La comunicazione vocazionale ieri e oggi
Quando mi chiedono: “Perché ti sei fatto prete?” rispondo che non so rispondere: nelle scelte fondamentali della vita c’è sempre qualcosa di imponderabile che non è possibile ridurre al due più due fanno quattro. Però la mia memoria evoca immancabilmente don Lorenzo. C’è lui all’origine della mia scelta? Non sono in grado di motivarlo. Ma siccome da quel paese di montagna di mille abitanti partimmo in molti per diventare preti, frati, monache e suore, è innegabile che quell’uomo avesse una spiccata capacità di comunicazione vocazionale.
La comunicazione vocazionale ieri
Come era don Lorenzo? Il suo identikit non corrisponde ai “santi sacerdoti” sempre inginocchiati davanti al Sacramento, con il corpo ascetico, la voce sospirata, il collo inclinato, la camminata edificante e gli occhi perennemente a terra. Era basso e grasso, con il volto rubicondo come un fiasco di vino rosso, irascibile e manesco. Gli schiaffi e i calci che ho preso per gli scherzi terribili – una volta arrivammo a mettere l’esplosivo per le mine nel turibolo – che gli combinavamo!
Don Lorenzo però teneva sempre aperta la porta della grande casa parrocchiale e noi bambini potevamo entrare quando ci pareva a scorrazzare nella sua cucina, nel suo studio, perfino nella sua disordinatissima camera da letto. Non potevamo fare questo in nessuna delle altre case. Noi più affezionati – nonché i più vivaci e scalmanati – lo aiutavamo (?) a preparare la chiesa e le funzioni, lo accompagnavamo a benedire le case, ad assistere i moribondi (una cosa che oggi sembra impossibile), ad andare alla stazione ferroviaria giù nella valle (8 km a piedi per scendere e altrettanti per tornare al paese) quando doveva recarsi in città.
La sua vita ci incuriosiva, meravigliava e stupiva. Aveva cose che nessun altro nel paese aveva. Per esempio i libri. Il suo studio privato all’ultimo piano, mia meta preferita, traboccava di libri ammucchiati alla rinfusa nel grande armadio che copriva una intera parete, sul tavolo ovale al centro della stanza, sopra le sedie. Tra quella confusione incantevole, trovai un libricino su don Bosco che non gli ho più restituito e che ho letto non so più quante volte.
Faceva cose diverse da tutti gli altri. Totalmente immerso nei problemi della gente, provvedeva a ottenere l’assistenza comunale ai più poveri, distribuiva gli aiuti del “popolo americano” fatti pervenire dalla P.O.A. (Pontificia Opera d’Assistenza), andava in città per sbrigare le pratiche burocratiche. Compiva il suo lavoro con entusiasmo, anche se non senza smaccate partigianerie. Aveva coraggio. Battagliava senza paura con i comunisti, in maggioranza nel paese, assistendo ai loro comizi nonostante i lazzi e le prese in giro e polemizzando a viso aperto a suo rischio e pericolo: una sera rimediò un pugno da K.O.
In chiesa, quando durante le campagne elettorali tuonava contro i “senza Dio”, si agitava a tal punto che gli si bloccava la voce e dovevamo correre in cucina a prendergli un bicchiere d’acqua. Era sicurissimo che la Chiesa avrebbe vinto e che “le forze dell’inferno non avrebbero prevalso”. Disordinatissimo in casa, era precisissimo in chiesa. Ci impressionava il senso di ministero con cui sillabava le parole della consacrazione.
Era soggetto a interminabili emorragie nasali – curate con tabacco che ci permetteva di annusare divertendosi per gli starnuti che ci provocava – dalle quali però non si lasciava per nulla condizionare, nonostante lo colpissero nei momenti più impensati, anche durante le funzioni. Era aperto alle novità. Possedeva l’intera collezione dei cartelloni per il catechismo – ce li ho ancora stampati nella memoria – e tantissime filmine sulla vita dei santi – quella di san Tarcisio era la mia preferita – e la Bibbia. Le commentava con entusiasmo come storie avventurose. Da quei racconti sicuramente è scaturito il mio amore per la Bibbia. Possedeva una grande radio, che portava in chiesa per fare ascoltare i discorsi di Pio XII, e il giradischi. Chiamava spesso due giovanotti a fare il cinema per la gente nella sala parrocchiale. Aveva comperato anche una Vespa per andare in città, ma dopo aver provato e riprovato, sulla piazza del paese, a starci sopra, inutilmente sostenuto dal nostro tifo, l’aveva parcheggiata davanti casa. E tutti i giovanotti che volevano ci potevano fare un giro. Era lui a portare le novità nel paese. Nelle feste più grandi, con grande nostro divertimento per la saliva che perdeva nello sforzo di reggere lo strumento,chiamava il vecchio padre a suonare il violino durante la messa.
