N.06
Novembre/Dicembre 1997

Il bene dell’obbedienza: elogio del “vir ob-audiens”

Non è virtù moderna, né è alto il suo indice di gradimento presso la sensibilità e la cultura attuale giovanile. Si dice che l’attuale generazione di genitori rappresenti l’ultima generazione di figli che hanno obbedito ai loro padri e la prima generazione di padri che obbediscono ai loro figli. Così fosse saremmo in presenza d’un fenomeno destabilizzante dalle conseguenze inedite. Nel suo Dizionario di Psicologia Galimberti definisce l’obbedienza come una “forma di acquiescenza” o di “sottomissione” attraverso cui “viene messo in atto un comportamento in risposta a un ordine diretto”,   o l’azione individuale è legata “ai fini comuni che una società s’impone”[1].

Il termine ha diverse accezioni, con differenze interpretative di non poco conto. A noi sembra d’intravedere nell’interpretazione corrente e tradizionale un’accentuazione negativa e riduttiva, che per lungo tempo ha come tenuto in scacco o in ostaggio il concetto stesso, facendone quasi il simbolo d’una certa concezione dei rapporti sociali, bloccati sullo schema “superiore – inferiore” (a vari livelli, da quello religioso e quello militare, da quello familiare a quello scolastico), o lo strumento attraverso cui l’autorità del primo s’imponeva sul secondo. I termini usati da Galimberti (acquiescenza, sottomissione, ordine diretto…) lo dicono espressamente. Nulla di strano se obbedienza suona come sinonimo di dipendenza e non libertà, su uno sfondo antropologico che sembra d’altri tempi e d’altre sensibilità, e più o meno condizionato da una certa un po’ ambigua concezione religiosa.

Eppure, a ben riflettere, l’obbedienza è il primo atteggiamento della creatura, è ciò che ha segnato l’ingresso nella vita. Dio, infatti, quando chiama alla vita, chiama qualcuno che non è e non potrebbe dunque risponderGli, ma Dio lo chiama proprio per dargli questa possibilità, e lo fa essere, rendendolo respons-abile (= capace di risposta). Noi tutti siamo venuti alla vita perché una Volontà buona ci ha amati ancor prima che fossimo, al punto da renderci subito obbedienti alla sua chiamata: la nostra venuta al mondo e alla vita è un atto d’obbedienza alla chiamata divina che ci ha voluti vivi, preferendoci alla non esistenza (cfr. Ger 1,5; Gal 1,15). Il seguito della vita, potremmo dire, è un farsi carico di quel gesto primordiale, un assumerlo sempre più liberamente e responsabilmente, un apprendere, a volte anche faticoso, a obbedire, fino a giungere all’atto d’obbedienza finale, quello della morte. L’esistenza umana è tutta tesa tra queste due grandi obbedienze, con tante altre obbedienze, piccole solo all’apparenza, a costellare vita e scelte d’ogni giorno (e con buona pace di chi ne fa solo una questione di dominio o dipendenza relazionale). Tra queste particolarmente decisiva quella della propria vocazione. Ma di cosa “è fatto” il gesto d’obbedienza?

 

Le componenti dell’obbedienza

L’obbedienza non è un atto semplice ed estemporaneo, sganciato dal resto della personalità e dalla storia dell’individuo, o esibito solo di fronte a certe persone e in determinate circostanze. In tal senso è preferibile parlare di atteggiamento obbedienziale, come di una predisposizione specifica a rispondere agli altri e agli eventi in genere della vita, predisposizione costituita da diverse componenti e condizioni, frutto di un cammino preciso di maturazione, e che conduce alla libertà della relazione obbedienziale.

 

Atteggiamento obbedienziale

Chi obbedisce ha lentamente sviluppato in sé queste attitudini o sensibilità interiori.

Senso del mistero e dei propri limiti

È premessa fondamentale: la vita è anche mistero, per tutti. Lo è sempre, ma in certi momenti la consapevolezza di trovarsi dinanzi a qualcosa che non è subito chiaro e sfugge alla propria comprensione è particolarmente forte. Chi sa tutto e trova tutto semplice ed evidente non necessariamente sarà disobbediente, ma non troverà il motivo di porsi in ascolto di un altro e, tanto meno, di rinunciare alla gestione in proprio della sua vita. Ma rischierà la mediocrità di chi si ripete fino alla noia.

 

Capacità di ascolto vigile e ob-audiens

Alla radice persona obbediente vuol dire proprio ob-audiens, uno che porta la mano all’orecchio per ascoltare bene una voce, una parola, un cenno… che percepisce come importanti per la propria vita e il proprio orientamento. Tale ascolto diventa come un modo d’essere abituale dell’obbediente, perennemente proteso a captare quanto potrebbe illuminare il cammino. In tal senso quest’individuo è vigile, nell’accezione più profondamente biblica del termine, e cioè attento alle cose, va oltre la scorza degli eventi, ha il senso dell’attesa, soprattutto desidera la verità, e dunque vuole fortemente cercare, vedere, capire, discernere, esser illuminato…

 

Speranza e fiducia

L’obbediente è persona ottimista e speranzosa – anzitutto nei suoi confronti – è uno che ha una percezione sostanzialmente positiva di sé. Non presume, come detto, delle sue forze, ma si fida di sé quanto basta per mettersi in cammino e cercare, per saper riconoscere e scegliere quanto attende e desidera, per assumersi le sue responsabilità con i rischi e incertezze che ciò comporta.

 

Relazione obbedienziale

L’obbedienza è virtù fondamentalmente relazionale: dice fino a che punto può giungere un rapporto, il senso del tu, la fiducia che gli s’accorda. In corrispondenza con i tre requisiti ora visti, passiamo al livello relazionale.

