Si diresse decisamente verso Gerusalemme…
Il “pellegrinaggio” con cui si lascia la propria “casa” lo spazio del noto, dell’abituale e del profano, e si va verso il “santuario” lo spazio del sacro, del divino e dello stra-ordinario, è la metafora per eccellenza della esistenza umana come vocazione: come esistenza al cui interno risuona la voce di un appello che chiede all’io di abbandonare, come Abramo, la sua terra, per una terra totalmente altra, dove fioriscono la benedizione e la felicità.
Secondo il racconto neotestamentario anche Gesù, non diversamente dagli ebrei osservanti del suo tempo, ha praticato il pellegrinaggio, recandosi a Gerusalemme ogni anno per celebrarvi la pasqua, come riferisce Luca quando parla del suo ritrovamento tra i dottori all’età di 12 anni: “I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme, per la festa di pasqua” (Lc 2,41).
Ma più che per la pratica del pellegrinaggio, Gesù si caratterizza, per il racconto neotestamentario, soprattutto per il fatto che egli svela il senso escatologico, cioè ultimo, del pellegrinaggio. Il raccolto sinottico infatti presenta l’attività pubblica di Gesù entro lo schema geografico di un viaggio che inizia a Nazareth, nella Galilea, e si conclude definitivamente a Gerusalemme: “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, [Gesù] si diresse decisamente verso Gerusalemme” (Lc 9,51). L’esistenza di Gesù è tutta tesa verso la città santa. È questa la meta alla quale egli tende, il fine ultimo del suo dire, del suo agire e soprattutto del suo morirvi dando la sua vita in sacrificio: “Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno” (Mt 16,21ss).
Gerusalemme simbolo di violenza
Gesù si dirige “decisamente” verso Gerusalemme perché è il luogo della sua passione e della sua morte, dove dovrà “soffrire molto”, fino alla condanna sulla croce comminatagli dal potere romano e dalle autorità giudaiche. Ma come è possibile volere la propria morte e volerla “decisamente”, come sottolinea esplicitamente il testo evangelico? Ci troviamo di fronte ad una affermazione inquietante non solo perché Gesù ricerca consapevolmente la sua morte, bensì soprattutto perché la morte che egli ricerca non è la morte naturale, che sarebbe saggezza accogliere come sorella, secondo l’insegnamento di Francesco d’Assisi, ma la morte ingiusta e violenta alla quale sarebbe giusto sottrarsi e ribellarsi. Come è possibile volere una morte ingiusta e violenta e volerla “decisamente”? Come è possibile voler “soffrire molto”, facendo del soffrire e del patire l’oggetto di una scelta e di una decisione? E perché volere la sofferenza, come se fosse un positivo da preferire e non piuttosto un negativo da rifiutare?
A interrogativi come questi, pesanti come macigni, può rispondere solo un’ermeneutica attenta che, senza fare della sofferenza un valore in sé, sappia cogliere la ragione paradossale per la quale Gesù, nonostante tutto, la ricerca “decisamente” Ora il motivo per cui Gesù si dirige “decisamente” verso la violenza che si scatenerà ingiustamente su di lui a Gerusalemme non è perché egli la ami masochisticamente né perché la trasfiguri illusoriamente cercandovi un positivo che la giustifichi e la riscatti dal di dentro. Niente di tutto questo. La sofferenza alla quale Gesù va incontro è una sofferenza ingiusta e, in quanto ingiusta, non può essere desiderata e giustificata ma solo contestata.
Gerusalemme simbolo della potenza dell’amore
Ma si ripropone allora la domanda: perché Gesù si dirige “decisamente” verso Gerusalemme, il luogo della sua sofferenza ingiusta e della sua morte violenta? Proviamo ad abbozzare la risposta in questi termini: non perché egli ami quella sofferenza ingiusta e quella morte violenta bensì perché vuole portarvi dentro l’antidoto che ne infrange la logica e la sconfigge. Un incendio all’improvviso avvolge la casa minacciando gli abitanti e i passanti. Per evitare il peggio, si richiede qualcuno che si getti tra le fiamme per spegnerle e individuarne la causa e eliminarla. “Si getti”: non perché ami l’incendio ma perché vuole spegnerlo; e non per provare a se stesso quanto sia coraggioso o incurante del pericolo ma per amore, perché sollecito della sorte di chi è minacciato dalla morte e mosso dalla compassione per la sua sofferenza.
