Il frutto dello Spirito è gioia nella esperienza di libertà di chi cresce nel dono sincero di sé
L’espressione paolina “il frutto dello Spirito è gioia” è tanto sintetica quanto densa di contenuti teologici. Essa si colloca nella parte parenetica della lettera ai Galati dove Paolo vuole far comprendere ai suoi interlocutori come la vita cristiana sia essenzialmente caratterizzata dalla libertà, quella libertà nuova che il Signore Gesù ha realizzato in sé e ha dispiegato nel cuore dei battezzati come dono da non perdere: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (5,1). Una libertà sul modello di quella d’Israele in cammino verso la terra promessa, da non confondere con la licenziosità o il permissivismo, ma da accogliere come epifania della carità di Dio nel grembo della storia e da costruire giorno per giorno nella forma di un servizio reciproco: “Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere
secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri” (5,13).
La gioia cristiana si collega alla conquista di questa libertà. Sussiste infatti, secondo l’Apostolo, un’interazione profonda tra libertà, “vita nello Spirito” e gioia: l’una non può andare senza l’altra. La libertà cristiana appartiene alla “vita nello Spirito” allo stesso modo in cui la “vita nello Spirito” è suscitatrice della libertà cristiana. L’una e l’altra sono causa ed effetto, segno e controprova del frutto della gioia concessa in dono ai figli di Dio. È in questo quadro che Paolo contrappone il “vivere secondo la carne” (5,16-21), al “vivere secondo lo Spirito” (5,22-25), con la libertà spirituale che ne consegue (“Contro queste cose non c’è legge”, 5,23). L’accento è posto sul principio operativo dell’agire. Se il principio operativo è l’uomo abbandonato a se stesso e alle sue debolezze (“lasciarsi dominare dalla carne”), le opere saranno “fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordie, gelosie, dissensi, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere” (5,19-21). Se, al contrario, il principio operativo è l’azione dello Spirito, allora i frutti saranno “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”. L’abbondante esemplificazione di entrambi gli esiti mostra una contrapposizione netta tra due modi di concepire l’esistenza umana. Di qui l’invito che, a modo di inclusione, riassume l’intera esortazione paolina: “Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo secondo lo Spirito” (5,25). L’indicativo teologico (viviamo) porta con sé l’imperativo etico (camminiamo).
È interessante notare, a livello linguistico, come Paolo non utilizzi l’espressione “opere dello Spirito” in parallelo a “opere della carne”, come ci si aspetterebbe, ma la dizione “frutto dello Spirito” e per di più al singolare (“frutto”, non “frutti”). Il termine “opere” (erga) richiama un agire che appartiene a chi lo compie, opere fatte, prestate; il vocabolo “frutto” (karpòs) allude ad un dono elargito come grazia dell’unico Spirito in tutte le forme in cui si esprime. La gioia cristiana è descritta dunque non come il risultato di una conquista, ma come l’espressione mirabile, inattesa e gratuita di un dono che viene da Dio: il credente porta in sé questa gioia, non la produce. Il suo intero percorso di vita sarà di passare dal dono accolto come “frutto dello Spirito” al dono vissuto come risposta personale alla chiamata del Signore.
E tale è la vocazione cristiana nelle sue profondità: un diventare ciò che si è stati resi per grazia una volta per sempre. È in questo quadro che va collocato il discorso cristiano della gioia e il suo rapporto con la vocazione. Prima tuttavia è necessario richiamare la dimensione antropologica della gioia. Il lieto annuncio del Vangelo infatti non si sovrappone all’esistenza umana, ma la ricupera e la conduce verso la pienezza voluta da Dio da sempre, allo stesso modo in cui la grazia non distrugge la natura, ma la purifica, la perfeziona e la eleva.
