N.06
Novembre/Dicembre 1997

Onora tuo padre e tua madre. Iniziare all’obbedienza in famiglia

Con le parole che seguono il libro biblico dei Proverbi (6,20-23) offre un’interessante prospettiva sulla quale muoverci per una riflessione sul tema dell’obbedienza in famiglia.

“Figlio mio, osserva il comando di tuo padre, non disprezzare l’insegnamento di tua madre. Fissali sempre nel tuo cuore, appendili al collo. Quando cammini ti guideranno, quando riposi veglieranno su di te, quando ti desti ti parleranno; poiché il comando è una lampada e l’insegnamento una luce e un sentiero di vita le correzioni della disciplina…”

L’istruzione rivolta al destinatario, in questo passaggio del testo, infatti, va al di là dell’imposizione dell’obbedienza ‘naturale’ dei figli nei confronti dei genitori, ma si precisa in riferimento ad una riuscita nella vita che si situa oltre quei tratti correttivi che l’esercizio della paternità e maternità sembrano istintivamente suggerire.

Il percorso delineato dal testo certamente non mette in questione il fatto che l’esercizio della paternità e della maternità implichi un intervento educativo con i suoi tratti specifici e in riferimento ad una particolare cultura, come invece sembra emergere in modo preoccupante nella nostra cultura contemporanea, tanto da far sentire una precisa esigenza di garantire, nelle giovani generazioni, una maggior consapevolezza dell’impegno educativo stesso e della sua modalità di attuazione. Così il testo biblico, nella sua apparente semplicità, e il contesto attuale, nella sua evidente problematicità, ci impongono di ritornare sulla questione educativa per precisarne meglio i contenuti.

L’istruzione proverbiale non discute circa la legittimità dell’autonomia e la consapevolezza che comunque un’autorità nei confronti dei figli vada esercitata, ma più profondamente mostra l’esito del suo esercizio: quello appunto per cui il figlio possa guadagnare se stesso, la sua identità, dentro le esperienze effettive della propria vita, esemplarmente raffigurate nella triplice metafora del camminare, del riposare, del ridestarsi. Anche la questione della figura di autorità dei genitori nei confronti dei figli è un luogo comune della riflessione pedagogica, stimolata non solo da interpretazioni destabilizzanti, ma dal fenomeno stesso di un carente senso di essa manifestato a più riprese dai genitori.

Il sottile gioco testuale, segnalato dalle espressioni ebraiche, che intreccia il “comando” quale prerogativa del padre, con l’“istruzione” attribuita alla madre, va al di là delle esigenze stilistiche ed assume una valenza particolarmente eloquente per comprendere l’orizzonte delle regole e delle norme che vengono proposte inevitabilmente nel contesto educativo familiare. C’è un rapporto stretto tra il comando, che indica la materialità della legge e la frammentarietà dei suoi contenuti, e l’insegnamento, che allude al traguardo complessivo che si cela dietro il primo: quello di istruire (e dunque di costituire in profondità la persona) circa il senso buono della vita (il “sentiero di vita”), quello per cui valga la pena di spendersi, “sopportando” le inevitabili “correzioni della disciplina”. Al di là della differenza terminologica è la stessa metafora con cui sono accostati comando e insegnamento a suggerire questa interpretazione. Il comando “è una lampada”, è una realtà strumentale, ma attraverso la quale è possibile catturare ed utilizzare in modo buono ciò di cui ha bisogno l’uomo per vivere: la luce, cioè l’insegnamento con cui interpretare la “fatica della vita”.

Infine il testo nella sua interpretazione teologica (quella per cui “il timore del Signore è il principio della scienza” – cfr. Pr 1,7), che si sviluppa probabilmente sopra un insegnamento che ha proprio nell’ambito della famiglia il suo contesto originario, porta a collegare l’esperienza dell’obbedienza (attuata nell’esercizio dell’autorità nell’ambito educativo attraverso la proposta di comportamenti concreti capaci di lumeggiare il senso di un progetto buono per la vita) con quella di un’obbedienza che ha risvolto teologale, fino ad assumere la figura della fede, che profila in senso vocazionale il cammino della vita, come ascolto intensivo (obbedienziale) della Parola che chiama a sé l’uomo perché corrisponda al progetto pensato per lui e con lui. Si impone così un ritorno su quelle questioni nodali che il testo dischiude per chiarire, seppur a tratti appena abbozzati, la questione oggetto del contributo: “come la famiglia inizi all’obbedienza”.

