N.01
Gennaio/Febbraio 1997

Scoperto un tesoro di grande valore…

Vi è oggi una forte resistenza al discorso biblico del “lasciare tutto”, che non è dovuta soltanto alla difficoltà di ogni tempo ad entrare nell’ottica del Regno, e neppure solo alla seduzione di una mentalità consumistica, ma è legata ad una serie di obiezioni di fondo, che rimproverano al cristianesimo di essere una religione del risentimento verso i valori della vita, di costituire una proposta per mediocri, incapaci di affermare se stessi come uomini liberi. Ne consegue l’esaltazione diffusa dell’esistenza in prova, cioè di uno stile di vita nel quale non ci si lega stabilmente a niente e a nessuno, per non compromettere la propria libertà. Ritengo che ad un simile modello culturale non si debba rispondere tanto con l’evidenziarne le contraddizioni intrinseche o i risultati deludenti; ma sia più produttivo verificare il messaggio biblico per mostrare come le scelte totalizzanti e le decisioni irreversibili non nascono da avversione ai valori della vita, bensì da una scoperta affascinante o meglio ancora da un incontro, dal carattere di assolutezza e definitività, con un Altro. I passi biblici al riguardo sono molteplici, ma può essere utile concentrare lo sforzo attorno a testi paradigmatici, che mostrano chiaramente come il Regno di Dio non sia la negazione dei desideri umani, ma un’esaltazione della ricerca alla quale è proposto l’inaudito, qualcosa che supera ogni attesa

 

Resistenza alla chiamata

Per il mistero della libertà l’uomo può sempre resistere a questo fascino del Regno, lasciando che la voce della chiamata di Cristo sia coperta dai molteplici e seducenti richiami della “gloria del mondo” Il cuore smarrisce il fascino dell’unico, dell’essenziale e si disperde nel relativo. L’esemplificazione più efficace di un doloroso fallimento della chiamata è l’episodio del giovane ricco (cfr. Mt 19,16-22), ma potrebbe esserlo anche l’intera vicenda della sequela dei discepoli, prima della loro nuova convocazione pasquale (cfr. Mc 14,50-51).

La vocazione chiede sempre di abbandonare qualcosa, ma è per realizzare un legame nuovo, una comunione con Dio e con Gesù. Così a questo ricco viene chiesto, come segno del suo reale abbandono alla volontà di Dio, la rinuncia ai beni terreni, ma soprattutto l’affidamento a Gesù. Sequela è libertà e liberazione. Libertà di seguire Cristo e liberazione dagli ostacoli. Gesù ha considerato seriamente la generosità e la disponibilità del giovane ricco. Tutta la sua vita era stata veramente attraversata dall’accoglienza verso la volontà di Dio, verso la Legge. Egli non ha, però, il coraggio di abbandonarsi totalmente a Dio, di fare il grande passo in avanti; perde rapidamente l’entusiasmo iniziale con il quale era corso da Gesù. La sua ricerca dell’unico si esaurisce per adagiarsi nel possesso dei molti beni. Così se ne va “afflitto”; gravato da un senso di insoddisfazione, poiché i beni che egli ha scelto al posto della sequela di Gesù non possono riempirgli il cuore. La tristezza dipinta sul suo volto non è causata tanto dalle parole di Gesù, che gli sembrano deludenti, ma ha una radice più profonda. In definitiva la sua vita è ormai un guscio vuoto di prescrizioni e di leggi osservate minuziosamente, manca del calore che scaturisce per il cuore dalla scoperta del Regno e dal gusto di cercare sinceramente la volontà di Dio.

 

Un’attesa scoperta

Alla resistenza al richiamo del Regno si contrappone, invece, un arrendersi al fascino della chiamata. Tra gli esempi concreti, che vengono proposti dai Vangeli, la preferenza va non ai vari personaggi storici dei discepoli e discepole, che hanno seguito Gesù, ma a quelli fittizi, ma non meno veri, delle due parabole gemelle del tesoro e della perla di Mt 13,44:

Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.

