Il servizio umile e ordinario del parroco alle vocazioni
Quando un giovane o una ragazza arrivano al momento più espressivo della loro vocazione, quali sono l’ordinazione sacerdotale, la professione religiosa o la celebrazione del matrimonio, raramente hanno coscienza piena che il parroco della loro comunità ecclesiale è stato un servitore della loro avventura cristiana. Un servizio umile e legato all’ordinarietà delle cose è quello del parroco, raramente appariscente al punto che, nelle occasioni citate, i ringraziamenti si sprecano verso una moltitudine di persone; al parroco di solito si riservano quelli di routine, senza particolari emozioni; capita di sentirlo ringraziare perché ha organizzato bene la festa ma non per l’altra opera di edificazione che la tradizione cristiana tiene in molto conto ossia edificare la comunità cristiana come un tempio dove tutti siano delle pietre vive. Si legga attentamente il brano della prima lettera di Pietro 2,4-6.
Un uomo che “c’è” sempre, per tutti
È debole la coscienza dei fedeli a riguardo di tutti i fattori che contribuiscono al realizzarsi della loro vocazione? O è carente la sollecitudine del parroco verso coloro che si avviano nella strada di una vocazione di speciale consacrazione? Salomonicamente si dirà che sono vere entrambe le ragioni, quando si volesse cercarle. Ma non è questo il punto d’interesse che ci muove; semplicemente vorremmo annotare i tratti del profilo di un parroco, “animatore vocazionale” al di dentro e mediante l’ordinario servizio e impegno ministeriale della comunità parrocchiale.
Vorremmo richiamare anzitutto un’attitudine fondamentale del parroco che precede altre mirate a una cura particolare della vocazione cristiana e delle vocazioni speciali. Lo Spirito di Dio semina i germi di vocazione in quel singolare humus che chiamiamo parrocchia, una comunità di persone che si riconosce nella fede in Gesù Cristo, vive di comunione e di missione; annuncia, celebra e testimonia il mistero di Dio in ogni situazione e in ogni condizione esistenziale. Ma non c’è parrocchia senza parroco; le due realtà procedono in sinergia, integrate fra loro al punto che riesce difficile dire chi delle due viene prima.
L’attitudine fondamentale del parroco a riguardo della crescita e maturazione della comunità parrocchiale e delle persone che la edificano incessantemente con le loro diverse vocazioni è quella di “esserci”. Esserci con il suo ministero, irriducibile ad altri e mai surrogabile in ciò che ha di essenziale; esserci con una capacità di discernimento, di corresponsabilità, di direzione spirituale, di ascolto e accoglienza che ne fanno una figura al limite della meraviglia. In un manoscritto medievale, trovato a Salisburgo e fatto circolare recentemente, si ravvisano i tratti dell’esserci del parroco (da leggere dai parroci con un filo di auto ironia e da altri con l’attenzione dovuta ai paradossi):
Un prete deve essere
contemporaneamente grande e piccolo.
Nobile di spirito, come di sangue reale.
Semplice e naturale come di stirpe contadina.
Un eroe della conquista di sé, un uomo che si è battuto con Dio.
Una fonte di santificazione,
un peccatore a cui Dio ha perdonato, maestro dei suoi desideri.
Un servitore per i timidi e per i deboli
che non si abbassa davanti ai potenti, ma si curva davanti ai poveri.
Discepolo del suo Signore, capo del suo gregge.
Un mendicante dalle mani largamente aperte
e portatore di innumerevoli doni.
Un uomo sul campo di battaglia,
una madre per riconfortare i malati.
Con la saggezza dell’età e la confidenza di un fanciullo,
teso verso l’alto, i piedi sulla terra,
fatto per la gioia, conosce la sofferenza.
Lontano da ogni invidia,
chiaroveggente che parla con franchezza.
Un amico della pace, un nemico dell’inerzia.
Costante sempre… così diverso da me!