 

 

La questione educativa

In che cosa consiste l’educazione? Per rispondere a tale domanda vanno ricordate due verità fondamentali: la prima è che l’uomo è chiamato a vivere nella verità e nell’amore, la seconda è che ogni uomo si realizza attraverso il dono sincero di sé. Questo vale sia per chi educa, sia per chi viene educato. L’educazione costituisce, pertanto, un processo singolare nel quale la reciproca comunione delle persone è carica di grandi significati.

Così si esprime Giovanni Paolo II nella sua Lettera alle famiglie del 2 febbraio 1994 (n. 16) riportando la questione dell’educazione nel suo contesto antropologico originario: non quello dell’esercizio di una competenza tecnica, ma primariamente nell’atto umano, o meglio in una serie di atti umani, in vista della formazione autenticamente umana. In tale senso l’educazione non è un processo di semplice trasferimento di notizie circa la vita, che passa dai genitori ai figli, ma una maturazione piena della personalità di entrambi. Educare per i genitori è fare esperienza del fatto che è in gioco la loro consistenza personale e di coppia (quella, appunto, della loro verità e del loro amore) e la prosecuzione di una fecondità dell’amore che si prolunga in una forma incessante di dono di sé nell’opera educativa.

L’educazione non è una tecnica, cioè una forma dell’agire che si stacchi dal soggetto e che possa essere apprezzata in base ai presunti risultati raggiunti. L’educazione è invece una forma dell’agere, cioè del comportamento mediante il quale il soggetto dispone di se stesso. Soltanto scegliendo per se stesso il genitore può scegliere bene anche per il figlio. Da niente altro che da ciò che il genitore mostra di essere impara il figlio; non impara nulla invece da ciò che è fatto soltanto per riguardo alla sua persona, per il suo bene[1].

Essere educato per il figlio è guadagnare progressivamente, attraverso la dinamica comunionale e comunicativa, la propria consistenza personale (di nuovo la verità e l’amore) e riaffermarla attraverso la maturazione di un atteggiamento davanti alla vita che superi l’egocentrismo verso il dono di sé. La possibilità di questo processo, il cui traguardo è comunque sorprendente ed eccedente ogni bilancio di previsione, è già collegata ad una forma di iniziazione all’obbedienza intesa, quasi nel suo senso etimologico come una forma di ascolto intenso, che si fissa nella persona e che la porta a corrispondere a quanto accolto ed interiorizzato. “I nostri figli ci guardano!” C’è del vero in questa affermazione popolare. Non solo guardano, ma anche ascoltano, percepiscono lo spessore reale, la consistenza della parola dei loro genitori. La risposta di obbedienza, così è legata alla qualità della parola e dell’esibizione della vita dei genitori. Una parola che non ha i tratti della confidenza amicale, né della chiacchiera che occulta la verità e che finisce per naufragare nel silenzio impacciato degli uni e degli altri.

La parola genitoriale assume così una dimensione testimoniale. Non dimostra la verità, ma la mostra rendendola rilevante e ampliando così la capacità del figlio di continuare ad ascoltare, maturando una disposizione progressiva all’esercizio dell’obbedienza. Tale caratteristica testimoniale della parola e della vita dei genitori fa sì che essa rimandi obiettivamente “ad altro” e non leghi morbosamente a sé il figlio[2]. La testimonianza così non è da intendere nella sua facile accezione di un confronto continuo del figlio a diventare quello che i genitori sono, pena il naufragio nella constatazione dell’impossibilità o l’amara esperienza dell’improponibilità del modello che essi sono. Piuttosto la testimonianza rimanda ad altro, a quella verità più profonda a cui il figlio deve arrivare, attraverso la mediazione dei genitori. La loro parola e la loro vita attesta ciò per cui valga la pena di vivere e ciò per cui occorre obbedire. In questo senso l’obbedienza non è da comprendersi come il legare il ragazzo a sé nei vincoli di un’autorità esibita con prepotenza, né in una prigione affettiva soffocante, ma è via alla libertà del genitore, come del figlio. Del genitore di non dipendere in modo ossessivo dalla propria immagine da esibire come modello di imitazione. Libertà del figlio come capacità di riconoscere che quanto ascoltato dalla parola del genitore corrisponde a quanto è importante per la sua formazione e l’acquisizione della sua identità. È in gioco l’obbedienza dei genitori alla loro verità, è l’obbedienza dei figli come capacità di porsi in ascolto di questa verità immediatamente attestata dalla parola dei genitori.