Per il Nuovo Testamento Gesù è questo “qualcuno”, impensabile dall’uomo e pensabile solo da Dio (è, per questo figlio di Dio e Dio lui stesso), che “si getta” nel cuore della violenza che l’uccide (non si dimentichi mai che Gesù non muore di morte naturale!) per introdurvi dentro il principio-evento dell’amore, della bontà, del perdono e della nonviolenza, l’unico principio-evento capace di spezzarla dal di dentro, mettendone in discussione la logica e il determinismo. È qui che si attinge la ragione escatologica, cioè ultima, per cui Gesù va verso Gerusalemme: per far esplodere e dischiudere, dentro la violenza che patisce e lo aggredisce, la potenza dell’amore che la vince, “spodestando” la violenza dal suo trono, dalla pretesa di appartenere all’ordine veritativo e di essere il principio del reale, e (ri)aprendo lo spazio della misericordia, del perdono e della comunione, dove l’umano muore alla sua alienazione e inautenticità e nasce alla sua bellezza e verità.
Per questo Gerusalemme è il simbolo soprattutto della potenza dell’amore di Gesù. Integrando e in parte correggendo l’affermazione precedente, più che simbolo della violenza, Gerusalemme è il luogo/evento dell’amore con cui Gesù vince la violenza, insegnando ad ogni donna e ad ogni uomo a fare altrettanto. Ogni volta che, all’aggressività, all’odio e alla inimicizia si risponde con l’accoglienza, il perdono e l’amicizia, il mondo si ricostituisce come creazione e il soggetto umano risorge a vita nuova.
La vocazione come esodo dall’io all’altro
Gerusalemme come il luogo/apparizione della potenza dell’amore che vince la violenza e sconfigge la inimicizia. Ma l’amore che sulla croce sconfigge la violenza e l’inimicizia non è una “specie” particolare del “genere” amore bensì un amore altro dall’amore e nuovo amore che solo per povertà di linguaggio definiamo con lo stesso termine. L’amore che appare sulla croce non è infatti l’amore con cui l’io si realizza, bensì l’amore con cui egli si svuota di se stesso per accogliere l’altro nella sua alterità e nella sua inimicizia; non l’amore di desiderio, che la grecità ha tematizzato come eros e la cui natura è di soddisfare ed appagare l’io, bensì l’amore di benevolenza, che la bibbia ha espresso come agape e che consiste nel rinunciare all’io per far essere l’altro.
La differenza tra queste due forme di amore è irriducibile e consiste nel fatto che mentre l’amore di desiderio è autoposizione ed espansione dell’io, principio e fine di ogni suo movimento che, come quello di Ulisse, torna sempre al punto di partenza, l’amore di agape o di alterità è kénosi (termine greco che vuol dire “autospogliazione”, con cui Paolo, nella lettera ai Filippesi, legge l’evento della croce), movimento con cui l’io si depone, come si depone un re, e si dimissiona, come un ministro che dà le dimissioni, per lasciare il posto ad altri. Amore – questo dell’agape – impossibile all’io, incatenamento di sé a sé, ma non a Dio che, miracolo ed evento, appare all’io convertendolo dall’io-per-sé all’io-per-l’altro, sottraendolo alla pace del bisogno soddisfatto ed elevandolo all’altezza della bontà, del disinteressamento e della responsabilità.
A Gerusalemme, sulla croce, è questo impossibile esodo che si realizza ed è questa altezza della bontà, del disinteressamento e della responsabilità che si rivela. Per questo Gesù ne fa la meta dove si dirige “decisamente” riaprendo lo spazio escatologico, cioè ultimo, dove si scioglie l’enigma dell’umano. Se il pellegrinaggio è la metafora suggestiva ed universale dell’umano alla ricerca dell’assoluto, per il racconto neotestamentario in cui si custodisce e si tramanda la memoria della passio Jesu (passione di Gesù) consumata a Gerusalemme, l’assoluto al quale rimanda la metafora del pellegrinaggio è il disinteressamento e la bontà. È questa – la bontà o santità – la “terra promessa” dove si conclude la ricerca umana e dove l’io, deponendo le sue inquietudini e le sue crisi, accede al Senso. L’assoluto della bontà è l’impensabile esodo dall’io all’altro[1] ed è il segreto stesso della Vocazione e della Chiamata, parametro e giudizio di ogni vocazione e di ogni chiamata.
Note
[1] Cfr. il mio recente saggio Responsabilità. L’io-per-l’altro, Edizioni Lavoro-Editrice Esperienze, Roma 1996.