Queste parabole non sono rivolte, come molte altre, ad avversari di Gesù, bensì ai discepoli. E non è un caso. Egli vuole raggiungere proprio quei discepoli che corrono il rischio di sottolineare più l’aspetto di sacrificio e di distacco della vita cristiana e meno il suo fascino e la sua bellezza. Gesù intende quindi portarli a cambiare ottica: chi incontra il Regno e decide di servirlo compie un affare, che sarebbe stupido lasciarsi sfuggire. Entrambe le parabole, strutturalmente parallele, trattano del Regno come evento che sopraggiunge nella vita di un individuo. La portata di questo avvenimento è illustrata attraverso l’esempio di personaggi che, su un piano analogo, hanno saputo approfittare dell’occasione. Dal comportamento del mercante di preziosi e anche da quello del contadino si può capire cosa significa per la nostra vita la scoperta del Regno, visto quale realtà non solo della “fine dei tempi” ma già presente nel quotidiano.

Le due brevi parabole sono accomunate da quattro verbi: trovare, andare, vendere, comperare. È, però, fuorviante concentrare subito l’attenzione su “vendere tutto” ma è necessario partire dal fatto realmente decisivo, primario, cioè la scoperta inaspettata. Inattesa è non solo per il contadino che non cercava nulla, ma anche per il mercante, che pur cercando perle di qualità, non può che trovare assolutamente sorprendente lo stupendo prezioso capitatogli tra le mani. Così l’evento del Regno, anche se avviene nel quotidiano come è il caso dei protagonisti delle due parabole, è sempre una realtà straordinaria, perché è l’accadimento della grazia.

Un secondo elemento è il comportamento tenuto dai due personaggi, dopo la scoperta. Essi non possono restare inerti, come se nulla fosse accaduto, chiusi nelle loro occupazioni feriali, ma devono darsi da fare, inventare soluzioni nuove. La loro estrazione sociale è diversa, distanti le loro possibilità economiche, ma entrambi prendono la medesima decisione: vendere, impiegando tutte le loro energie e risorse per conseguire l’obiettivo. Per il grossista di perle è una grande vendita (piprasko), per il contadino è di minor conto (poleó). Ma tutti e due fanno ciò con disinvoltura, senza rimpianti per ciò che lasciano, solo mossi dal fascino di ciò che stanno per acquistare. Non è una rinuncia che pesa loro, ma una naturale decisione mossa dall’entusiasmo per quanto hanno trovato. Sono ben consapevoli del valore della loro scoperta per rimpiangere qualcosa del loro passato, pur senza disprezzarlo. È ormai chiaro l’intento delle due parabole: disegnare una figura di discepolo non tutto curvo su di sé e attanagliato da rimpianti, ma proteso verso la realtà che ha ammaliato il suo cuore, interamente assorbito solo dal fascino della scoperta.

Il particolare della gioia, espressamente annotata per il fittavolo, ribadisce questo insegnamento e gli conferisce ancor più rilievo, se si rileva la sobrietà con cui il vocabolo appare in Matteo, relegando l’uso di esso esclusivamente in momenti decisivi[1] La “gioia” per Matteo è davvero la cosa seria che si può esperimentare solo di fronte al “definitivo”. Può essere utile ora far alcuni passi all’indietro, risalendo dalla parabola all’evangelista Matteo e a Gesù stesso.

Da una parte è interessante che le due parabole ci siano state tramandate soltanto da Matteo; il che pare funzionale all’interesse dello scrittore stesso. Se si accetta, infatti, l’attribuzione tradizionale, la vicenda dei protagonisti della due parabole è molto simile a quella di Matteo (Levi), dedito agli affari prima di incontrare Gesù, ma poi libero da tutto, pur di seguirlo da vicino (cfr. Mt 9,9).

Dall’altra esse devono il segreto del loro essere ancora attuali ed intriganti per il lettore odierno, al fatto che racchiudono l’esperienza di Gesù stesso. Egli per primo vive il suo progetto, la realizzazione della propria persona con totale disponibilità al piano di Dio su di lui, con una dedizione senza riserve a Dio e agli uomini. La dedizione di se stesso, con tutte le sue energie fisiche, psichiche e spirituali, all’annuncio del Regno non è rinuncia ad un progetto esistenziale, ma è la decisione consapevolmente voluta ed attuata di vivere tutta la propria esistenza come appartenenza totale al Regno. Per esso Gesù non riserva nulla per sé, ma consacra la totalità della propria vita in tutte le sue dimensioni: affetti, gesti, pensieri; desideri, beni economici, professione, abitazione. Eppure in tutto ciò c’è mai rimpianto o un sospetto disprezzo per i beni lasciati, ma solo la tensione verso un bene più grande e assoluto: Dio e il suo Regno tra gli uomini.

