N.05
Settembre/Ottobre 1997

La vita coniugale come risposta

E’ difficile per il cristiano accettare, comprendere e portare fino alle sue conseguenze la legge dell’incarnazione, la legge cioè scelta dal Padre per svelarsi agli uomini, perché le estreme conseguenze si possono così riassumere: come Cristo con la sua umanità ha dato un volto concreto al Padre, così ogni cristiano che si pone alla sequela di Cristo, con la sua umanità costruisce un tassello del grande mosaico del suo volto mistico rappresentato nel mondo dalla Chiesa, attraverso tutti i rapporti, le situazioni, le circostanze della sua esistenza quotidiana. Questi rapporti diventano così insieme chiamata e risposta: chiamata a incarnare un’ombra del volto di Cristo, risposta ubbidiente a rappresentare quanto più fedelmente possibile i tratti di quel volto. Questo avviene anche per quella trama di rapporti, circostanze, esperienze, sentimenti, emozioni, scelte che costituiscono la sostanza quotidiana della vita coniugale.

 

 

Domande e risposte

Allora le domande e le risposte che i coniugi si scambiano non possono essere concepite solo come un rapporto privato tra i due partners, un gioco relazionale condizionato reciprocamente dalle rispettive domande e risposte, quindi esposto anche al rischio del fraintendimento, del soliloquio, del mutismo.

Il Direttorio di Pastorale Familiare (ma prima ancora la fede della Chiesa) richiama alla relatività del rapporto a due, nel senso che la vita coniugale tra due cristiani non consiste solo in un dialogo a due o, comunque, orizzontale, quasi una sequela reciproca, ma nella sequela di Cristo che entrambi realizzano con il loro rapporto[1]. Di qui la ragione profonda della radicalità della scelta coniugale e della e totalizzante.

Questo modo di intendere il matrimonio, rimasto implicito per lunghi periodi nel modo di dire e di pensare cristiano, costituisce di fatto l’autentica “novità”, il fondamento caratterizzante la “buona notizia” che Cristo porta all’amore umano e giustifica la forte espressione di Giovanni Paolo II che definisce la famiglia “via della chiesa”[2].

Può non sembrare immediatamente una buona notizia: può apparire a due giovani innamorati un’intrusione indebita, una riduzione del valore del loro rapporto che, specie se condizionati dalla cultura contemporanea, tendono a considerare autosufficiente: “bastiamo a noi stessi, non abbiamo bisogno di nessuno, siamo felici quando siamo soli”, sono le espressioni ricorrenti nei primi tempi dell’amore, specie oggi. Poi tuttavia può nascere l’ovvietà, l’abitudine, la noia, la stanchezza, si moltiplicano le domande che non ricevono risposte, si attendono domande che non vengono.

La coppia autoreferente è esposta al rischio della solitudine, della delusione, quindi del fallimento, perché troppo dipendente dalla dimensione emotiva e intimistica, che tende a far diventare totalizzante e decisiva per il suo destino. Certo, Cristo non garantisce il successo e la continuità del rapporto, che resta pur sempre affidato alla libera volontà delle persone, ma insinua nella vita coniugale un dono e un compito che, se colti e valorizzati, diventano la struttura portante e il riferimento costante a cui attingere per riempire di sempre nuova sostanza, finalità, modalità di espressione il rapporto stesso.

 

 

Un disegno antropologico secondo l’ottica cristiana

Il senso della domanda a cui gli sposi sono chiamati a rispondere è inscritto nella natura stessa dell’essere umano e della sua corporeità, dotata di un “significato sponsale”; lo sappiano o no, quando un uomo e una donna si innamorano e decidono di impegnarsi a condividere uno stesso destino esistenziale, nel far questo rispondono alla chiamata radicale di Dio creatore che ha pensato l’uomo “maschio e femmina” perché fosse a sua immagine (cfr. Gn 1,27). Qui sta la grandezza e insieme la relatività dell’amore umano che trova la sua piena realizzazione nel matrimonio cristiano: da un lato è chiamato a rappresentare una realtà che lo supera e lo trascende, dall’altro non riuscirà mai a rappresentare in pienezza tale realtà, sempre raffigurata “come in uno specchio” (cfr. 1Cor 13,12), per immagine, per analogia, per richiamo, per figura e anticipazione. Concepire la vita coniugale in questo modo, come afferma il Direttorio[3], significa anche renderla sempre perfettibile, quindi sottrarla alla noia e al rischio della banalizzazione.

La complessità e l’altezza del compito al quale la coppia è chiamata, allora, giustifica bene il sacramento: esso non solo sancisce l’impegno degli sposi e il coinvolgimento di Cristo, attraverso la Chiesa, nella loro storia coniugale, ma soprattutto garantisce la grazia necessaria perché la risposta sia possibile e piena, in grado di superare gli ostacoli dell’intimismo e di evitare le secche dell’enfatizzazione narcisistica.