La nostalgia della gioia
Il desiderio della gioia appartiene alla costituzione fondamentale dell’essere umano e, prima che un elemento della rivelazione cristiana, è un dato insito nella nostra più profonda identità creaturale. La gioia rappresenta l’istanza, la nostalgia più forte – insieme all’amore – della nostra esistenza umana. Tutto il nostro essere è fatto per la gioia. “Non si può trovare uno – esclama sant’Agostino – che non voglia essere felice”[1]. Nonostante tutte le sue miserie – osserva B. Pascal – l’uomo “vuol essere felice, e non vuol essere che felice e non può non volerlo”[2]. La stessa infelicità non è che il risvolto al negativo del bisogno di felicità inscritto nel cuore umano. Fin da quando, appena nati, ci apriamo al sorriso siamo già esseri che si aprono alla gioia. Il nostro primo gemito non è l’inizio di “una vita di pianto”, come pensava G. Leopardi, ma l’appello a farsi riconoscere come esseri che invocano l’amore e quindi la gioia. Tutto il nostro itinerario di crescita è centrato in definitiva sulla ricerca della felicità. Da adolescenti, la sperimentiamo nella scoperta della vita, dell’amicizia e dell’amore; da adulti come un desiderio profondo che ci accompagna per tutta la vita. Chi di noi, spalancando la finestra in un mattino di primavera, non ha sentito esplodere dentro di sé questa gioia, la gioia di aprirsi al fiorire del mondo, o a sera, quando il rosseggiare del cielo sfuma all’orizzonte e l’aria si imbrunisce, non ha avvertito il bisogno struggente di una felicità senza fine, di una gioia illimitata che vada al di là della transitorietà delle cose o del loro immediato possesso? Chi non ha provato questo desiderio come una nostalgia di infinito, di un amore senza limiti, di una bellezza indistruttibile?
La gioia come “dono dall’alto”
Risiede in questa apertura infinita del nostro cuore la nota caratteristica del desiderio naturale della felicità, del “desiderium naturale gaudii”, come dicevano gli antichi. L’uomo, essere della trascendenza, cerca una felicità totale che dia un senso pieno, definitivo, alla sua esistenza. Non si accontenta della gioia di un momento o dipendente solo dalle cose che si possiedono o si fanno, ma da chi si è, dal progetto di vita scelto, da un incontro e dal suo significato trascendente. San Tommaso d’Aquino argomenta in questa direzione quando spiega come la felicità attinga la sua espressione più nobile quando l’uomo, a livello di facoltà superiori, trova la sua soddisfazione nella pienezza del “bene conosciuto e amato”, in modo tale che la gioia è tanto più grande quanto più grande è il “bene conosciuto e amato”[3]. Sta qui il punto discriminante della vera nozione di gioia. La gioia è tanto più alta e realizzativa quanto più alto e realizzativo è questo “bene conosciuto e amato”. È l’oggetto/soggetto a cui si tende il paradigma del significato e del valore della felicità, non altro. Ciò dice perché solo all’interno della nostra vocazione trascendente si trovi il compimento della gioia nella sua pienezza. Solo nella conoscenza e nell’amore di Dio il cuore umano è, di fatto, trasportato al di sopra di sé e posto nella condizione di sperimentare il senso di una felicità senza limiti. L’uomo conosce la pienezza della gioia quando entra nel possesso di Dio conosciuto e amato come il bene supremo e immutabile[4].