 

 

La questione dell’autorità

La posizione del problema educativo porta ad approfondire la questione dell’autorità e la modalità del suo esercizio all’interno della famiglia. La connessione con l’obbedienza è particolarmente evidente per il fatto che solo in un contesto in cui l’autorità è precisata nei suoi confini ed è accolta e riconosciuta si può porre la risposta obbediente. Il problema dell’autorità, comunque non può essere fatto in riferimento ad immagini generali di essa, ma in connessione allo stile familiare in cui si esprime e da cui essa stessa viene misurata e finalizzata.

Sull’autorità in famiglia il Direttorio di pastorale familiare della Chiesa italiana ha una considerazione eloquente:

Pur lasciandosi guidare dall’amore e dalla volontà di far sperimentare ai figli di essere amati, non rinuncino [i genitori] all’esercizio rispettoso, fermo e fiducioso dell’autorità, vissuta come servizio di amore, animata dall’autorevolezza, frutto della sapienza dell’anima, praticata col metodo del dialogo e resa credibile dalla testimonianza dell’esempio (n. 177).

Alla luce di queste osservazioni l’autorità viene ad essere compresa nel suo senso più profondo. Non esercitata in nome di un diritto da far valere, se non quello proprio dell’amore di far crescere quel potenziale di umanità che è deposto nella vita dei propri figli. La radice stessa del termine “autorità”, fa appunto riferimento non tanto alla gelosa conservazione di un privilegio da esercitare sulla persona, ma di un servizio alla persona perché aumenti progressivamente (auctoritas dal verbo augere, cioè aumentare) nella propria umanità. Questa visione di autorità, vissuta nei termini di autorevolezza personale, espressione di un reale amore che sa assumere anche la linea della fermezza circa quegli aspetti che sono ritenuti fondamentali per un’educazione piena dei figli, si pone nell’aurea linea mediana tra un autoritarismo incapace di esibire le ragioni del suo esercizio, che diventa facilmente un potere esercitato a tutela dei genitori, e uno stile di accondiscendenza e complicità che rivela, più che la liberalità nel tratto, una certa inconsistenza circa la linea educativa da esprimere nell’azione e un immaturo desiderio di accattivarsi la benevolenza del figlio. Queste caratteristiche che esasperano sopravvalutandolo e annullandolo il senso profondo dell’autorità familiare possono tradire una matrice comune: quella del disinteresse per il reale bene dei figli e una ricerca di tutela e di protezione davanti alle improrogabili esigenze proprie dell’educazione. L’autorità, compresa nell’ottica dell’autorevolezza, espone il genitore con tutta la sua persona a stare davanti al figlio a tutela della sua educazione e lo costituisce non solo un testimone con la sua parola e la sua vita, ma anche un garante. Più precisamente egli offre la garanzia, motivando attraverso il dialogo il suo comportamento e ritornando sul senso delle sue decisioni, che quanto richiesto corrisponda realmente al bene dei figli. Un’autorità posta nei termini di autorevolezza e di garanzia non può così che proporsi come modello flessibile e dunque capace di adattamento nel variare delle diverse fasi della vita dei figli. Si propone come fondamentale, a questo riguardo, la capacità di offrire motivazioni circa il senso delle proprie scelte commisurandole alla capacità di elaborazione di esse da parte dei figli. In particolare nella situazione della fase adolescenziale, in cui viene a mancare l’attitudine propria ad identificarsi e a idealizzare i genitori propria dell’età infantile, per una maggiore ricerca di identità autonoma, occorre arrivare ad una ridefinizione del problema dell’autorità che risulta decisiva in ordine ad una maturazione piena dell’obbedienza.

