L’uomo, in via, verso un approdo sicuro

Quest’estate vado a Santiago. Sì, a Santiago di Compostela. Non ci vado né piedi né in bici, come fanno molti. E fanno bene. Ci vado in aereo fino ai Pirenei e poi in pullman con una cinquantina di persone, tutti amici già allenati a questo modo di viaggiare. Facciamo un pellegrinaggio lungo il “Camino” di Santiago, che è una di quelle esperienze che più di molte altre aiutano a capire le dimensioni molteplici, antropologiche, culturali e religiose del pellegrinare.

Certo, ormai questi “percorsi” si fanno intensi: sta emergendo sotto la polvere dei secoli la “via francigena” e la “via romea”, grande cammino medievale che attraversa l’Europa Nord-Sud verso Roma come il “camino” la trapassa Est-Ovest verso Santiago. Il Medioevo aveva capito molte cose dell’animo umano, anche questa: il percepire acutamente, nel viaggio verso una grande meta, il senso della provvisorietà dell’esistenza, ma anche il suo significato eroico. Alla radice ci stava allora (e anche adesso) l’andar pellegrinando verso la Tomba Vuota di Gerusalemme: il “santo viaggio”.

 

Le motivazioni “forti”

Forse bisogna rifarsi a quelle primitive sensazioni per prender fiato anche oggi. Il pellegrinaggio medievale, e quello del “camino di Santiago” particolarmente, ruotava intorno ad alcune intuizioni religiose collegate fra loro: i Corpi Santi, cioè quelle tombe che conservavano le preziose reliquie di personaggi dell’antica primitiva esperienza cristiana; i Luoghi Santi, cioè quelle stupende basiliche romaniche che sulle gloriose tombe la fede aveva costruito; i Segni Santi, cioè quei fatti straordinari, miracoli e apparizioni, che la fede invocava quasi a divina conferma della santità dei luoghi; i Viaggi Santi erano così gli itinerari che davano uno spessore religioso, alla ricerca di una santità perduta, all’istinto di vagabondaggio e d’avventura. È facile intuire che il tutto nasceva, per così dire, come un’eco di quella nostalgia per la Grande Tomba Vuota di Gerusalemme e dei Luoghi Santi della Terra di Gesù, prima grande meta del pellegrinaggio cristiano. Anche il pellegrinaggio moderno si inserisce in questa forte tradizione, pur non abdicando a queste coordinate che, ad esempio nel “camino di Santiago”, sono evidenti e fondanti, in alternativa all’impossibile viaggio a Gerusalemme ed anzi, quasi a surrogarne l’importanza con un tracciato tutto europeo, e oggi diremmo eurocentrico.

Questi riferimenti alla storia (a partire dalla cronaca d’attualità) sono come la cornice – e ignazianamente potremo dire la “composizione di luogo” – di questa breve riflessione sull’antropologia del Pellegrinaggio. La domanda di fondo potrebbe essere questa: ma qual è la spinta, la molla, la motivazione profonda (dall’inconscio fino alla piena consapevolezza) che mette una persona per strada, trasformando un normale sedentario in un pellegrino?

Tentando una risposta che sappia diventare paradigmatica per ogni itinerario, mi pare di poter dire che il grumo di motivazioni è spesso indefinito: solo un sapiente discernimento delle singole componenti può far emergere il senso del tutto. Si va dalla sete d’avventura al bisogno dello stacco da un quotidiano abitudinario; da una profonda fede religiosa a un vago senso del sacro; da una sensazione acuta di provvisorietà ad un’attesa di nuovi assetti e certezze. E via discorrendo. Provo ad evidenziare qualche linea esperienziale interpretativa del complesso fenomeno.

 

Verso un approdo “sicuro”

Partirei dalla meta. Appunto, come dice il titolo, un “approdo”. Sicuro possibilmente. “Ma torneremo taciti a ogni approdo”. È un verso stupendo di Vittorio Sereni, poeta lacustre (nato e vissuto a Luino sul Lago Maggiore). Chi è nato sul lago sa che cosa significhi un “approdo”. È quello che il pellegrino cerca, scegliendo la sua meta. Chi va a Lourdes e chi a Fatima. Chi in Terra Santa e chi alla tomba di Pietro. Chi al santuario alpestre dove si conserva un’icona dall’improbabile dedicazione e chi a Santiago, come me.