 

 

La logica del vangelo nella vita coniugale

Benché colti come tutti dallo stupore dell’incontro reciproco, gli sposi cristiani non lo attribuiscono semplicemente al caso o alla fortunata circostanza di due desideri che concordano, ma leggono in quell’incontro il segno visibile e vivibile di una chiamata che attende risposta. Allora il gioco della relazione, fatta di domande e risposte, costituisce la rete di un’unica risposta all’Altro che li ha donati l’un l’altro e che, attraverso l’uno e l’altra, si è donato e si dona continuamente a loro.

La grazia del sacramento del matrimonio consiste, in ultima analisi, nel portare il rapporto coniugale su un altro piano rispetto a quello sul quale i due da soli possono porsi, quindi nel mettere a loro disposizione per vivere e valutare la loro relazione altri metri di misura rispetto a quelli dettati dal sentimento, dal desiderio, dall’affetto, dall’intesa; è il metro di misura del vangelo, che implica l’amare i nemici, l’amare come lui li ha amati, l’amare senza misura.

Non è facile per gli sposi accettare questa logica, accettare cioè che il loro piccolo e faticato rapporto, così facilmente esposto alla fragilità, alla controversia quotidiana, all’usura delle piccole incombenze, sia invaso dalla stessa santità che caratterizza la vita di Dio: può apparire paradossale, delirante, specie se confrontato con la superficialità con cui è concepito e la fretta con cui è vissuto di questi tempi l’amore umano.

Si tratta effettivamente di un atto di fede, dal quale poi scaturirà la possibilità della risposta: se questa è la portata e la profondità dell’amore che gli sposi stanno vivendo, allora la loro relazione acquista preziosità e mobilita impegno, perché in gioco non ci sono solo la buona disponibilità reciproca, la pazienza, la sopportazione. In gioco c’è la stessa santità di Dio che si rende presente e che opera nel loro amore, fortificandolo e rendendolo invincibile anche di fronte, alle prove più difficili della vita.

La logica del vangelo portata nella vita coniugale è dono da accogliere e da valorizzare in tutte le occasioni liete e tristi che la vita coniugale presenta, un dono che non allontana gli sposi dalla loro storia ma li concentra su di essa, non li distrae l’uno dall’altra, ma condensa la loro reciproca attenzione, inducendoli a moltiplicare delicatezza, attenzione, impegno, sollecitudine, volontà di essere l’uno per l’altra occasione di reciproco benessere.

 

 

Un dono da capire

Gli sposi non hanno luoghi, tempi e modalità particolari nei quali esprimere al Padre il loro sì: essi vivono la risposta a Cristo, che li invita alla sequela, nella casa in mezzo alle case, nel lavoro tra altri che lavorano, acquistando oggetti e contrattando impegni comuni tra le persone, sposate o no, con le quali necessariamente hanno a che fare per gestire il ritmo della vita coniugale e familiare. Questo per gli sposi è una fortuna ma è anche un pericolo: una fortuna, perché hanno a disposizione tutti se stessi e tutto il loro rapporto, nulla escluso, per “offrire i loro corpi come sacrificio vivente gradito a Dio” (Rm 12,1), senza preoccuparsi di mettere in atto iniziative particolari; un pericolo perché la cosa è talmente paradossale che possono rischiare di non prenderla sul serio e trascurare l’enorme possibilità che è loro offerta, di coniugare continuamente e stabilmente la loro relazione reciproca con la loro risposta religiosa a Dio che li chiama a seguirlo in Cristo Gesù. La cultura non li aiuta in questo senso, perché tende a concentrare l’attenzione delle persone sugli aspetti materiali e immediatamente funzionali dei gesti e dei rapporti, mortificando gli spazi per la proiezione simbolica dei gesti materiali, chiudendoli in se stessi, come se tutto il loro significato si esaurisse nel momento in cui vengono agiti.

Anche la modalità tradizionale e ancora diffusa di concepire la vita cristiana e in particolare il matrimonio non aiuta gli sposi a vivere la loro vita come risposta religiosa, perché ancora troppo legata a una concezione astratta e un po’ stereotipata, spiritualista o clericale, del rapporto con Dio. Si dà ancora troppo poco credito alle occasioni di santità offerte alla vita dei laici compromessi quotidianamente con le cose del mondo e radicati nel battesimo, per poter diventare significativi, nell’attività pastorale, del valore religioso che è intrinseco alla vita coniugale e familiare.

Forse la causa di questo problema è da individuare a monte; forse la comunità cristiana nel suo insieme, nella sua attività di annunzio e di testimonianza, è come impacciata e rallentata nel trasmettere il valore del matrimonio perché non è sufficientemente consapevole del valore radicale del battesimo, quale giustificazione del significato religioso di tutta la vita e della consacrazione di ogni attività terrena, quindi anche della vita e dell’attività proprie della coniugalità e della famiglia.