La gioia deve poter rispondere a questa aspettativa, realizzando la struttura trascendentale della persona e il significato ultimo della sua esistenza. Una simile gioia può venire all’uomo solo come salvezza e dono di grazia. La limitatezza dell’uomo infatti gli impedisce di poter raggiungere da solo il sogno infinito di felicità che porta in sé. L’annuncio della fede è l’annuncio che ciò che era impossibile all’uomo è stato reso possibile da Dio. L’evento di Gesù di Nazareth rappresenta la pienezza di questo dono; esso rivela e compie l’apertura trascendentale dell’uomo, apportando al mondo la “lieta notizia” della gioia (euanghellion). Nel Signore Gesù la gioia a cui la creatura umana aspira con tutto il suo essere è offerta come invito e festa di nozze[5]. Il proclama della fede consiste nel rivelare che il “desiderio naturale della gioia” attinge alla sua risposta definitiva solo nell’eschaton di Gesù Cristo, il Redentore dell’uomo e del mondo, il Vivente, festa vittoriosa e indistruttibile dell’umanità. La gioia è il dono che Dio ha concesso all’umanità in Cristo e che il cristianesimo proclama al mondo. Tale è il senso del “Vangelo della gioia”: la gioia, già preannunciata dai profeti per i tempi messianici, come “buona notizia” da annunciare a tutti; una “buona notizia” che non sgorga semplicemente dal cuore umano, ma dal venire di Dio fra noi, nel cuore della nostra esistenza. È la gioia di un dono inaspettato e decisivo. È la gioia del Signore che si rivela e si dona al mondo, facendo nuove tutte le cose. “Rallegrati” (Lc 1,28): l’avvenimento che inaugura l’adempimento delle promesse di Dio è un invito alla gioia. L’esultanza che caratterizza i racconti lucani dell’infanzia si pone in questa linea: è la gioia di Elisabetta che sente trasalire il bimbo nel grembo incontrandosi con la “benedetta tra tutte le donne” (1,39-45); è la gioia di Maria nella quale lo Spirito santo ha suscitato l’Unigenito di Dio e le fa proclamare con esultanza il “Magnificat” (1,46-55); è la gioia di Zaccaria nel canto del “Benedictus” (1,67-79); è la gioia dei pastori dinanzi all’evento della natività; un evento che è di grande gioia per tutto Israele (2,8-20); è la gioia di Simeone nel tempio (2,29-32), fino alla gioia di Gerusalemme la domenica delle palme (19,35-38). Il Vangelo è pervaso, dall’inizio alla fine, da questa gioia messianica[6]. Le beatitudini sono la magna charta della gioia proclamata da Gesù nel bel mezzo della vita e della storia; una gioia nuova, paradossale, che va al di là della logica umana e dei suoi paradigmi[7].
L’antropologia della gioia si fa, a questo punto, cristologia della gioia o, meglio, “cristocentrismo della gioia”. L’irruzione dell’Unigenito di Dio nella storia risponde al bisogno di autotrascendenza dell’uomo, alla sua attesa, la riprende, ne rivela il senso e ne rende possibile la realizzazione piena e ultima. È allora che la nostalgia di gioia inscritta nel cuore dell’uomo riceve la sua definitiva attuazione, trasformandosi in festa dei risorti nel cuore della storia. Il cristianesimo è – in questo senso – la pasqua della vita: è la primavera del mondo. È questa l’inebriante certezza della fede. “Te lo dico io, chi è il contrario di un popolo cristiano – fa dire G. Bernanos ad uno dei protagonisti di un suo romanzo – il contrario di un popolo cristiano è un popolo triste”[8].
La vocazione come esperienza di gioia
Ogni vocazione, dalla vocazione al matrimonio alla vocazione al sacerdozio e alla vita consacrata, deve potersi realizzare in questa dimensione, per essere segno di grazia per il mondo, Esiste un dinamismo profondo tra la chiamata di Dio come chiamata alla libertà e il dono della gioia nello Spirito. Questo dinamismo è un compito affidato ai chiamati come un’impresa etica da realizzare, come una gioia-cercata e una gioia-da-ridonare. Un’idea di questa gioia, la possiamo avere se pensiamo, per un momento, al bellissimo romanzo di Richard Bach: “Il Gabbiano Jonathan Livingston”. L’autore dedica il libro “al vero Gabbiano Jonathan che vive nel profondo di noi tutti”. Il racconto comincia quando il Gabbiano Jonathan si rifiuta di accondiscendere al comportamento comune agli altri, che si accontentano di volare basso, solo per procurarsi il cibo da mangiare. Egli vuole andare su, in alto, studiare nuove tecniche di volo, entrare in nuove conoscenze, in nuovi mondi. Solo allora si sente vivo, fremente di gioia, fiero di aver domato la paura. Questa scelta va contro corrente e viene avversata dallo stormo e dagli stessi genitori. “Perché Jonathan? Perché non devi essere un Gabbiano