia, il centuplo su questa terra, l’ingresso nel regno… Occorre avere questa speranza, altrimenti lasciare è folle: bisogna aver fiducia che si riceverà. Se dunque si vuole che la persona sia in grado di lasciare liberamente, bisogna assicurarsi o farle sperimentare che è stata ed è amata.

È importante in questo cammino far prendere coscienza dei sentimenti opposti che esistono nel cuore, del risentimento, dell’amarezza, del fare i conti in tasca agli altri che hanno sempre di più e meglio… Far prendere coscienza della propria fame insaziata, del lamento e dell’insoddisfazione per quanto non si è ricevuto, del permanere di un eccessivo bisogno di ricevere affetto. Non riesce a pensare alla fame degli altri chi in qualche modo non è già affettivamente sazio. Far prendere coscienza di tutto questo esige in primo luogo che l’educatore ne tenga conto, che percepisca le esperienze che hanno segnato, perché non si dia per scontata l’esistenza della libertà di lasciare, ma invece ci sia disponibilità all’aiuto nella crescita del dono di sé.

 

Conoscere, volere, sentire

Certamente lasciare è faticoso. E scegliere di far fatica richiede ottimi motivi. Occorre quindi senz’altro ravvivare continuamente il significato della fatica e la motivazione del dono: far fatica “per” è amore. Si lascia “per”: quando io diminuisco, lui cresce. Non c’è un altro motivo per lasciare: che lui cresca, lui che già ha lasciato tutto per me. Lascio per trovarlo, anzi per essere trovato. Ma questo continuo richiamo al senso non basta. In questo cammino occorre attenzione al “sentire”, perché l’agire razionale o le scelte della volontà sono condizionate dal mondo emotivo: e se la pedagogia dell’educatore tiene conto solo del livello cognitivo (conoscere e approfondire il valore del lasciare) o volitivo (impegno ascetico), favorisce la distanza della sfera dell’intelletto e della prassi dalla propria esperienza vissuta anche a livello sensibile. Come si diceva sopra, “so” che è bene lasciare, “voglio” lasciare, eppure “sento” che vengo derubato.

La discesa nell’area emotiva affettiva può invece far riprendere il dialogo interrotto o bloccato con una dimensione di sé e può rilanciare il cammino: far sperimentare la gioia; far “sentire” l’esperienza della gioia nella rinuncia, nella sicurezza di sé, nella fiducia, far corrispondere quel che “voglio” lasciare a un retto “sentire” che è bello lasciare per amore[4].

 

 

 

 

Note

[1] C.M. MARTINI, Abramo nostro padre nella fede, Centro Ignatianum Spiritualitatis, Roma 1981.

[2] B. BETTELHEIM, Moral Education, in AA.VV. Moral Education: five lectures, Harvard University Press, 1970. Tr. it. in A. MANENTI e C. BRESCIANI, Psicologia e sviluppo morale della persona, EDB, Bologna 1993.p. 246.

[3] Ivi, p. 245.

[4] Ulteriori approfondimenti in questa prospettiva possono aversi in A. CENCINI, Nell’amore: libertà e maturità affettiva nel celibato consacrato, EDB, Bologna 1995 e in F. IMODA, Sviluppo umano, psicologia e mistero, Piemme, Casale Monferrato (AL)  1993.