N.02
Marzo/Aprile 1997

Un sostegno prezioso che dona coraggio e libertà a chi è chiamato a partire

 

 

Il coraggio di prendere il largo

“Sei come una barca che viaggia rasentando la costa senza avere il coraggio di prendere il largo!”

Non ricordo di preciso a che cosa si riferissero queste parole, ricordo solo che mi hanno colpito… e affondato. Erano vere e non si limitavano al fatto cui erano riferite. Erano parole di uno che mi aveva capito, che mi conosceva bene. Si chiama Pietro, allora era il giovane prete, coadiutore (viceparroco… non so come si dice qui), da poco arrivato nella mia parrocchia di Milano. Ricordo che con lui ho iniziato a partecipare un po’ di più alla vita della parrocchia. Perché? Facile! Ci portava in montagna. Non è propriamente una motivazione spirituale!!! Io allora ero uno dei tanti ragazzini da scarrozzare su e giù per i monti e da seguire al sabato pomeriggio in oratorio. Mi ha visto prendere le prime “cotte” e si divertiva a farmi capire che se ne accorgeva.

Un po’ alla volta oltre al cammino in montagna abbiamo cominciato a condividere anche il cammino della vita e della fede. Era per me come un fratello maggiore con cui consigliarmi, sfogarmi e, spesso, con cui divertirmi. Quando sono cresciuto un po’, ho iniziato a dare anch’io una mano nelle attività in parrocchia. Ricordo le serate a parlare dei ragazzini che seguivamo e la gioia di condividere la responsabilità e l’affetto verso i più piccoli. È difficile in poche righe dire tutto quello che ho vissuto insieme a lui: ho condiviso una vita, ho ricevuto ed accolto una fede, vissuta e annunciata… non si può dire tutto con pochi fatti; i ricordi sono tanti, ma nessuno di essi può dire tutto. Quello che è stato, forse, decisivo di don Pietro e del mio rapporto con lui sono state poche cose: mi fidavo di lui, sentivo che era stato messo accanto a me non per caso; lui mi conosceva bene e mi sapeva “colpire” al momento giusto; di lui mi piaceva, e mi piace, l’entusiasmo, la gioia e l’energia nel vivere la vita consacrata a Dio. In questo mi sembra di poter cogliere quello “sguardo di Dio” che è tipico di ogni vocazione nella Bibbia: è Dio che rivolge l’attenzione a ciascuno di noi, che nelle persone che mi mette vicino mi fa sentire che mi ama personalmente, che si interessa proprio di me.

Con Pietro ho vissuto degli anni belli ed intensi e credo che il suo impegno sia stato soltanto quello di far crescere in me la fede, con semplicità e serietà. È stato proprio durante questo cammino di fede che è arrivata quella frase: “Sei come una barca che viaggia rasentando la costa senza avere il coraggio di prendere il largo!”. Ripensandoci oggi, quando sono passati forse quasi 10 anni, mi vengono in mente le parole di Gesù a Simon Pietro “Prendi il largo…”. Sicuramente, come mi capita spesso, non devo aver capito subito l’importanza di quell’invito.

Qualche tempo dopo, però, sono stato io a “colpire” Pietro. Era un periodo particolarmente gioioso per me e quell’invito, fatto di parole e di quell’entusiasmo di vita di cui dicevo, è diventato sempre più pressante: è cresciuto in me il desiderio di condividere la gioia, poter donare ad altri ciò che gratuitamente avevo ricevuto. Dove e come non lo sapevo neppure io: solo una parola, anche se non la capivo del tutto, mi sembrava poter rispondere a questo bisogno: missione.

La prima reazione è stata subito il parlarne con Pietro. Da allora è iniziato un breve, ma intenso anno di confronto e discernimento per capire se e come vivere questa missione. Confronto con un prete che ormai era un vero amico e compagno di viaggio, ma soprattutto confronto con la Parola di Dio. Questo è forse il dono più grande che ho ricevuto in quegli anni: molte persone sono state per me un dito puntato sulla Parola, come quello di Giovanni Battista, un invito ad ascoltare, un invito a seguire Cristo. Ricordo ancora le sere, dopo lo studio (era l’anno della maturità), passate a rileggere le mie giornate, le amicizie, gli incontri e gli scontri, le gioie… tutto insomma in compagnia della Parola. Posso dire con certezza che la mia vocazione è nata lì, nell’incontro con il Vangelo e nel coraggio di prendere il largo sulla Sua Parola. Solo lì ho capito che l’unica vera ricchezza che avevo da portare era la fede, ho capito che era l’incontro con Cristo ad aver fatto bella la mia vita e solo annunciando la sua parola avrei potuto dare gratuitamente ciò che gratuitamente avevo ricevuto.

