N.03
Maggio/Giugno 1997

Parola, immagine e musica: per quale comunicazione vocazionale?

Noia… fastidiosi rumori… strani silenzi… Con questi termini un osservatore adulto definirebbe l’attuale situazione giovanile. Spesso, la percezione che un adulto ha dei giovani di oggi è che essi non hanno “parola”, soffrono di afasia, non leggono più e, perciò, hanno perso la capacità di riflettere e di vivere una certa interiorità. Per questo motivo è sempre più difficile portare avanti l’animazione vocazionale: troppa musica, troppa TV, troppe immagini. Dinanzi a tale situazione ci sono coloro che si adoperano per evitare alle nuove generazioni spettacoli poco edificanti o musiche “sataniche”; oppure chi inventa nuove forme di comunicazione pastorale (nella catechesi, nella liturgia, nel territorio…), usando miti e simboli del nostro tempo.

In realtà, vista dall’“interno”, la condizione giovanile è ben più articolata e complessa. Presenta tratti ambivalenti che abbinano impennate di grandi solidarietà a gesti sconvolgenti, senza senso. Da parte mia, ritengo l’attuale condizione giovanile specchio di una realtà sociale più ampia ed emblema del malessere dell’età adulta. Pertanto, davanti alla realtà dei giovani nessun educatore, genitore o insegnante può assumersi il ruolo di osservatore distaccato. Infatti, in quello che essi vivono si può trovare uno specchio di come viene interpretata oggi l’età adulta, e una verifica della propria opera educativa. Entriamo, quindi, nel gioco comunicativo che ci richiede il nostro tempo e immergiamoci, senza esserne travolti, nell’universo giovanile.

 

La situazione

Figli dell’immagine, i nostri giovani sono cresciuti in una sorta di nuova cultura “orale”. Narrazione, sogno, immaginazione, coinvolgimento emotivo sono gli elementi prevalenti del comunicare nell’attuale mondo occidentale, a cui non mancano, però, né le parole, né l’interiorità. Tuttavia, non si tratta dell’interiorità che noi cristiani siamo disposti a riconoscere; non è “canonica”, non segue le regole dettate dalle nostre tradizioni, per cui ci rifiutiamo di accettarla, anzi… di “vederla”. Ma chiediamoci: cosa esprimono i cosiddetti “graffiti metropolitani”? Oppure le chitarre distorte del rock o l’eterno ripetersi dei campionamenti dei brani da discoteca? E ancora, cosa vogliono dire gli abiti scuri, l’ostentazione del corpo, l’assimilarsi al mash, all’immondizia? Le risposte possono essere tante e dare avvio ad analisi molto articolate, ma ciò che emerge in modo evidente è l’ambivalenza. I ragazzi di oggi navigano talvolta sull’onda dei sensi, dell’istinto, della carnalità e tal’altra sulla spinta di strane forme di trascendenza, di un certo spiritualismo, di miti arcaici. Si dedicano con grande entusiasmo a gesti di solidarietà e subito dopo si lasciano andare a comportamenti di egoismo collettivo. Si dedicano, misticamente, ad internet, eppure vivono una profonda solitudine. L’elenco potrebbe continuare, ma mi sembra utile, per la nostra riflessione sulla comunicazione vocazionale, introdurre qualche elemento di lettura della realtà che ci aiuterà a individuare delle linee di intervento. Proporrei, pertanto di leggere la condizione dei giovani d’oggi seguendo tre categorie: il sogno, il limite, l’effimero.

 

Il sogno

Con questa parola indico la voglia di felicità che c’è in ogni uomo. Sognare significa incontrare i propri desideri e le proprie paure, ma vuol dire anche trasformare idealmente la realtà o, almeno, trasfigurarla nella propria fantasia. L’esistente ingiusto, che opprime il cuore di ognuno, emerge e/o tramonta grazie ai sogni. No, non parliamo qui di psicanalisi, ma, più semplicemente, della vita; il sogno non è il subcosciente che emerge, piuttosto è il luogo del “non detto”, del non confessabile, dell’inesprimibile. Ma tutto questo cosa c’entra con il nostro discorso? Innanzitutto, i giovani d’oggi si nutrono di sogni (come sanno bene i mercanti di turno, i venditori che fanno leva su quei desideri che ognuno porta dentro: la voglia di star bene, di essere realizzato, di trovare pace e riposo nel cuore, insomma di essere felice). E, ancora: cosa è il sogno se non l’espressione della trascendenza umana. Infatti l’interiorità e la spiritualità sono l’intrecciarsi, in un continuo confronto, dei desideri profondi, delle paure recondite, della reale condizione in cui si vive. Per cui, l’uomo riesce a intravedere nella mutevole realtà circostante i tratti del proprio sogno, la presenza di “qualcos’altro”. Egli va al di là di ciò che gusta ora, perché la sua sete è più profonda. Quindi, il nostro tempo non chiude la porta alla spiritualità e, nonostante i rumori e la confusione, i ragazzi sono vicini alla loro interiorità, più di quanto si possa pensare.