 

 

Perdita o guadagno

Un’illustrazione effettiva (e forse la più significativa) della verità delle parole di Gesù sulla bellezza della chiamata ci viene offerta da Paolo[2]. Egli è davvero un commento vivente della forza con cui la chiamata divina può entrare in una vita e trasformarla. L’apostolo parla della sua vocazione a più riprese, ma il testo che più sottolinea il fascino della chiamata è certamente Fil 3,3-17, dove mette in guardia la comunità contro chi le propone una religiosità da mutilati: “Guardatevi da quelli che si fanno circoncidere”. È un’esagerazione significativa, ma il messaggio è chiaro: guardatevi sempre da chi svilisce la bellezza del Vangelo, togliendone la gioia e la libertà. Ora, come antidoto contro questa proposta di una vita religiosa, fatta solo di obblighi e priva di gioia, egli indica il suo caso come vicenda esemplare[3].

Prima di incontrare Gesù, Paolo credeva di essere giusto, irreprensibile, eppure non era giusto. Cristo lo ha raggiunto non in un momento di crisi religiosa o di altro tipo, ma in un momento in cui si sentiva pienamente sicuro di sé, attaccato ai valori tipici di un buon ebreo, perfettamente a posto dal punto di vista etnico, religioso e morale. Ma ecco che l’incontro con Cristo gli cambia la vita per sempre e gli fa dire che queste sue realizzazioni umane, rispetto alle possibilità che gli vengono ora offerte, sono svantaggio e spazzatura.

È difficile interpretare questo in termini psicologici, niente precedentemente lascia pensare, lascia supporre che Paolo fosse scontento di questa sua esperienza vitale nel giudaismo; né che si sentisse legato, impacciato. Se anche fosse ragionevole ipotizzare una crisi interiore, in ogni caso Paolo non ne parla, e resta una nostra costruzione fantastica. In questo senso, Cristo si lascia incontrare da chi è sazio e da chi è affamato, da chi ha un’identità forte e da chi ha un’identità debole, altrimenti sembrerebbe che Cristo sia una sorta di tappabuchi per chi è alla ricerca di una propria identità e vive in una situazione di crisi. Sarebbe di nuovo fare di Cristo un’esigenza di tipo psicologico più che una novità di tipo teologico. Il “nuovo essere”, la nuova creatura, cui Paolo viene condotto da questo incontro con Gesù costituisce un legame profondo con Cristo e un impegno strettissimi (cfr. 2Cor 5,17), che il nostro linguaggio può solo suggerire, ma non descrivere compiutamente.

Ecco dunque al v. 7 la svolta della vita di Paolo! L’esperienza di Damasco è illuminazione, conoscenza di qualcosa di nuovo, che ha provocato un rovesciamento di sistemi di valore. Tutti i vari valori/beni sono come svaniti davanti ad un valore solo: Gesù Cristo. La chiamata è un atto di totale unificazione della propria persona per Cristo e in Cristo, che Paolo sperimenta come pura grazia. È solo questo che spiega il passaggio di Paolo dalla vita farisaica alla vita cristiana. La trasformazione, segnata dall’incontro di Damasco, non porta a un nuovo tipo di obbedienza alla legge, magari più intenso, ma consiste in un’illuminazione per la quale Cristo viene posto al centro della sua ricerca e quei “titoli di gloria” vanto della vita precedente, perdono il loro splendore. È una grazia che viene concessa a Paolo, ma è anche una decisione che segna indelebilmente la sua esistenza: “Ho considerato queste cose una perdita a motivo di Cristo” (v. 7)[4]

Solo con la scoperta di Gesù, che lo afferra improvvisamente, percepisce che cosa c’era di sbagliato in questo: al centro v’era lui e la sua giustizia e non una persona e l’amore per essa. Ciò che Paolo ora desidera possedere è la “conoscenza di Gesù, mio Signore”. “Conoscere” significa qui entrare in comunione con Cristo, sia nella morte che nella resurrezione. La vera conoscenza di Gesù è fare in modo che la Sua vicenda diventi la nostra vicenda, lasciar perdere tutto per entrare in questo rapporto intenso e totale. E si noti come, accanto alla parola “conoscenza” c’è un “diventare conformi” , un prendere la Sua stessa forma, conformarsi gioiosamente in tutto a Lui, il crocifisso.