 

Senso dell’alterità e integrazione della diversità

Obbedisce chi ha imparato ad accettare e non conflittualizzare le diversità, e dunque è libero di aderire a un progetto diverso dal suo, senza sentirsi per questo menomato e offeso nella sua dignità. È questa una delle più grandi libertà dell’essere umano: gli estende gli orizzonti della mente e anche le possibilità d’azione, lo rende capace di collaborazione e condivisione, apre l’io alla ricchezza imprevedibile del tu.

 

Docibilitas verso tutti

L’obbedienza non riguarda esclusivamente un certo tipo di relazioni (tra superiore e inferiore), ma s’estende a tutto l’arco relazionale dell’uomo. In ogni rapporto c’è una voce da ascoltare, un’indicazione da cogliere, e dunque un’obbedienza da compiere. L’autentico obbediente non è l’ossequioso verso l’autorità, ma colui che “ha imparato a imparare”, cioè ad ascoltare e accogliere le provocazioni della vita, dei segni dei tempi, degli altri, dei poveri… Non basta la docilità, ci vuole la docibilitas per esser obbedienti.

 

Fiducia e abbandono

Infine il vir ob-audiens è colui che si fida non solo di sé, ma anche degli altri e, più in generale, della vita stessa. È persona che ha esperienza positiva del rapporto interpersonale, e sa che può giungere al punto di consegnare la sua vita in mano a un altro. In quella consegna c’è la rinuncia al diritto d’autogestirsi in funzione di obiettivi privati, in cambio della libertà di tendere verso il bene di tutti, sempre più grande d’ogni scopo personale. Per questo obbedire è strada obbligata per realizzarsi.

 

L’obbedienza del chiamato

Anche la storia della propria vocazione è evento obbedienziale, che dovrà rispettare quanto fin qui detto – che va bene per tutti – ma dovrà anche aprirsi all’originalità dell’obbedienza come virtù cristiana. Un’originalità, in prospettiva vocazionale, che possiamo riassumere anche qui attorno ai tre punti già presi in considerazione.

 

Fascino d’un volto

Afferma Levinas

“L’accoglimento della Rivelazione può essere unicamente relazione con una persona, con l’altro. La Torah è data dalla luce d’un viso. L’epifania dell’altro è ipso facto la mia responsabilità nei confronti dell’altro: la visione dell’altro è fin d’ora un’obbligazione nei suoi confronti… La coscienza è l’urgenza d’una destinazione che porta all’altro, non l’eterno ritorno su di sé”[2].

Ora la vocazione cristiana non è problema di preferenze istintive (“mi piace far questo o quello…”), né di potenzialità da esprimere (“questo mi fa esser me stesso…”), ma nasce dall’in-vocazione, dal bisogno di rivelazione del mistero. Per questo il credente pone al di fuori di sé la ricerca del fondamento della propria esistenza e del proprio futuro: in Colui che gli ha dato la vita e che unico può svelargliene il senso e il ruolo che in essa ha da occupare. Ma il mistero si svela solo quando Dio diventa persona e assume un volto. Allora si entra in relazione con una persona viva, e nel dialogo che ne nasce l’uomo scopre se stesso. L’obbedienza vocazionale è il fascino di quel volto.

 

Obbedienza intelligente

Normalmente l’intendere precede il fare, prima ci si convince di qualcosa, poi si decide di compierla. Nell’obbedienza cristiana l’ordine non è necessariamente questo; se all’origine della decisione c’è la visione d’un volto e il coinvolgimento in una relazione, l’adesione può precedere il convincimento razionale o, in ogni caso, esser motivata da argomenti non subito evidenti alla ragione, sovrarazionali. Anzi, è proprio l’obbedienza che consente poi alla ragione stessa di capire: “obbedisci, intanto, poiché è la rinuncia alla tua propria volontà che ti manifesterà la volontà di Dio”[3]. È l’obbedienza che dà il discernimento e rende tutto luminoso; è il dire di sì che consente di capire che quella è la strada giusta; è il coraggio dell’“eccomi” che abilita a servire nella vigna del Signore, al di là delle proprie paure e incompetenze.

 

Obbedienza e abbandono

Ma alla fine l’obbedienza vocazionale è l’atto di chi abbandona totalmente la sua vita nelle mani dell’Eterno, e in questo trova certezza, non in un sapere anticipato, o nell’autorassicurazione derivante dalla coscienza dei propri mezzi, né sulla pretesa di previsione dettagliata degli eventi futuri. L’orientamento vocazionale “non è ‘profetico’. È ‘prudente’; è attento a individuare, cioè, e ad obbedire all’orientamento concreto che si può leggere non telescopicamente, estasiandosi per un ‘disegno’ già noto, ma guardando con pazienza la direzione d’un’esistenza. Proprio per questo, la sicurezza di questa lettura ‘rischiosa’ è quella della speranza e dell’affidamento: motivato, e perciò non fideistico; e nondimeno reale. Sono solo un uomo che cerca la tua volontà; da come la vedo, credo di poter camminare meglio; credo di poter partire. Questo ‘partire’ è bene per me; in ogni caso non mi porta lontano da te, mi porta verso di te, compiendo un disegno che, a questo punto, ancora pienamente non conosco. In ogni caso, tu sarai con me, e io con te. Questo è il bene supremo”[4].

 

 

 

 

 

Note

[1] U. GALIMBERTI, Dizionario di Psicologia, Torino 1992, p. 958.

[2] E. LEVINAS, Quattro letture talmudiche, Genova 1982, pp. 97. 

[3] A. LOUF, Generati dallo Spirito, Magnano 1994, pp. 31-32.

[4] G. MOIOLI, Discernimento spirituale e direzione spirituale, in G. SERENTHÀ, G. MOIOLI, R. CORTI, La direzione spirituale oggi, p. 70.