Un uomo capace di “atti spirituali”
L’esserci del parroco, richiamato volutamente con toni soffici, risponde non soltanto ad esigenze virtuose e ad attitudini morali-spirituali bensì ai postulati di natura teologica inerenti al mistero dell’agire di Dio perché tutti arriviamo alla “perfezione” della nostra chiamata. Si può tratteggiare con una sequenza di affermazioni come quella che proponiamo:
Non c’è Cristo senza Chiesa; non c’è Chiesa senza pastore; non c’è parrocchia senza parroco; non c’è vocazione senza una comunità materna e senza un “padre” che dell’unico Padre sia icona vivente; non si è padre senza condividere qualcosa dell’anima materna.
Nessuna vocazione, dunque, nasce orfana e cresce senza una sollecitudine tipicamente paterna-materna che è data in concreto da una comunità chiaramente ecclesiale e, nel contempo, da chi in essa ha il carisma della “paternità materna”. Viene qui richiamato un principio attivo della nostra esperienza cristiana: tutti e ciascuno siamo figli o creature della Chiesa. Il titolo di madre dato alla Chiesa viene da lontano, in sintonia con lo stesso titolo dato a Maria; i primi tre secoli dell’era cristiana hanno usato e approfondito il senso di tale nome. “Si tratta di un’attività di reale generazione spirituale; non di un titolo di prestigio o di autorità. Si tratta dell’attività attraverso la quale l’ecclesia ‘fa’ dei cristiani… Se si considerano i cristiani non isolatamente ma nella unità che formano (un’unitas il cui principio sono la carità e lo Spirito Santo), allora essi esercitano tutti, proprio dentro e attraverso questa unità, una maternità spirituale”. Così afferma il compianto cardinale padre Yves Congar, citando il pensiero di sant’Agostino[1].
Madre di ogni vocazione è, dunque, la Chiesa, comunità di cristiani coscienti e corresponsabili. Segno peculiare di questa maternità, indispensabile ad ogni crescita, sono sia gli sposi-genitori sia il presbitero parroco, ambedue segnati da un sacramento che specifica il battesimo ossia il matrimonio oppure l’ordine. Al parroco viene riservato il titolo di padre con reminiscenze non certo sentimentali ma con un radicamento nel mistero della vita che Dio dona ai suoi figli.
Appartiene al ministero proprio del parroco suscitare gli atti spirituali (citiamo ancora Congar) che consentono di incontrare Dio, di far sì che ci si converta al Vangelo e ci si decida ad ascoltare la voce che chiama. Può servire qui una citazione, forse non immediata nella sua comprensione a causa del linguaggio usato ma di grande spessore ai fini del nostro tema:
Biblicamente e realmente c’è un “atto spirituale” innanzitutto quando è veramente l’atto di qualcuno che impegna in esso la sua persona viva, e quando lo Spirito Santo è in esso all’opera. Tale è il senso di “tempio spirituale”, “sacrificio spirituale” e di tante altre analoghe espressioni del cristianesimo. Suscitare, provocare, coltivare tali atti spirituali presuppone che colui che è chiamato a esserne il ministro s’impegni egli stesso come uomo spirituale, e quindi ad altro titolo e in ben altro modo che non come collegamento anonimo, amministrativamente qualificato, di un sistema o di un programma. Se si tratta di noi, preti sacramentalmente ordinati, questo suppone che noi cooperiamo all’opera di Dio ed esercitiamo la maternità della Chiesa ugualmente e profondamente attraverso la nostra vita spirituale personale. In un certo senso è banale il dirlo. Tuttavia lo si è detto soprattutto nel senso di un buon uso o di un esercizio virtuoso delle attività sacerdotali… Bisogna vedere questi aspetti spirituali in una maniera più interiore, più essenziale alle operazioni del ministero istituzionale. San Paolo preferiva parlare come uomo spirituale piuttosto che a nome di un’autorità che pure sapeva bene di possedere[2].
Un profilo, dunque, del parroco “animatore vocazionale”? Uno che “c’è” (con presenza continua, paziente, pronta all’ascolto); uno che sa di essere padre di tutti, con una paternità spesso sofferta; una persona spirituale radicata nel mistero di Dio mediante molta preghiera, molta adorazione e non tante parole; uno che non rivendica mai di essere un servitore indispensabile e non si rammarica se non sempre lo ringraziano.
Note
[1][2] Le citazioni di I. CONGAR sono tolte dalla sua prefazione a Ecclesia Mater (tr. It. Ecumenica Ed., Bari 1974, pp. IX e XXI-XXII).