Ma queste sono “mete intermedie”, “approdi provvisori”. Ciò che qualifica il pellegrino è il sentirsi sempre in cammino perché la meta definitiva è sempre oltre: “Non habemus hic manentem civitatem, sed futuram inquirimus…” (Eb 13,14).

Mi soccorre un ricordo personale: un vecchio prete, un po’ bizzarro, era stato così affascinato dal suo ultimo viaggio in Terra Santa (era ormai più che ottantenne!) che, tornato a casa, aveva fatto incidere sulla tomba dei parroci nel suo piccolo cimitero agreste: “Vidi Jerusalem terrenam, expecto coelestum”. Quando alcuni anni dopo lo seppellimmo in quella tomba fu come una festa: il pellegrino era arrivato alla meta. “Ma tornammo taciti a ogni approdo”

 

Mediante continui “distacchi”

La meta, dunque. Sì, ma il pellegrinaggio si definisce anche dalla partenza: essa è un distacco. E quanto simbolico anch’esso! Mi lascio andare ancora con nostalgia alle mie origini: per chi vive o ha vissuto sul lago la sponda ha ambedue le valenze: approdare alla riva, ma anche staccarsi dalla stessa riva. Sbarcare e imbarcarsi, insomma.

Il viaggiare verso un approdo implica sempre l’abbandonare una sponda: cercare una sicurezza, perdendone un’altra. Un proverbio senza fantasia recita: “chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quel che lascia e non sa quel che trova”. Ma questa, che non è la scelta dei ragionieri e dei calcolatori, è l’unica logica del pellegrino.

È stato detto ad Abramo: “Lascia”. “Il Signore disse ad Abramo: Vattene dal tuo paese, dalla tua patria, dalla casa di tuo padre verso il paese che io ti indicherò” (Gn 12,1).

Così inizia la storia di un popolo, la storia di tutti i popoli che hanno Abramo per padre: con uno strappo dalla propria terra perché si inizi un cammino verso una nuova terra, una nuova patria. Il pellegrinaggio (anche il più breve) comprende, con la meta, anche il distacco.

 

Nell’esperienza della precarietà

E di qui nasce una terza componente simbolica e pedagogica insieme: l’esperienza della precarietà. In pellegrinaggio, per quanto confortevoli siano ora i bus e i treni, nonché i grandi vettori transoceanici, non si porta con sé che l’essenziale. Spesso anche meno dell’essenziale. Segno di quell’andare ospiti sotto la tenda, tipico dei viaggiatori antichi che, appunto, la strappavano da terra il mattino per ripiantarla la sera. Senz’avere mai “manentem civitatem”.

Abituati come siamo ad ogni forma di possesso comodo e facile, ad ogni sicurezza per il presente e il futuro, ad un ancoraggio morbido che consente le mollezze d’un benessere che ottunde ogni velleità e ogni pulsione, quanto ci farebbe bene l’esperienza della precarietà del viandante! L’abbiamo perfino dimenticata, come valore, riducendola a infausta sconfitta quando ci tocca di sperimentarne il morso: precarietà e povertà, sorelle gemelle di cui solo il pellegrinaggio può tornare a farci gustare il sapore.

 

Sorretti dall’amicizia solidale

E nella povertà un altro valore viene scoperto: quello dell’amicizia solidale dei compagni di viaggio e quello dell’amichevole accoglienza d’una ospitalità insospettata. Sono valori che il pellegrinaggio quasi d’istinto ci fa scoprire.

È bello infatti camminare con gli altri, è bello essere accolti, a sera, con un abbraccio caldo e fraterno: la stanchezza del viaggio si dissolve nell’ospitalità così come si era dissimulata nella compagnia. Bisognerebbe citare i due pellegrini di Emmaus, partiti “tristi” in cerca di un “approdo” e scopertisi col cuore ardente mentre un compagno di viaggio parla lungo la via e si siede ospite alla mensa serale.