In quegli anni ho scoperto in Pietro anche molti limiti, ma questi non hanno fatto altro che aiutarmi a capire che dietro di lui c’era un altro, c’era un progetto ben più grande. Non era più, allora, l’esempio attraente di un amico che ha consacrato la sua vita a spingermi, ma la, via che lui insieme con altri ( e qui penso soprattutto ai miei genitori) mi ha indicato.

Oggi Pietro è parroco a Monza; non è più il giovane prete che segue i ragazzini, anche se non ha ancora smesso di fare le sue fughe tra i monti. Io sono qui a Parma, ormai da sei anni con i Missionari Saveriani e da due consacrato alla missione con i voti temporanei. Ci vediamo solo qualche volta all’anno, ma l’amicizia rimane viva e intensa. Tutti e due abbiamo preso il largo sulla sua Parola e questo ci tiene sempre vicini.

Mario

 

 

 

 

Dall’inquietudine alla risposta radicale

Fermarsi, ogni tanto, per ripensare al cammino già fatto è utile per fare un bilancio e “ri-cordare” (etimologicamente “rimettere nel cuore”) tutte le volte che Dio si è fatto presente con maggiore forza per guidare le nostre stelle.

Cominciamo dal principio. Il mio nome è Giacomo, ho 25 anni e sono nato e vissuto a Taranto fino all’età di 21 anni. In seguito mi sono trasferito a Caserta con la mia famiglia. Questo “sradicamento” è stato un passo molto sofferto per tutto quello che ha significato, ma l’abbiamo ritenuto necessario in vista di una più ampia possibilità di lavoro e di carriera per me e mia sorella Stefania, di 20 mesi più grande di me. Infatti io e Stefania abbiamo entrambi ereditato la passione per la musica da nostro padre, docente di canto e direttore di orchestra (attualmente al conservatorio di Salerno); fin da piccoli siamo stati indirizzati allo studio, rispettivamente, del clarinetto e del violino.

Così visto che entrambi studiavamo al conservatorio S. Cecilia di Roma, decidemmo di avvicinarci al luogo dove si svolgevano le nostre attività prettamente musicali. Fino a qualche anno fa unico mio fine da conseguire era quello di diplomarmi al conservatorio (dopo aver già conseguito la maturità) e proseguire speditamente nella mia carriera di musicista perché come mi ripeteva sempre mio padre “Oggi non c’è da perdere tempo, se si vuole trovare una buona sistemazione”. La musica è stata, e lo è tutt’oggi, la mia grande passione ma ora non è più il perno attorno a cui far ruotare tutta la mia vita.

Ciò che suonava stonato allora alle mie orecchie era quella parola “sistemarsi” che diveniva sempre più sinonimo di arrivismo, di lotta senza scrupoli nella scalata verso il successo assicurato. Era il modulo di ragionamento comune ma, se nella mia adolescenza poteva andarmi bene, crescendo era divenuta “una scarpa sempre più stretta”.

Il cambiamento di rotta nella mia vita è iniziato 7 anni fa in un periodo di crisi esistenziale vera e propria. Mi ero reso conto che al mondo non esistevo solo io, la mia musica e i miei piccoli problemi, che pur a me sembravano enormi. Chiuso completamente in me stesso mi rifiutavo di riconoscermi bisognoso di aiuto ed avevo completamente perso ogni fiducia in me stesso e nella vita. Il volto di Cristo sofferente nei poveri che incontravo per le strade di Roma o nelle scomode immagini di bambini dalle pance gonfie e dai grandi occhi trasmesse in TV, nei documentari o nei notiziari, mi aveva messo addosso una inquietudine di cui non mi sarei più liberato.

I tanti impegni di quegli anni (frequentavo contemporaneamente il conservatorio e l’Istituto Professionale per Tecnici di Laboratorio) non mi permettevano di impegnarmi in nessun altro campo e sentivo che la mia vita spirituale era spenta. Trovavo a stento il tempo per andare a messa la Domenica.

In questo periodo in cui vedevo crollare le mie certezze, per lasciare spazio ad un vuoto angosciante, è avvenuto l’incontro che diede inizio, diciamo, ufficiale alla mia “conversione” (inversione a “U”). Fu durante una normalissima Domenica, nella mia parrocchia. Quella volta a celebrare la messa delle 10,30 vi era un Padre missionario di origine messicana. Il suo stile completamente fuori dagli schemi a cui ero stato abitato fino ad allora, le sue parole dette col cuore durante l’omelia mi lasciarono stordito. Sentivo che dovevo a tutti i costi sapere il suo nome. “Antonio Anaya – mi disse – sono un missionario Saveriano. E tu, come ti chiami?”.