Questa conformazione è pienezza di vita, dinamismo, espresso nel testo originale greco dal verbo “correre”, che appare per tre volte: vv. 6.12.14. Come persecutore Paolo “correva” dietro ai cristiani per ucciderli. Lo stesso verbo “correre” viene usato anche più avanti: vv. 12.14. Prima “correva” dietro alla Chiesa, ora “corre” dietro al Signore e poi “corre” in direzione della meta[5]. L’esperienza di Paolo si può riassumere dunque in questa parola: “correre” . Si tratta di individuare qual è la meta giusta. In questo modo Paolo ha trovato la gioia: perché sa dove corre, dove sta andando; ha imparato finalmente a muoversi nella direzione giusta.

Il cristiano come Paolo continua ad essere in corsa, ma una corsa singolare, perché la meta è già stata raggiunta, anzi è già stata donata: “fui afferrato da Cristoe allora rimane la tensione verso la risposta. È significativo però che, mentre l’azione di Cristo è all’indicativo passato[6], l’esito dell’impegno di Paolo sia in forma ancora dubitativa:”mi sforzo per afferrarlo” Secondo l’esortazione evangelica di non volgersi indietro, dopo aver posto mano all’aratro, al passato non si deve quindi più guardare, ma soltanto al futuro. L’unica cosa che conta del passato è l’incontro con Cristo, ma questo non è una realtà ‘passata’, perché continua ad animare il presente e fa tendere verso la piena realizzazione di esso, nella “chiamata di lassù” . Paolo rimane così un segno di come l’uomo necessiti della illuminazione della grazia per conoscere a fondo il suo peccato e non credersi troppo facilmente “irreprensibile” di fronte a Dio, ma segno anche delle possibilità che Dio riserva a chiunque accetti di credere alla “sublimità della conoscenza di Gesù, mio Signore”.

 

 

 

 

Note

[1] Esso ricorre solo per i Magi (cfr. Mt 2,10), per i servi buoni nel giudizio finale (cfr. Mt 25,21.23) e per le donne il mattino di Pasqua (cfr. Mt 28,8.9).

[2] Mi ispiro in questo paragrafo ad alcuni appunti non pubblicati del collega don Pasquale Pezzoli.

[3] Fil 3,17: Fatevi miei co-imitatori fratelli. Il Vangelo è vita realizzata e resa visibile nelle persone che lo annunciano. Ora se Paolo propone la propria esperienza è appunto perché vuole che i suoi fratelli, insieme con lui si facciano imitatori di Cristo e non cerchino nella direzione sbagliata di un’illusoria religiosità.

[4] L’ho considerata una perdita in greco è al perfetto, cioè è un’azione iniziata nel passato che continua nel presente e futuro. A Damasco, Paolo aveva rinunciato a una certa impostazione della vita, a quei titoli di gloria propri di un ebreo; ma ancora molte situazioni dovevano presentarsi negli anni seguenti, davanti alle quali rinnovare ogni volta la decisione di cercare solo la ‘conoscenza di Gesù ; ecco perché, dopo aver già parlato della sua rinuncia per amore di Cristo, ripete: Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù, mio Signore v. 8).

[5] È utile riflettere sui verbi presenti nel testo di Fil 3,4ss. Inizialmente non c’è movimento, non ci sono verbi. Paolo è statico anche se corre davanti alla Chiesa. Situazione di vanagloria, accumulazione di titoli, di onori; è morto, è fermo. Poi incominciano i verbi, e questi abbracciano tutti i tempi: passato, presente, futuro. Paolo è diventato un vivente, è uno che percorre la sua vita con entusiasmo. Qualcuno l’ha afferrato nel passato e lo spinge a correre verso il futuro.

[6] Un fatto certo: fui afferrato.