“Da parte del figlio la configurazione del nuovo rapporto comporta un aumento di responsabilità educativa. Gli va ricordato che anche lui contribuisce all’opera. Deve quindi darsi da fare se vuole ottenere quella identità personale che finora gli era stata garantita dall’intervento quasi esclusivo del genitore (…). Sul versante del genitore, la sua diminuita autorità lascia il posto ad un aumento di autorevolezza. Il suo ruolo di guida non è finito ma cambia il modo di esercitarlo. Deve fornire alla nuova spinta evolutiva del figlio dei contenuti che garantiscano l’accesso alla maturità. Dunque, i ruoli di ciascuno si ridefiniscono in favore di una più equa distribuzione di potere e responsabilità. Ma devono anche integrarsi: il ruolo di ciascuno deve essere dall’altro accettato e rinforzato, altrimenti non si crea reciprocità”[3].

In questa ottica di autorevolezza l’obbedienza diventa quel medium virtuoso che esprime da parte del figlio la sua risposta ad un atteggiamento educativo che sappia commisurare affetto e legge, espressione di “cura” e “lealtà”, offerta dai genitori e da lui progressivamente ed in modo sempre più chiaro accolta, attraverso l’accondiscendenza alle richieste motivate da essi provenienti. Tale esperienza è imprescindibilmente collegata alla vita familiare e a partire da essa viene a consolidarsi un senso maturo di obbedienza da parte della persona anche davanti ad altre autorità. L’obbedienza nasce infatti dalla capacità di riconoscere la necessità della conservazione di un rapporto asimmetrico tra chi esercita l’autorità e chi la può e sa recepire. La richiesta di obbedienza, accompagnata dal desiderio di tutelarne e proteggerne il cammino di vita, diventa accettabile proprio perché traspare che attraverso quel rapporto si decide del profilo maturo della persona. Questa capacità di offrire e di ricevere l’obbedienza matura a partire proprio da quelle esperienze familiari mediate da un corretto esercizio dell’autorità. Il doppio riferimento a ciò che è necessario in vista della richiesta e dell’accettazione dell’obbedienza, l’affetto e la legge fa riferimento ad un codice simbolico che attinge alla verità profonda delle relazioni familiari. L’immagine della cura, come attenzione preferenziale e continuativa all’altro da sé, che genera un senso di dipendenza profonda, è espressione tipica (ed “archetipica”) del rapporto materno, mentre quello della “lealtà” indica la realtà strutturata di questo rapporto, attraverso un codice di comportamento che sottolinea l’aspetto direttivo (nel senso proprio di aiuto a dirigere la vita) ed è dimensione simbolicamente paterna[4]. Nel testo del libro dei Proverbi, posto all’inizio di questo contributo, l’accenno a queste dimensioni, nel quale l’obbedienza prende forma e viene significata in ordine alla costruzione della piena personalità, trova una singolare rappresentazione attraverso la coppia “il comando di tuo padre” e “l’insegnamento di tua madre”, espressioni che danno ragione del legame non solo familiare, ma della necessità del rapporto tra gli aspetti materiali della vita, che impongono una risposta di lealtà e la dimensione dell’istruzione, come protezione e cura continua perché l’uomo possa camminare. Qui si gioca l’aspetto positivo dell’esercizio dell’autorità capace di generare un atteggiamento di obbedienza. Affetto e legge, cura e lealtà, capacità di indirizzare e di correggere. Dalla relazione tra questi elementi prende forma la risposta di obbedienza perché corrispondente a quelle che sono le reali esigenze della persona. Perché “accogliere senza indirizzare è accondiscendere” e “indirizzare senza accogliere è costringere”[5]. Alla luce delle esperienze mediate dall’universo familiare è così possibile maturare un primo senso di obbedienza, che verrà ulteriormente approfondito nell’età matura come atteggiamento di fondo per legare, attraverso la mediazione dell’autorità e nel confronto costruttivo con essa, se stessi al progetto e ad uno stato di vita.