Dopo quel breve colloquio, in cui lui aveva voluto a tutti i costi il mio numero di telefono, seguirono altri giorni in cui sentivo crescere in me quel senso di vuoto e la mia crisi andava avanti senza che io riuscissi ad intravedere via d’uscita. Qualche mese più tardi mi vedo recapitare a casa una lettera. Ricordo che non so come, prima ancora di aver letto il mittente avevo già intuito di chi si trattava. Era un invito di P. Antonio a partecipare al gruppo missionario che si ritrovava in casa loro ogni prima Domenica del mese. L’occasione era quella giusta; sentivo che era un “treno che non potevo farmi sfuggire” e questa volta non avevo scuse a cui appellarmi.

Iniziò così per me un cammino di 2 anni in cui, insieme a P. Antonio divenuto nel frattempo la mia guida spirituale, pian piano mi resi conto che forse il Signore mi stava chiedendo di fare una scelta di vita cristiana più radicale e che era quello il motivo della mia strana inquietudine. Ripercorro la mia vita non lo faccio come colui che, messo mano all’aratro, poi si volge indietro, ma è per me un accorgermi dei miracoli che Dio ha compiuto nella mia vita.

Ancora oggi mi capita di ricordare tutte quelle persone che frequentavo da ragazzo e che ora si trovano vuote o che, peggio, sono finite in comunità di recupero per tossicodipendenti. Perché Dio ha chiamato proprio me? La vita missionaria non è uno scherzo e nemmeno cosa da super eroi ma è per coloro ai quali il Signore l’ha preparata.

Ora, anche se la partenza è ancora lontana, la missione mi è sempre di più nel cuore, nella consapevolezza che, come per il profeta Giona, questa vocazione mi è stata data affinché Dio potesse manifestarsi in me; alla conversione dei popoli ci pensa lo Spirito Santo, noi siamo solo strumenti nelle sue mani.

Giacomo

 

 

 

Non è possibile vivere scappando

Mi chiamo Ivan, ho 25 anni e sono un novizio della Congregazione dei Missionari Saveriani. Mi è stata offerta l’occasione di parlare della mia vita e di raccontare come Dio ha agito attraverso di me, ed è una cosa che faccio molto volentieri perché è sempre piacevole e bello ripercorrere con la memoria la strada per la quale il Signore mi ha chiamato.

Nato in una famiglia cattolica e benestante, dopo aver frequentato le scuole medie presso i Missionari Saveriani a Brescia, era nata in me la voglia di continuare questo cammino grazie soprattutto al clima che durante quei tre anni avevo trovato vivendo in comunità. Mi sono sempre sentito a mio agio e il desiderio di andare avanti era legato soprattutto alle persone che avevo conosciuto più che al valore di consacrarmi per la missione. Questa per me era una prospettiva troppo lontana: a 14 anni non potevo pretendere di capire quale fosse la mia strada anche se l’idea della missione in qualche modo mi era entrata nel cuore. E fu soprattutto per questo motivo che i miei genitori mi indirizzarono, con qualche disappunto da parte mia e dei Padri Saveriani che mi avevano seguito, verso una scuola pubblica vicino casa. La loro intenzione era di farmi studiare in una scuola superiore e poi, una volta diplomato, lasciarmi la libertà di scegliere se riprendere il cammino con i Saveriani oppure no.

E fu così che dovetti abbandonare la Famiglia Saveriana e buttarmi in quel mondo che io non conoscevo. Dopo aver superato le prime difficoltà iniziali, sono riuscito a recuperare quel gruppo di amici che dopo le elementari avevo lasciato ed a trovare in esso il modo di vivere gli anni dell’adolescenza.

Dopo solo un anno di scuola abbandonai gli studi per entrare nel mondo del lavoro dove rimasi per cinque anni. Nel frattempo, i fragili rapporti che avevo con il parroco e con l’ambiente parrocchiale in genere andavano sempre di più incrinandosi. Il mio rapporto con la Chiesa si era limitato al puro formalismo della messa domenicale. Il gruppo di amici aveva cominciato a spaccarsi ed io mi trovai, per volere mio o per caso non so, con coloro che con più decisione osteggiavano la Chiesa.

