N.01
Gennaio/Febbraio 1998

I mille modi per raccontare la nostalgia del paradiso come sorgente della vera gioia

 

 

Il paradiso dell’infanzia

Fin, da piccola imparai a coniugare la gioia con la bontà. La gioia del giocattolo nuovo, del dono natalizio, finiva presto, non così invece la gioia del contatto con la natura. Provavo una pace profonda nello sfamare i piccoli passeri nei giorni di neve, o nel vedere il fagiolo, “seminato” dalla mamma nel cotone imbevuto d’acqua, far uscire un fragile getto poi crescere e fiorire.

Compresi così che Dio gioisce nel bene, gioisce del bello. Al termine di ogni sforzo creativo, la Bibbia ci informa che Dio vide che ogni cosa era buona, era “Tov” – in ebraico – vocabolo che riassume in sé il concetto di bontà e di bellezza. Così, non appena seppi tenere in mano una matita, provai anch’io molta gioia nel creare. Il foglio candido si popolava di forme e di colori, inventavo mondi colmi di pace dove ogni cosa era a misura dell’idea di uomo felice che coltivavo dentro di me.

 

I paradisi artificiali

Crescendo mi accorsi quanto distante fosse la realtà, vidi il lato triste del mondo, la sua crudeltà. E, quasi rifiutando l’evidenza, nel corso della mia adolescenza mi gettai in un’estenuante ricerca della gioia. Una ricerca che mi condusse alla scoperta di molti paradisi artificiali dai quali però Dio era scomparso. Il primo si ispirava alla vita favolosa condotta sull’isola di White, i suoi adepti, gli hippies, ne parlavano con enfasi, vivevano mettendo tutto in comune, professavano l’amore libero e si annebbiavano i sensi con l’uso di droghe. Ma la loro via si rivelava presto una strada senza uscita: presto o tardi ci si ritrovava soli con se stessi, in compagnia dei propri fantasmi interiori, sprofondando non di rado in un baratro senza fondo.

In un altro “paradiso” si vendevano gioie più concrete, contenute in promesse sindacali o in progetti di riforme politiche sconvolgenti che avrebbero reso il popolo re e la povertà un ricordo. Tali promesse somigliavano molto a quelle fatte dal Gatto e dalla Volpe a Pinocchio, per colpa delle quali il Burattino perse danaro e fiducia nell’amicizia.

La gioia più appariscente mi venne offerta dal mondo dei lustrini e delle luci psichedeliche, dove il divertimento è fine a se stesso e il successo, unito a un certo “look”, la sua arma segreta, ma anche qui, come in una sbornia, finito il piacere dell’alcol, ciò che resta è soltanto mal di testa e nausea della vita. Di una cosa rimasi sorpresa: in questi supermercati della gioia, la parola dolore non esiste: il dolore si deve esorcizzare, dal dolore si deve fuggire, evadere. Eppure nessuno al mondo è senza dolore e la sua presenza non può essere dimenticata. Il dolore è presente in ogni ambiente, e segna ogni esperienza.

 

Alla scoperta della gioia vera

Un giorno fui invitata a una grande festa organizzata da un movimento cristiano. Incontrai una marea di giovani felici, nonostante le loro testimonianze parlassero di sofferenze, di famiglie divise, di vite stroncate dalla malattia; tutto però era visto alla luce della fede e affrontato con coraggio e speranza nella provvidenza di Dio. Ne rimasi fortemente impressionata.

Poco tempo dopo rimasi vittima di un incidente stradale. Un’auto in corsa travolse la vettura dove mi trovavo facendola capottare ripetutamente. Non ricordo nulla; due fari bianchi, immensi, furono l’ultima cosa che vidi poi il buio. Mi trovai in una notte inondata di pace e di serenità, sentivo di essere preghiera, protesa verso l’oscurità in attesa dell’Incontro. Ed ecco in fondo al buio una piccola luce venirmi incontro, bianchissima, sempre più vicina. Sapevo di essere alla Presenza di Dio, fossi morta in quell’istante Dio non mi avrebbe chiesto che una sola cosa: amore. Non mi sarebbe stato chiesto a quante. Messe avevo partecipato, né quanti rosari avevo detto, ma quanto avevo amato gratuitamente. Quella luce infatti era Amore, era pura gratuità, mi accoglieva nel suo splendore senza condizioni e senza limiti. Ero io piuttosto ad esitare, a non poter andarle incontro, avrei desiderato essere Luce, come lei, ma troppo poco amore, troppa poca gratuità scoprivo in me.