 

 

La questione della legge

È già stato accennato all’importanza dei contenuti, cioè di quanto viene materialmente richiesto nell’esercizio educativo dell’autorità, ma anche si è affermato il senso che ogni azione proposta, sia di tipo negativo, come di tipo positivo, viene ad assumere in ordine alla costruzione della persona e alla sua risposta di obbedienza. In questa sede solo il compito di precisarne ulteriormente alcuni aspetti. Il riferimento alla legge, alle regole che impongono da parte dei genitori la fermezza, sgorga da un attento discernimento sulla situazione e sul significato profondo dell’azione educativa. Il rifarsi a queste regole da parte del ragazzo e corrispondervi, non è pensabile nell’ottica di un’imperatività senza fondamento, ma esige corrispettivamente il supporto della garanzia dell’autorevolezza personale dei genitori e la trasparenza dell’orizzonte di valori fatto proprio da essi attraverso la storia di vita personale e di coppia[6]. In questa luce emerge la funzione particolare che la norma viene ad avere e per la quale si pone un’obbedienza, che va al di là del contenuto della norma stessa, senza peraltro oltrepassarlo puramente: quella di esprimere una guida alla chiarificazione del desiderio profondo della persona, quella di indirizzarla ad andare al di là dell’immediata saturazione del proprio bisogno. Lo aveva intuito già nel 1893 M. Blondel in un passo della sua opera più celebre, L’azione.

La vita del bambino alterna desideri opposti e movimenti capricciosi. Egli costruisce e distrugge, e ben presto si stanca di tutto: è un’anarchia vivente. Perché in lui si organizzi un sistema, e le sue forze si raccolgano in un fascio, occorre che impari a seguire decisamente una delle sue tendenze escludendone altre. L’educazione deve aiutarlo a questa cristallizzazione, come il filo che affonda nel bagno di zucchero candito. Dargliela sempre per vinta, non contraddirlo e non rifiutargli niente significa rovinarlo sistematicamente, significa rendergli incomprensibili i suoi desideri. Egli finisce per non sapere più ciò che vuole. Desidererebbe desiderare, e si irrita perché non lo deve più fare e non lo può più fare[7].

In questo senso si coglie l’aspetto positivo della norma: quello di dare un nome al proprio desiderio, prima che venga soffocato dalla trama minuta dei bisogni a cui si vuole dare soddisfazione. L’obbedienza alla norma diventa così progressivo esercizio della chiarificazione di sé e dunque “sentiero di vita” (Pr 6,22b). In ordine alla maturazione dell’obbedienza è allora importante porre azioni in cui il differimento del desiderio, attraverso l’accondiscendenza alla norma posta dai genitori, sia in vista di una sua realizzazione più piena. Sia, in sostanza, un “no” capace di celare e di raggiungere un “sì”[8]. Questa esperienza è in realtà maturabile attraverso il tempo, ma impone anche da parte dei genitori, la capacità di ritornare sul senso di quanto proposto ai figli e di renderli progressivamente sempre più partecipi alla sua chiarificazione. Perché gli inevitabili “no” non siano espressione ed esibizione di potere senza riuscire a produrre esperienze significative, perché la mancanza di norme non celi, particolarmente nel figlio adolescente, il sospetto di una mancanza di amore nei suoi confronti. Ogni “no”, così come ogni “sì” dovrebbe generare esperienze, su cui ritornare nel dialogo educativo, dovrebbe essere sentito come effettivamente importante sia da parte dei genitori che lo propongono, sia da parte dei figli che sono chiamati ad accoglierlo e a chiarificarne progressivamente il senso. E ogni esperienza genera fiducia nell’obbedienza perché essa si profili come risposta più piena all’ideale a cui la persona è chiamata.