In questo periodo, fino all’età di 20 anni, la mia vita si riduceva alle 10 ore di lavoro giornaliere e alle serate in birreria. In casa il dialogo era praticamente inesistente sia con i genitori che con i fratelli: l’unico sfogo era il ritrovarmi con il gruppo. Fu un periodo critico per me: cominciavo a risentire in qualche modo nostalgia del tempo vissuto con i Saveriani e del clima che vi avevo trovato, nostalgia che a poco a poco si tramutò in consapevolezza che ciò che stavo facendo, la vita che svolgevo non era fatta per me. Inoltre, la simpatia e l’attrazione che provavo per una ragazza non si tramutò mai in nulla di serio proprio perché qualcosa mi diceva che sarebbe stata solamente un’avventura che avrebbe avuto poca vita; non era quella la mia strada e con lei non volevo fare il doppio gioco.

A volte mi succedeva di tornare a casa a tarda notte ubriaco e, con il rosario in mano, di mettermi a pregare. Ad un certo punto tutto divenne insoddisfazione: il lavoro che svolgevo mi piaceva ma oltre alla busta paga mi dava molto poco; la vita familiare era praticamente inesistente; con la compagnia non c’era mai stata vera amicizia.

La svolta venne quando, una sera, nel periodo più buio che io abbia mai vissuto, mi trovai a parlare con mio padre di tutto ciò che non gli avevo mai confidato. Ripresi contatti con il parroco e con i Missionari Saveriani, nel settembre 1991 entrai nella casa per vocazioni adulte di Desio (MI) dove ripresi gli studi di scuola superiore. Dei tre anni vissuti in quella comunità ricordo in particolare il primo. Dovevo ricominciare tutto da zero, soprattutto a livello di fede cristiana di base, quasi un ripartire dai 10 comandamenti!

Fu comunque un anno con mille difficoltà, voglia di tornarmene a casa con la convinzione che non sarei mai riuscito a portare avanti un progetto di vita religiosa-missionaria quale era quella disegnata dal nostro fondatore, il Beato Mons. Conforti. L’idea di dover rinunciare alla mia carriera di musicista proprio ora che stavo per concludere gli studi e che mio padre si aspettava da me che mi mettessi subito a lavoro per ripagare i suoi sacrifici; l’idea di lasciare la ragazza di cui ero follemente innamorato e che era proprio la ragazza ideale per me; l’idea di abbandonare ogni cosa costruita con tanti sacrifici fino ad allora: tutto questo e altro ancora, mi terrorizzava.

Mi convinsi infine che non potevo continuare a scappare per tutta la vita, sperando di non incrociare mai quel fatidico sguardo. Decisi di rischiare. Dopo quel mio timido “Sì” non feci altro. Tutto intorno a me si svolse, stranamente, senza che io riuscissi a rendermi conto di ciò che stava avvenendo. P. Antonio lo disse ai miei, scoppiò la bufera. Ci furono giorni di gelido silenzio a cui seguì una battaglia verbale e psicologica terribile, ma il bello è che chi portava avanti questa battaglia al posto mio era mia sorella, da sempre il mio “angelo custode”.

La mia ragazza dopo i primi momenti di crisi violenta capì il mio conflitto interiore e mi consigliò di proseguire nella mia decisione purché io chiarissi una volta per tutte, in tutta onestà, cosa volevo fare della mia vita.  Se ci ripenso ancora oggi non riesco a credere come quella tempesta, improvvisamente, si sia sedata e la mia famiglia decise, infine, di accompagnarmi a Desio (MI) dove ebbe inizio il mio cammino che mi ha condotto (dopo 4 anni in cui non sono certo mancati momenti di ripensamenti e di eclissi) dove ora mi trovo. Attualmente frequento l’anno di noviziato nella casa saveriana di Ancona e, insieme ai miei 7 compagni provenienti dalle regioni più disparate d’Italia, ci stiamo preparando alla professione dei voti religiosi temporanei (validi un anno) per entrare ufficialmente a far parte della Famiglia Saveriana. Ci aspettano lunghi anni di formazione in cui continueremo o, per alcuni di noi, inizieremo gli studi teologici fino al giorno della professione perpetua dei voti di Castità, Povertà e Obbedienza. Siamo tutti coscienti del gravoso impegno che stiamo per prendere di fronte a Dio e agli uomini per cui ci stiamo sforzando di prepararci al meglio, cercando di ben interpretare la volontà del Signore che chiede ad ognuno un impegno particolare in base alle proprie forze e possibilità. Tutto questo lo facciamo nella gioia e nella fraternità seguendo, o almeno tentando di seguire, l’esempio della prima comunità degli apostoli assidui nella preghiera e attenti al messaggio del Maestro.

Ivan