 

 

Un dono da diffondere

Evidentemente questo dono impensabile che gli sposi ricevono con il sacramento del matrimonio e che è già inscritto nello statuto umano del loro rapporto, non è destinato solo a loro. È un’opportunità da offrire a tutti per diffondere lo stupore, la riconoscenza, la consapevolezza di quello che hanno scoperto e che è alla portata di tutti, solo che ne siano informati: “perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Ma anche per questo compito di diffusione, per questo compito missionario, per rinnovare l’eco della “buona notizia” portata da Gesù circa l’amore umano, gli sposi non devono fare grandi cose: è sufficiente che vivano coerentemente con la consapevolezza acquisita la loro vita coniugale, e i figli per primi e quanti li incontreranno avranno la possibilità di capire: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5,16). L’opera buona da compiere per gli sposi è amarsi, è tessere la loro vita coniugale e familiare dentro l’ordito e la trama della vita sponsale di Dio, che ha voluto come sua sposa l’umanità e non ha più ritirato il suo amore, anche quando esso ha trovato risposte monche, inadeguate, o non risposte.

Il luogo in cui si celebra solennemente, misteriosamente, perennemente l’amore di Dio è la Chiesa; il luogo dove si celebra sommessamente, umilmente, poveramente quello stesso amore è la “chiesa domestica”. Come la prima, anche questa piccola chiesa ha la propria forza evangelizzatrice nel mistero di unità e di santità che Cristo le assicura attraverso il sacramento ma, come la prima, anche questa piccola chiesa è chiamata a non chiudersi in se stessa ma ad aprirsi e a compromettersi nel mondo, a protendersi verso il futuro, un futuro che crea essa stessa attraverso la generazione e l’educazione dei figli. “Il dono e il contenuto tipico dell’opera evangelizzatrice della famiglia cristiana consiste proprio nell’annuncio e nella testimonianza, attraverso il vissuto quotidiano, della grandezza di questo mistero e di questo amore totale, fedele, definitivo e datore di vita… L’intera comunità cristiana, d’altra parte, sappia riconoscere e accogliere con gratitudine questa preziosa testimonianza offerta dalle famiglie e si interroghi costantemente sui modi per illuminarle e sostenerle nella loro missione evangelizzatrice”[4].

Vivere il matrimonio come risposta a una vocazione oggi rappresenta più che mai un’attività di alto significato culturale e quando, richiesti, gli sposi danno ragione della propria fede, un’attività di evangelizzazione. Attività culturale e di evangelizzazione che la Chiesa tutta compie attraverso loro.

 

 

È questione di consapevolezza

Il Direttorio di Pastorale Familiare si occupa anche dei mezzi e degli strumenti che possono favorire nella coppia di fidanzati e di sposi e nella loro famiglia la consapevolezza del dono di cui sono portatori, per dare risposte adeguate.

Questo è di fatto il vero problema: senza consapevolezza i doni di Dio vanno sprecati e le risposte non arrivano; gli sposi si trovano condannati a vivere una vita di stenti, patendo come un carico insopportabile invece che come un dono di grazia misterioso e disponibile i doni dell’unità, dell’indissolubilità, della fecondità del loro amore, doni che costituiscono la legge intrinseca, la logica inscritta nel loro stesso statuto antropologico.

Il Direttorio raccomanda che gli sposi siano aiutati, con opportuni strumenti pedagogici, specie con gli itinerari di fede, “a fare continuamente memoria del dono e della grazia ricevuti nel giorno del matrimonio”[5]. È da questa memoria continuamente rivisitata, che può maturare la disponibilità al dono reciproco quanto più disinteressato, e la disponibilità di entrambi a rischiare il dono della vita, intesa non solo come procreazione ma come educazione, quindi enormemente impegnativa e inquietante.

La consapevolezza del dono del matrimonio e la disponibilità alla risposta nei momenti felici potenzia la pienezza della gioia e nei momenti difficili potenzia la creatività per superarli, perché in gioco c’è ben più che il buon accordo e la tranquillità coniugale e familiare: in gioco c’è il destino stesso della riconoscibilità dell’immagine di Dio e della fruibilità della grazia pasquale di Cristo nel mondo.

Questa consapevolezza, che è faticosa e gioiosa conquista di tutta una vita, porta paradossalmente la logica coniugale ad assimilarsi alla logica della verginità, perché l’una e l’altra vissute non nella ricerca del proprio tornaconto, anche spirituale, ma come espressione di tensione verso un unico e indivisibile Amore.

 

 

 

 

 

 

Note

[1] Cfr. CEI, Direttorio di Pastorale Familiare, n. 13.   

[2] Cfr.  GIOVANNI PAOLO II, Lettera alle Famiglie, n. 2. 

[3] Cfr. CEI, Direttorio diPastorale Familiare, n. 13

[4] Ivi, n. 142.

[5] Ivi, n. 103.