Al risveglio in ospedale, nel mio cuore, stretto dalla morsa del dolore per lo stato pietoso del mio corpo, zampillava la sorgente purissima della gioia. Ora sì la riconobbi! Era la gioia vera, quella che nasce dalla certezza di essere amati di un Amore che è più forte della morte. Quella gioia che nasce dalla scoperta di non essere al mondo a caso, ma di essere un progetto di Bene per il tempo in cui ci è dato di vivere e per la porzione di umanità che ci è dato di incontrare. Sì, siamo al mondo per essere la luce, una scintilla dell’Amore di Dio per ogni persona che ci vive accanto.

 

Il paradiso dentro di me

Non avevo più bisogno di cercare paradisi “fuori” di me, il paradiso, capii, l’abbiamo dentro. Come nel racconto Chassidico che narra di un ragazzo orfano, il quale cercando la fortuna di famiglia – nascosta dal padre chissà dove – scopri attraverso un sogno che non era necessario andare tanto distante, come egli di fatto fece, ma che il tesoro si trovava li, in casa sua, sotto la stufa, così anch’io scoprii che il segreto della gioia era nel mio stesso cuore, nel rapporto di fiducia e di amore con Colui che ha voluto la mia vita e che non vuole la mia morte.

 

Seminare la gioia

Avevo incontrato Gesù e con Lui il vero Paradiso: la sua vita di amore e di gioia col Padre nello Spirito Santo. La Trinità, scoprivo, è comunione; ogni persona della Trinità si dona all’altra senza riserve: questo è il segreto della gioia di Dio. La vita stessa di Gesù in mezzo a noi mi insegnava che “c’è più gioia nel dare che nel ricevere”. Cominciai a darmi da fare per gli altri attraverso scelte di volontariato, come anche attraverso servizi più umili e quotidiani: donare un sorriso a chi avevo accanto, accettare senza repliche uno sgarbo o prestare aiuto senza tener conto dei miei impegni, della mia fretta. Mentre donavo mi accorgevo spesso di ricevere, di ritrovarmi a sera più ricca. Eppure non era ancora tutto. Dare le cose, dare parte del mio tempio non bastava: c’era in me un’esigenza di totalità.

Avevo un ragazzo con il quale pensavo di costruire una famiglia. Nel perseguire questa meta sentivo di avere nel cuore un desiderio immenso di dare amore che a fatica restava entro i confini degli affetti familiari, belli e preziosi, ma un po’ troppo angusti, io volevo dare amore a tutti. Un giorno l’esempio evangelico del giovane ricco mi folgorò: la sua vita ricca non gli bastava, ardeva dentro di lui l’aspirazione a qualcosa di più, anelava al paradiso, alla vita eterna. Mi identificai pienamente con questa figura e mi faceva soffrire pensare a come la sua esperienza fallì: all’invito di Gesù: “Vai vendi tutto quello che hai dallo ai poveri poi vieni e seguimi e avrai un tesoro nel Cielo”. Egli voltò le spalle e se ne andò, triste. Non volevo cadere nello stesso laccio, questo giovane aveva barattato la sua felicità con le cose, aveva scelto le sicurezze di oggi, perdendo la gioia del domani.

 

Tu sei la mia gioia: eccomi!

Come ogni tessera musiva, se collocata al posto giusto, rende bello tutto il mosaico, così intuii che rispondere pienamente alla chiamata di Dio era il modo migliore per fare felici anche gli altri. E poiché il mio desiderio era quello di donare amore a tutti, mi donai completamente a Dio nella maniera più radicale che mi fu dato di trovare: la clausura.

Sono quasi quattordici anni che vivo in Monastero, continuo, come nella mia infanzia, a inventare nuovi mondi dipingendo cartoline, questi però non sono più solo frutto della mia immaginazione, ma sono frutto della promessa che Dio ha fatto all’umanità. Una promessa tramandata lungo i secoli e sigillata nella Sacra Scrittura: ci sono per noi cieli nuovi e terra nuova, non solo nel futuro escatologico, ma vicino a noi, anzi nel nostro stesso cuore. È nel cuore che si accoglie la sfida e si gioca la partita della gioia.

Per questo credo, Dio mi ha posto in un monastero che è quasi il cuore stesso del mondo, da qui posso seminare gioia nel cuore di ogni uomo. Un giorno un sacerdote cileno mi ha detto: “Ho distribuito le sue cartoline, la maggior parte delle persone qui non capiscono l’italiano, la gioia che trasmettono però, li riempie di luce e di pace”. Il linguaggio della gioia è universale, non conosce frontiere, nasce dentro di noi, ma porta frutto in altri cuori e si moltiplica per la forza misteriosa del contagio.