È la dinamica antropologica del pellegrinare dentro cui, proprio in forza della precarietà imposta dalle sicurezze lasciate e dagli approdi non ancora conseguiti, si rivela l’imprescindibile ricchezza del bastone amico a cui appoggiarsi sul sentiero e l’impareggiabile tenda in cui si è fraternamente accolti per la sosta. E il simbolismo è trasparente per ogni cammino: reso più leggero se vissuto in solidale compagnia e rallegrato da ospitale accoglienza. Valori che danno senso non solo al pellegrinare, ma anche e soprattutto a quel cammino spesso impervio che è la vita, con le sue scelte e i suoi passaggi difficili.

 

Plasmati dalla pedagogia del “viaggio”

E parlando di simboli e segni, che l’esperienza del pellegrinaggio contiene come perle preziose in uno scrigno, è suggestivo considerare, infine, la preziosa “pedagogia” del viaggio che aiuta e allena a trascendere e trascendersi. C’è sempre un “oltre” e un  “altrove”.

Il grido del pellegrino compostellano “Ultreja! Ultreja!” risuona nell’animo di ogni uomo, non solo come un appello ma come una nostalgia. Sono andato a rileggermi un testo giornalistico scritto alcuni anni fa sul giornale locale a cui collaboravo. In presenza di un forte “ritorno” del Medioevo (cultura o moda che fosse in quegli anni) mi venne da scrivere:

“Sì, il Medioevo ci affascina perché, al di là di tutte le frantumate esperienze e le contrastanti immagini con cui ci si rivela, lascia trasparire una chiave di unità, fondante e stringente, che la nostra cultura, smaliziata e presuntuosa, s’accorge d’aver smarrito. Questa radice ci affascina, suggerendo talora nostalgie ingenue e ingiustificate, reazioni proterve e scomposte, rifiuti e negazioni preconcette, abbandoni acritici e rimpianti sentimentali; e tuttavia – nel bene e nel male – questa radice ci affascina. Proprio per la sua profonda, fondante unità. Per la sua capacità di far da caposaldo (‘pietra d’angolo’, ma la ‘pietra’ era Cristo!) ad una civiltà dai mille toni e dai mille colori – poliedrica come le grandi vetrate di Cattedrale – ma anche profondamente unitaria. Che è proprio ciò di cui abbiamo la sensazione d’aver bisogno, noi eredi lontani di quel ‘pensiero forte’, dispersi e, diciamolo pure, un po’ smarriti dentro i meandri della cultura del ‘pensiero debole’. Ritorno all’indietro, dunque?

Freudiano rifugio placentare dentro la sicurezza del seno materno? Ripiegamento al porto sicuro dopo le avventate scorribande in mare aperto e agitato? Forse per molte ‘coscienze deboli’ le ipotesi dissacranti non sono del tutto escluse. Ma a noi pare che in questa riscoperta del Medioevo ci sia ben di più. O almeno ci possa essere. È l’inestinguibile sete dell’Assoluto a cui l’uomo medievale era riuscito a dare un nome e un volto. Nella consapevolezza o nella tensione inconscia questa sete non si è estinta neppure nel cuore dell’uomo moderno”[1].

La sete del pellegrino è pure essa simbolica, così come la sua fame e il suo freddo, la sua solitudine e le sue paure, i suoi rischi e le sue incertezze. È sete di Assoluto. Come quella dell’uomo di ogni tempo. “Ci hai fatti per te, o Signore e il nostro cuore è inquieto finché non riposi in te”. L’inquietudine agostiniana è così bene espressa nel simbolismo del pellegrinaggio che viene voglia di pensare che i cammini biblici di Abramo e di Elia, di Mosè e del suo popolo, di Cristo tra Galilea, Samaria e Giudea e dei suoi discepoli da Gerusalemme e fino agli estremi confini della terra, altro non siano stati che segno e profezia del pellegrinare dell’uomo, in cammino verso un “altrove” e alla ricerca tacita di “ogni approdo”.

 

 

 

 

 

 

Note

[1] G. ZACCHEO, Segni, Interlinea Edizioni, Novara 1995, 67-68.