Amore coniugale e amore verginale: una indispensabile reciprocità
Dio è amore. Creato a immagine e somiglianza di Dio l’uomo non può vivere senza amore. La religiosa e la persona coniugata sono chiamate a vivere nella loro carne il mistero del Dio Amore con modalità diversificate.
L’amore, inteso in termini semplici ed essenziali come dono di sé investe tutta la persona: corpo, psiche, spirito e contiene un principio di vita. Là dove la persona si dona in totalità al tu sorge la vita. Amore e vita sono inscindibili.
E’ facilmente intuibile come questa unica vocazione all’amore della persona vergine e dei coniugati si arricchisca e si completi reciprocamente. Dono totale di sé ad un tu umano nel matrimonio, dono totale di sé al Tu divino nella verginità. La totalità del dono personale realizza la comunione, l’amore sponsale che si apre alla maternità e alla paternità, fisica nelle nozze terrene, spirituale nelle nozze con Cristo. In entrambe le chiamate si riflette l’eterno mistero del generare che è in Dio uno e trino.
Quattordici anni di formazione insieme ad amici coniugati e di servizio a coppie di fidanzati e sposi in tema di procreazione responsabile sono sufficienti per attestare quanto affermato. Le molteplici relazioni interpersonali rappresentano un appello ad una verifica quotidiana sull’autenticità del mio stare con Dio in piena libertà. La freschezza, la genuinità, la tenerezza di giovani coppie è una continua provocazione per me consacrata, che mi porta a rivedere e rinnovare il mio rapporto con Cristo sposo, rapporto che rischia, con il passare degli anni, di diventare routinario, con le conseguenze di un servizio ai fratelli meno motivato e poco generoso. Frequentemente mi sento umiliata di fronte a certi eroismi di vita coniugale vissuta nella coerenza più totale al progetto di Dio sul matrimonio e la famiglia.
Nel tentativo di esprimere un’esperienza, rivisito diverse situazioni che mi hanno interpellato e mi interpellano per varie ragioni, ad approfondire e a rimotivare ogni giorno la vocazione all’amore fecondo. Lascio scorrere nella mente e davanti ai miei occhi, come un filmato, coppie incontrate e situazioni vissute di svariata tipologia.
Fidanzati con una buona formazione cristiana acquisita, desiderosi di conoscere, approfondire, gustare la grandezza della loro chiamata alla comunione totale delle loro vite. Persone alla ricerca di un rapporto a due più dignitoso, più coerente con la fede professata, magari dopo un’esperienza contraccettiva sofferta e vissuta con disagio interiore.
Richiamo alla memoria coppie con atteggiamento assai divertito e apparentemente superficiale di fronte alla religiosa che “perde il tempo” a fornire nozioni scientifiche sui processi generativi unitamente a messaggi di autentico amore umano che si apre al rispetto della vita, anzi, che suscita lo stupore di fronte alla meraviglia della vita. Nella loro esperienza sembra trovare posto soltanto l’aspetto ludico del rapporto uomo-donna.
Ripensando alle donne che mi raccontano di avere ucciso la vita nel loro grembo risento nuovamente il brivido attraversare il mio corpo. Mi pare, a volte, di sperimentare sulla mia pelle il dramma della sindrome post-abortiva.
Di fronte alla richiesta della pillola abortiva seguito ad un comportamento sessuale irresponsabile mi sento ogni volta mortificata e ferita per non sapere illuminare adeguatamente le coscienze e fare emergere la bellezza della totalità dell’amore umano che porta in se stesso la vita. Talvolta mi sento avvolta da un senso di frustrazione di fronte a certe assurde richieste o attese di portenti da parte di persone che scambiano la mia disponibilità al servizio per una sorta di potere magico. Esperimento momenti di gratificazione alla notizia di una gravidanza iniziata dopo lunghi mesi o anni di ricerca affannosa e, in un certo senso, mi sento coinvolta, partecipe di questa maternità.
La soddisfazione nel costatare il cammino di crescita di giovani fidanzati e, mantenendo per anni i contatti, il poter seguire la graduale dilatazione delle loro famiglie, mi provoca a verificare il grado di fecondità nello spirito nella mia esistenza. Nei colloqui con le famiglie reciprocamente ci si rafforza nella convinzione che è necessaria la preghiera e il ricorso ai Sacramenti per mantenersi nella capacità di rispondere all’unica chiamata all’amore. Non raramente, visitando le famiglie nel loro ambiente naturale, sono stimolata a modellare il mio cuore di pietra su quello di carne del Cristo chiedendogli di dilatarlo a dimensioni planetarie. E questo nella versione femminile sul modello di Maria di Nazareth, Vergine e Madre.
Quando, al termine di un incontro con le coppie, mi si rivolge la domanda: “quanto le dobbiamo per averla trattenuta tutto questo tempo?”, colma di gratitudine posso rispondere: “niente: è un servizio gratuito reso volentieri”. Gratitudine sì, perché, per lo stile di vita semplice adottato nella vita religiosa, pur mantenendoci con il nostro lavoro, comunitariamente ci possiamo anche permettere questi servizi. Gratitudine allora a Dio che ci ha chiamato a questo servizio nella Chiesa, ma anche alla comunità che mi ha inviato. Sarebbe certamente utopico pensare, immaginare che, sempre, la comunità possa comprendere, condividere ansie e speranze, atteggiamenti e obiettivi di un servizio specifico reso ai fratelli, servizio che scaturisce da un carisma personale nel carisma dell’Istituto maturato lentamente in mezzo a dubbi e prove e autenticato dall’autorità competente. Tuttavia non sono infrequenti gesti spontanei di condivisione e di solidarietà da parte delle sorelle, segni di autentica fraternità che fanno sussultare di vera gioia.