Oggi, dunque, ci si nutre di sogni, più o meno artificiali. Tutti viviamo di emozioni e siamo attratti dal sogno più grande: vivere bene e in maniera autentica l’amore. E al centro di questa tensione vi sono certamente più i giovani che gli adulti.

 

Il limite

Chi spegne il “grande sogno”? Di certo l’esperienza del limite: la sofferenza, la fatica, le proprie e altrui incapacità, la morte. Il peso del limite è molto presente nel nostro tempo. Da un delirio di onnipotenza, vissuto nei secoli scorsi e nell’odierna rivoluzione tecnologica, si è passati a una fragilità e a un’insicurezza che potremmo definire generazionale.

Il senso di vuoto, di solitudine “lasciatoci in eredità”, ci fanno percepire, in modo spesso lacerante, che tutto, prima o poi, finisce. Le cose più belle, soprattutto, sono destinate a svanire, a durare il tempo di un attimo.

Sperimentiamo, quotidianamente, un sentimento di impotenza nel tentare di determinare la vita e le relazioni, così che possano procedere senza difficoltà. La volontà che mettiamo nel cercare di controllare, di stabilire condizioni, si esaurisce nel senso del limite che portiamo dentro e da cui ci sentiamo “spegnere”. Sembra, insomma, che il nostro tempo, in modo più o meno consapevole, scopra di non essere padrone della vita né dell’amore.

Da questo “arido deserto” che è il limite, i giovani d’oggi vedono germogliare solitudine, delusione, amarezza e rabbia. Tutto ciò è evidente nelle frustrazioni consumistiche: non abbiamo mai abbastanza, siamo felici solo in quello che di nuovo desideriamo, solo nel senso di scarsità che nutriamo.

 

L’effimero

È il luogo dove sogno e limite si incontrano e si scontrano. Effimero è ciò che dura poco, ma è pure l’ambito in cui gustare l’eternità. L’attimo si fossilizza nei ricordi, diviene gabbia se ti inchioda nella paura di perderlo, ma ti apre al fiorire dei sogni se lo gusti come luogo della felicità e lo relativizzi rispetto a quanto ancora potrai vivere. Effimero è tutto ciò che pare e, in realtà, non c’è. Spesso è un’illusione, un miraggio che sembra più reale del reale, ma è anche spinta, suggestione, voglia di vivere.

Effimera è l’immagine dei nostri teleschermi, così come la memoria dei computer, ma lo è pure il suono di una sinfonia o la bellezza di un tramonto. Evanescente è l’emozione di un concerto rock o l’ebbrezza di uno spinello o la suggestione di un film, così come il sapore del pane o la dolcezza di un bacio o il calore del respiro della persona che ami. Illusoria è la passione dei sensi, il trasporto degli istinti, la pulsione della carne, come lo è pure la spinta di un ideale, l’enfasi di una liturgia, la certezza di avere la verità. Dunque, l’effimero non è diabolico di per sé. Lo diventa (nel senso di separare, diaballo) nel momento in cui, nella persona, non si armonizzano sogno e limite.

 

Gli itinerari

Proprio da questa armonia deve scaturire la “riconciliazione” con la propria vita, la consapevolezza di non essere né buoni né cattivi, ma solo e semplicemente se stessi. L’essere “qualcos’altro” rispetto alla nostra natura, non deve diventare una “necessità” costante, una sorta di ossessione che altro non provoca se non ostacolo nel “ritrovarci” in quell’armonia. Invece, dalla società dei consumi impariamo che se si è poveri, dobbiamo desiderare la ricchezza; se si è brutti, dobbiamo cercare di essere belli o almeno apparirlo il più possibile; se si è peccatori, dobbiamo cercare la purezza angelica; se si è fuori dalle regole, dobbiamo rientrarvi, pena l’emarginazione o la dannazione. È un continuo inseguire la felicità, trainati da un sogno logorante che però, frustra continuamente, sbattendo in faccia, volta per volta, oggettivi e inevitabili limiti, che divengono perciò una maledizione.