 

 

La questione della obbedienza e la fede

Il testo biblico che ha guidato questo percorso allude, al di là dell’educazione e dell’autorità familiare e dell’obbedienza ai comandi-insegnamenti dei genitori, ad una rilettura teologica, nella quale si rende evidente che la ricerca della sapienza, e la disciplina dell’obbedienza per conseguirla, assumono il profilo ultimo della fede. Il credente è colui che obbedisce alla Parola ed esprime questo nel suo atto di fede. Nell’obbedienza egli invera la parola data con la vita offerta, come fedele risposta e garanzia a tutela della qualità della parola. L’istruzione della sapienza è così di indirizzare alla fede, come vera dimensione dell’esistere dell’uomo. In questa luce il passaggio dalle esperienze di obbedienza nell’ambito familiare a quelle più complesse legate alle forme storico-civili del vivere si carica di un appello ad un senso più pieno, nel quale anche la parola umana dell’obbedienza trova il suo ultimo referente: la Parola di Dio che accolta nell’ubbidienza dall’uomo genera la parola della fede. Ogni esperienza di ubbidienza umana partecipa simbolicamente all’obbedienza della fede e ad essa deve far riferimento perché venga misurata in autenticità, perché non degeneri in servile sottomissione o oppressione di potere. In questa prospettiva l’espressione della lettera agli Efesini: “Pertanto, piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome” (Ef 2,14-15) ben configura questa relazione simbolica tra l’ubbidienza della fede e quella legata all’esperienza dell’umana figliolanza e aiuta a chiarire come l’iniziare all’obbedienza in famiglia sia predisporre quella parola atta a significare l’esperienza della fede, modellata su quell’obbedienza del Cristo, il quale “pur essendo Figlio,imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8).

Trova in questa luce un suo particolare fascino, al di là del confine imposto dal senso del testo biblico[9], l’interpretazione offerta del quarto comandamento al n. 15 della Lettera alle famiglie di Giovanni Paolo II, nel quale si accenna all’onore dei figli nei confronti dei genitori, onore che sublima il tratto più angusto dell’obbedienza naturale, come fondata su di un’attitudine propria dei genitori a rendere onorabile, attraverso la costante garanzia della vita, la propria parola:

La famiglia è una comunità di relazioni interpersonali particolarmente intense: tra coniugi, tra genitori e figli, tra generazioni. à una comunità che va garantita in modo particolare. E Dio non trova garanzia migliore di questa: “Onora”. (…) “Onora tuo padre e tua madre”, perché essi sono per te, in un certo senso, i rappresentanti del Signore, coloro che ti hanno dato la vita, che ti hanno introdotto nell’esistenza umana: in una stirpe, in una nazione, in una cultura. Dopo Dio, sono essi i tuoi primi benefattori. Se Dio solo è buono, anzi è il Bene stesso, i genitori partecipano in modo singolare di questa sua bontà suprema. E dunque: onora i tuoi genitori! Vi è qui una certa analogia con il culto dovuto a Dio. (…) È unilaterale il sistema interpersonale indicato dal quarto comandamento? Esso impegna ad onorare solo i genitori? In senso letterale, sì. Indirettamente, però, possiamo parlare anche dell’“onore” dovuto ai figli da parte dei genitori. “Onora” vuol dire riconosci! Lasciati cioè guidare dal convinto riconoscimento della persona, di quella del padre e della madre prima di tutto, e poi di quella degli altri membri della famiglia. L’onore è un atteggiamento essenzialmente disinteressato. Si potrebbe dire che è “un dono sincero della persona alla persona”, ed in tal senso l’onore s’incontra con l’amore. Se il quarto comandamento esige di onorare il padre e la madre, lo esige anche in considerazione del bene della famiglia. Proprio per questo, però, esso pone delle esigenze agli stessi genitori. Genitori – sembra loro ricordare il precetto divino -, agite in modo che il vostro comportamento meriti l’onore (e l’amore) da parte dei vostri figli! Non lasciate cadere in un “vuoto morale” l’esigenza divina di onore per voi! In definitiva, si tratta dunque di un onore reciproco. Il comandamento “onora tuo padre e tua madre” dice indirettamente ai genitori: Onorate i vostri figli e le vostre figlie. Essi lo meritano perché esistono, perché sono quello che sono: ciò vale sin dal primo momento del concepimento.

 

 

 

 

 

Note

[1] G. ANGELINI, Il figlio: una benedizione, un compito. Sestante, 1, Vita e Pensiero, Milano 1992, pp. 200-201.