come tutti gli altri? Ci vuole tanto poco”, gli ripete continuamente la madre. “Sta’ un po’ a sentire, Jonathan – gli dice un giorno suo padre con le buone – manca poco all’inverno. E le barche saranno pochine e i pesci nuoteranno più profondi, sotto il pelo dell’acqua. Se proprio vuoi studiare studia, ma studia la pappatoia e il modo di procurartela. Sta faccenda del volo è bella e buona, ma mica puoi sfamarti con una planata di grandi altezze, dico bene? Non scordarti, figliolo, che si vola per mangiare”. È a questa idea che Jonathan si ribella. Egli non vuol ridurre la sua vita solo ad una ricerca di cibo. È così che “non passò molto tempo che Jonathan piantò lo stormo e tornò solo, sull’alto mare, ad esercitarsi nel volo, affamato e felice”. La scelta comporterà lotte, sacrifici di ogni genere, esperienze fallimentari, scoraggiamenti, ma alla fine premierà Jonathan, introducendolo in una condizione che l’autore del romanzo non esita a definire “il paradiso”, dove tutti i Gabbiani volano ad altezze meravigliose e si amano. È solo quando Jonathan arriva a questa meta che raggiunge l’esperienza inebriante della felicità. Trova altri che hanno vissuto il suo medesimo percorso e hanno raggiunto la stessa meta. Con loro può condividere la gioia della conquista. “Ricordati Jonathan che il paradiso non si trova nello spazio e nel tempo. Il paradiso è essere perfetti” – gli dice il maestro Ciang – “Tu seguita ad istruirti sull’amore”. È proprio per questa perfezione che Jonathan non può rinchiudersi nella sua felicità; si ricorda di quanti non hanno raggiunto quella meta, perché non hanno imparato a “volare per la gioia di volare”; sente di non poter essere felice da solo, vuole che altri sperimentino la sua stessa gioia, ed ecco che si fa maestro di volo per i più giovani. “Ciascuno di noi è, in verità, un’immagine del grande Gabbiano, un’infinita idea di libertà senza limiti”, spiega Jonathan a Lynd. E quando questi tenta di fermarlo presso lo Stormo, Jonathan risponde: “Non posso. Non pensi, Lynd, che potrebbero esserci altri Stormi, altri Lynd, che hanno bisogno di capire quanto sia bello volare. Qui, voialtri avete già iniziato il cammino verso la luce”. E Jonathan scompare nell’aria.
Si tratta di un racconto che ha avuto un grande successo, proprio perché rappresenta, in forma di metafora, quello che ciascuno di noi si porta dentro: il bisogno di librarsi in volo, in alto, liberi e felici, superando ogni forma di mediocrità, di imborghesimento o di appiattimento.
Non è questa la vocazione cristiana: librarsi in alto, al di là della mediocrità comune e dei bisogni immediati, per realizzare il radicalismo del vangelo, il radicalismo dell’amore, e impegnarsi ad insegnare agli altri a fare altrettanto? È all’interno di questa tensione umana, vocazionale, che si colloca l’annuncio paolino sulla gioia come frutto dello Spirito. Non è un caso che l’apostolo situi la gioia subito dopo l’amore e prima degli altri doni, quasi a voler dire che l’opera dello Spirito, nel tempo della Chiesa, consiste nel consentirci di realizzare la pienezza dell’amore da cui sgorga la gioia spirituale, da cui a sua volta nasce tutto il resto; un modo nuovo di vivere, sul modello della novità di Cristo. Il cristianesimo è gioia: è la gioia del Risorto che si fa gioia dell’uomo. È necessario, da questo punto di vista, smentire tutta una serie di luoghi comuni sulla tristezza come attribuito all’esistenza cristiana in quanto tale. L’idea del drammaturgo norvegese Henrik Ibsen (1828-1906) secondo cui il cristianesimo si identificherebbe con “la malinconia”, o quella dello scrittore francese Anatole France (1844-1924) a parere del quale il Vangelo sarebbe “nemico della gioia”, rappresentano delle autentiche mistificazioni. Altro è dire che vi sono cristiani tristi, accettando la sfida di Nietzsche sul fatto che i cristiani spesso non hanno un’aria da salvati, altro è dire che il cristianesimo si identifica con un annuncio di tristezza! Rivelando l’uomo all’uomo, Cristo chiama la creatura umana alla piena realizzazione del suo bisogno di felicità, non accontentandosi più di felicità parziali, ma cercando la felicità totale nell’incontro col Dio della salvezza e nel lasciarsi toccare dall’evento della sua grazia: la gioia in quanto non è semplicemente qualcosa, ma qualcuno, la persona del Kyrios, il Risorto vivente nei secoli. È in lui che lo stesso dolore può essere trasfigurato. A partire dalla pasqua, “tutto è grazia”. La vita intera è (o può essere) grazia. E tale è l’annuncio quotidiano della Chiesa: “Venite la festa è pronta” (Mt 22,4).