Questa dinamica appartiene non solo al nostro tempo, ma anche a un certo tipo di religiosità e di formazione vocazionale. E viene fuori dalla codificazione di una verità che si traduce in un’osservanza etica. La verità dell’uomo sta nel consumare? Bene, sarai veramente te stesso solo se consumerai. La verità è la Chiesa, oppure un certo modo di vivere la fede? Bene, sarai felice solo se rispetterai le regole di quella Chiesa, solo se sarai ossequioso ai dettami della vera fede. Alla fine, però, tale visione costruisce solo discriminazione e sistemi di potere, non libertà d’essere.

Al contrario, il messaggio evangelico ci dice che la verità è partecipativa: si incontra nell’effimero delle relazioni e del confronto fra le diverse identità. Il sogno dell’uomo, l’amore, ha come fonte il Padre che si può scoprire nel gioco degli incontri umani, nell’intrecciarsi dei desideri, nell’incanto dell’ambiente, nel silenzio dello sguardo contemplativo che si rivolge a se stessi e agli altri.

A farci riscoprire questa dimensione evangelica della verità è proprio il caotico accavallarsi di emozioni, immagini, informazioni e rumori della nostra società. La verità come pretesa oggettiva, come definitiva acquisizione del senso, svanisce dinanzi al molteplice mutare di conoscenze, di criteri di valutazione, di visioni e punti di vista. Viviamo, infatti, in un confronto costante con una realtà sempre più cosmica, complessa, frutto dell’intreccio di culture, di popoli, di fedi

 

Alcuni criteri di intervento

La forza della comunicazione di massa odierna sta nella sua capacità di muovere le folle attraverso le emozioni, i sogni, la narrazione. Ciò muta e influenza anche i modi della comunicazione interpersonale. Perciò, un’animazione vocazionale che voglia muoversi all’interno di questo scenario dovrebbe seguire i seguenti criteri:

– Evitare un uso estemporaneo e solo strumentale dei linguaggi mediali. Spesso capita di incontrare animatori vocazionali o catechisti che si sentono al passo con i tempi solo perché hanno utilizzato un video registratore o delle diapositive. Usare immagini o creare emozioni non è né semplice né sempre necessario e bisogna, comunque, saperlo fare. Pertanto, occorre procurarsi una competenza di base e progettare bene itinerari formativi in cui l’uso dei linguaggi è organico a un cammino di crescita.

– Stimolare a prendere consapevolezza delle proprie sensazioni. Gustare le emozioni suscitate da un’esperienza, da un gioco, da un film… E, attraverso ciò, richiamare sensazioni o emozioni analoghe, ma legate a momenti più profondi e fondamentali della propria vita.

– Puntare a far esprimere le proprie sensazioni con i vari linguaggi: da quelli mediali e tecnologici, a quelli verbali e non. In questo modo si aiuteranno i ragazzi ad incrociare i propri sogni, a focalizzare i desideri più profondi e veri.

– Tutto ciò è preludio a un cammino vocazionale veramente coinvolgente che, in sostanza, è un cercarsi e ritrovarsi nella relazione profonda con se stessi, con gli altri, con Dio.

– Corpo, sensi, emozioni possono essere strada per arrivare alle radici della propria esistenza, senza escludere nulla. Infatti, anche le esperienze negative devono essere rincontrate, rilette, in un clima di riconciliazione, in modo da evidenziare i sogni che stanno alla base dei propri errori e per accogliere i limiti che sono emersi.

– Ballare, suonare, recitare, incontrarsi, non devono essere utilizzati solo come un modo per “attirare” i giovani; sono, piuttosto, dimensioni fondamentali dell’esistenza. Esse, quindi, vanno fatte vivere bene e in maniera creativa e personalizzata. Pertanto, un buon itinerario vocazionale dovrebbe tenerne conto, al fine di far emergere ciò che ciascuno è e favorire autonomia di giudizio e senso critico.

– Occorre fare in modo che siano i giovani stessi a ricreare immagini, a rivivere situazioni, a sentirsi immersi in emozioni create dal gruppo, dal gioco, dall’incontrarsi.

– Rileggere il vangelo con l’occhio dell’uomo d’oggi, non sottacendo aspetti e problematiche “scomode”, ma neppure rinunciando a uno studio serio e rigoroso.

– Come educatori, entrare nelle forme espressive di oggi. Costerà fatica e di certo non le si dovrà avallare tout court, tuttavia impariamo ad esercitare l’accoglienza e ci accorgeremo che l’animazione vocazionale mette in gioco per primi gli stessi animatori. Non solo nei loro modi di comunicare, ma anche nel loro modo di vedere la vita e la persona umana.