[2] “Quella oggettività, della quale ha bisogno la buona relazione educativa del genitore con il figlio, non può essere scelta semplicemente perché serve al figlio; in tal caso essa diverrebbe una mimica artificiosa, poco convincente, della cui falsità i figli si accorgerebbero subito. Essa deve invece corrispondere a una persuasione e deve caratterizzare la generalità della vita, non solo il rapporto con il figlio. Soltanto a tale condizione potrà generare uno stile della vita familiare tutta: uno stile chiaro, subito accessibile e insieme subito parlante agli occhi del figlio stesso” (G. ANGELINI, o.c., p. 200).

[3] A. MANENTI, Coppia e famiglia: come e perché. Aspetti psicologici, “Psicologia e formazione, 10”, EDB, Bologna 1993, p. 213.

[4] Cfr. E. SCABINI, Psicologia sociale della famiglia. Sviluppo dei legami e trasformazioni sociali, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 90-98.

[5] A. MANENTI, o.c., p. 221.

[6] “L’adolescente difficilmente crede alle raccomandazioni o agli imperativi che il genitore gli propone ‘per il suo bene’; crede assai più a quei valori e a quelle norme di comportamento nei quali la vita tutta dei genitori mostra di cercare la propria autorizzazione e il proprio senso. Crede con tanta più facilità, quanto più evidente è ai suoi occhi che quel sistema di valori non è stato inventato o riesumato per servire alla sua correzione, ma costituisce effettivamente il ‘segreto’ della vita del padre e della madre” (G. ANGELINI, o.c., p. 197).

[7] M. BLONDEL, L’azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi ed. It. a cura di Sergio Sorrentino, “Classici del pensiero, 5”, Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1993, p. 284 (ed. Or. 1893). Quasi a commento di questa affermazione di Blondel può essere proposta questa riflessione di G. ANGELINI: “I piccoli piaceri sono anche un rimedio a quel difetto (di) stabilità emotiva, di cui si diceva; quanto meno, essi sono cercati come un rimedio in tal senso. Quel difetto può infatti essere descritto così: io non conosco quale sia il mio desiderio più profondo e serio, quello dal cui esaudimento dipenderebbe addirittura la riuscita della mia vita; ho soltanto desideri vaghi, che appunto mediante questa o quell’altra esperienza di piacere cercano saturazione; cercano ancor prima di chiarirsi” (G. ANGELINI, Le virtù e la fede, “Contemplatio, 11”, Glossa, Milano 1994, p. 73).

[8] Cfr. G. GILLINI – M. ZATTONI, Ben-essere in famiglia. Proposta di lavoro per l’autoformazione di coppie e di genitori, “Introduzioni e trattati, 5”, Queriniana, Brescia 1994 2, pp. 113-120.

[9] È noto, a questo proposito, che il dettato del quarto comandamento, come del resto tutto il testo del Decalogo, abbia come destinataria la comunità adulta degli Israeliti. Pertanto più che il comandamento che lega in un rapporto di ubbidienza i figli ai propri genitori, esperienza del tutto accettata culturalmente e dunque non bisognosa di una parola specifica di JHWH, esso è da riferirsi all’esigenza del rispetto dei genitori anziani da parte dei figli adulti, come descritto in modo esemplare in Sir 3,2-6, 12-14. Si noti ancora come questo comandamento è “associato ad una promessa” (Ef 6,2 in rif. a Es 20,12) ad un’apertura per il futuro che non può essere garantito solo dal presente, ma che proviene da un passato, quello della vita dei propri genitori che ha inserito ogni figlio di Israele nella promessa di Dio. Per un accostamento puntuale, al senso profondo del testo, che dalla trattazione catechistica e teologico morale è stato ridotto all’elaborazione dei doveri dei figli nei confronti dei genitori e, su ispirazione del testo di Ef 6,1-4, rispettivamente degli ultimi a vantaggio dei primi, ed esteso a tutti i rapporti di tipo familiare, sempre per suggestione del testo paolino, tra i molti studi si può fare riferimento a: W.H. SCHIMIDT, I dieci comandamenti e l’etica veterotestamentaria, “Studi biblici, 114”, Paideia, Brescia 1996, 135-146; J. SCHREINER, I dieci comandamenti nella vita del popolo di Dio, “Biblioteca Biblica, 5”, Queriniana, Brescia 1991, 64-72.