Il chiamato, testimone della gioia nello Spirito
La gioia cristiana è l’accoglienza di questa festa pasquale. Si tratta di una gioia nuova, altra, indistruttibile. Il principio di questa gioia è lo Spirito Santo promesso e inviato da parte del Padre come Spirito che introduce incessantemente i credenti nella verità “tutta intera”, facendo ricordare loro tutto quanto Gesù ha fatto e rendendoli capaci di rivivere in sé la novità della pasqua, di una morte vinta dalla vita. È su questo evento che si fonderà la gioia dei discepoli di Gesù, diversa da quella del mondo, perché pro-veniente dall’alto, e perciò indistruttibile, non dipendente dal fluttuare degli alti e bassi del cuore umano, ma sgorgante come da fonte dalla pasqua di Gesù, il Risorto. È a questa gioia nello Spirito che Paolo rimanda quanto invita i Galati a non tornare indietro, nella condizione di schiavitù nella quale si trovavano, ma a camminare a testa alta, come uomini e donne liberi, verso la terra promessa, la Gerusalemme celeste. E tale è la vocazione a cui tutti siamo chiamati: porsi come viandanti in cammino nella storia, testimoni della gioia della salvezza, proclamando come S. Francesco le lodi di Dio Altissimo.
Il chiamato alla sequela di Cristo è infatti in grado di recuperare l’armonia con tutto il creato: tutto diventa fratello e sorella, perfino la morte. La vita si trasforma in una festa ininterrotta, nonostante il male presente in noi e attorno a noi; una festa della vita che diventa per il chiamato la ragione profonda per lottare contro ogni forma di male e impegnarsi a portare la gioia dove c’è la tristezza, la luce dove ci sono le tenebre, la speranza dove c’è la disperazione. Le gioie umane, ciò che è buono, santo, vero, giusto, vengono allora trasfigurate e l’esistenza umana risplende di una luce nuova. Non è questo il senso profondo del battesimo come “illuminazione”, radice di ogni scelta vocazionale? Il battezzato è un “illuminato”, la cui luce è indirizzata a risplendere nella luce del Signore Gesù come luce ineffabile che illumina coloro che sono nelle tenebre, “Lui, l’Uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale. Il Signore è il fine della storia umana, il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, il centro del genere umano, la gioia di ogni cuore e la pienezza delle loro aspirazioni” (GS 45).
Note
[1] AGOSTINO, Sermo, 53.
[2] B. PASCAL, Pensieri, 169.
[3] Cfr. S. TOMMASO, Summa Theologiae, I, q. 26, A. 1; anche: Ib I-II, q. 31, a. 3.
[4] Cfr. S. TOMMASO, Summa Theologiae, II-II, q. 28, a. 1c.
[5] Sul rapporto tra antropologia e cristologia della gioia, mi permetto di rimandare al mio C. ROCCHETTA, Sentieri di gioia. Teologia e spiritualità, Milano 1994.
[6] Un’analisi dettagliata dei testi evangelici, è offerta da J. GALOT, Il cristiano e la gioia. Nota caratteristica della buona novella, Roma 1986.
[7] Cfr. J. DUPONT, Il messaggio delle beatitudini, Torino 1979; G. DEVULDER, Il Vangelo della felicità. Le beatitudini, Brescia 1990; M. – J. LE GUILLOU, Quale felicità? Riflessioni sulle beatitudini, Padova,1992.
[8] G. BERNANOS, Diario di un curato di campagna, Milano 1990, p. 17.