Bonaccione all’apparenza era però terribilmente esigente. Quando si prometteva qualcosa, bisognava farla. A novembre, quando la messa per i defunti veniva celebrata prestissimo, prima che la gente si recasse nei campi per la semina, se non ti presentavi, come promesso, al secondo suono delle campane, veniva a casa a buttarti giù dal letto. Non si sgarrava. E se sbagliavi a dire il rosario, a suonare il campanello, a dare le ampolline, niente cioccolato, niente biglietti per il cinema. E schiaffoni.
Don Lorenzo, infine, trovava sempre il modo e l’occasione di lanciare la proposta diretta. Ricordo come fosse adesso. Stavamo attorno al suo tavolo mentre mangiava un piattone di pastasciutta con un enorme tovagliolo bianco infilato nel collarino. Posò la forchetta e: “Tu, tu, e tu, avete la stoffa per diventare preti. Ci dovete provare”.
Quest’uomo, così lontano dal cliché del “santo prete” che mi avrebbero poi decantato in seminario, ha messo in cuore a una quindicina di ragazzi (poi soltanto io sono diventato prete) e altrettante ragazze (quattro sono monache e una è suora) il desiderio di una vita diversa.
La comunicazione vocazionale oggi
L’incisività della comunicazione di don Lorenzo (e di tanti preti e suore di quel tempo) derivava dai seguenti elementi:
– lo stupore che nasceva dalla compagnia con la sua vita quotidiana;
– la sensazione netta che egli avesse qualcosa in più e di diverso,
– l’apertura al nuovo e la promozione del nuovo;
– l’entusiasmo nel comunicare la Parola e la certezza di stare dalla parte migliore e vincente;
– la serietà e l’impegno che esigeva;
– il coraggio, quasi sfrontato, di fare la proposta vocazionale.
Elementi che sono alla base di ogni comunicazione efficace e che oggi non sempre sono presenti nella comunicazione vocazionale.
Oggi è molto rara la “compagnia” dei ragazzi e dei giovani con la vita quotidiana del prete. Lo vedono quando celebra, e lo ascoltano quando predica o fa il catechismo. Ma lo stupore e la meraviglia che spingono a compiere una scelta di vita nascono dalla vita, non dalle prediche.
Oggi, troppo spesso, la vita del prete non appare eccezionale, se non “in negativo”: è colui che non si sposa. Per il resto il prete è uno che fa tante cose e va sempre di corsa. Esattamente come tutti gli altri.
Oggi, troppo spesso, i preti appaiono ai ragazzi e ai giovani come coloro che hanno paura del nuovo e lo ostacolano. Girando per l’Italia non faccio che incontrare catechisti e animatori delusi perché: “Tanto il parroco non vuole, non accetta, non cambia”. Rifiutare il nuovo significa staccare la spina di ogni comunicazione con i giovani.
Oggi, troppo spesso, i preti (e le suore) danno ai giovani la sensazione di servire una causa perdente, al crepuscolo; di essere i mesti e stanchi continuatori di funzioni e pratiche che cambiano soltanto per il numero sempre più esiguo di partecipanti. Questa sensazione è disastrosa per la comunicazione vocazionale, perché nessuno sale su una barca che minaccia di affondare. Conquista e contagia la gioia di chi ha trovato un tesoro, non il lamento di chi ha perduto il portafoglio.
Oggi, troppo spesso, la Parola appare ai ragazzi e ai giovani come uno sbarramento di no a tutto quanto di bello e seducente la società offre, oppure come un baloccamento di cultura biblica: “Marco 8,13, corrisponde a Matteo 16,28, che si ritrova in Deuteronomio 21,6, già presente in Genesi 12,28…”. I no e lo sfoggio di cultura non accendono il desiderio dell’avventura.
Oggi, troppo spesso, i ragazzi e i giovani trovano nelle esperienze proposte dai preti lo stesso lassismo e lo stesso “lo faccio se me la sento” di tutti gli altri ambienti della società.
Oggi, mancando la “compagnia della vita” i ragazzi e i giovani non hanno molte occasioni di sentirsi rivolgere, in modo personale e coinvolgente, la proposta vocazionale.
La comunicazione vocazionale domani
Come ridare forza alla comunicazione vocazionale che 50 anni fa funzionava in don Lorenzo e in tantissimi preti e suore come lui? È presto detto: è necessario ricreare – adeguati all’oggi – gli elementi che stavano alla base di quella comunicazione. D’altra parte, chi non sa che molte delle attuali vocazioni nascono nei gruppi e nei movimenti, dove, in forma aggiornata, si ripete la “compagnia con il prete”che don Lorenzo offriva ai suoi tempi?