La proposta vocazionale tra libertà ed obbedienza. Il Convegno annuale del Centro Nazionale Vocazioni
Per rispondere all’evanescenza del valore dell’obbedienza diffusa nella cultura contemporanea e, soprattutto, per riproporne, assieme ai tratti genuinamente cristologici, la sua risonanza vocazionale, il Centro Nazionale Vocazioni ha scelto il tema Chiamati a libertà: obbedienza e vocazioni per i lavori del suo convegno annuale tenutosi dal 3 al 5 gennaio presso la Domus Mariae di Roma. Si è così completata la trilogia dei convegni dedicati alla proposta evangelica della verginità, della povertà e dell’obbedienza che ha scandito il lavoro dell’organismo della Conferenza Episcopale Italiana per la formazione permanente degli operatori nel settore della pastorale delle vocazioni in questi ultimi anni. Imponente ed attenta la partecipazione degli oltre seicento convegnisti che hanno avuto modo, nei tre giorni di studio, di confrontarsi in modo ampio sui molteplici aspetti connessi al valore antropologico e vocazionale dell’obbedienza cristiana.
Dentro la cultura dell’autenticità…
A fare difficoltà, a suscitare sospetti, non sempre infondati, nei confronti dell’obbedienza, come hanno ricordato, pur da diverse prospettive, il giornalista Piergiorgio Liverani ed il teologo Franco Giulio Brambilla, sono un sentire contemporaneo diffuso ed il permanere di un certo linguaggio ecclesiale che contribuiscono ad un impoverimento ed ad una distorsione della originale valenza cristiana dell’obbedienza ed impongono alla riflessione una via più ampia della semplice riproposizione di questo valore in vista di una sua comprensione profonda in cui appaia con maggiore chiarezza come la dimensione dell’obbedienza abbracci per intero l’esperienza di vita del credente e che, al di là di ogni genericità, domanda di essere compresa in una prospettiva vocazionale.
La relazione introduttiva di Piergiorgio Liverani ha posto l’accento sulla relazione tra obbedienza e libertà alla luce dell’attuale contesto con una spiccata attenzione all’orizzonte del pensiero post-moderno e alle sue provocazioni alla proposta cristiana. Se caratteristica negativa della post-modernità è quella di declinare l’impegno nei confronti di un pensiero e di un linguaggio forti capaci di corrispondere ai grandi problemi della vita, allora anche nei confronti dell’obbedienza è in atto una vera e propria estenuazione della sua accezione piena e costruttiva per la persona ad opera in particolare dell’“etica dell’autenticità”. In essa l’attenzione quasi del tutto autoreferenziale al soggetto conduce ad evidenziare come imperativo morale la fedeltà assoluta alle proprie aspirazioni, la canonizzazione della condizione del soggetto nella sua attuale percezione e il sospetto che ogni esercizio di autorità sulla persona non sia condotto in vista della scoperta del bene effettivo per la propria vita, ma abbia il sapore di un autoritarismo capace di instillare dall’esterno vissuti e comportamenti mortificanti. Così libertà ed obbedienza perdono il loro legame costitutivo e la loro tensione dialettica e finiscono per essere percepiti come termini antitetici: là dove inizia l’obbedienza termina la libertà intesa, però, non come appello ad un suo esercizio responsabile, ma come spontaneità. In senso più positivo il pensiero debole si profila come pensiero condotto a partire dalla coscienza di limite propria dell’uomo. Ma anche qui scoprendo i propri limiti – ha ricordato Liverani – l’uomo post-moderno ha dimenticato di essere una creatura e si è impegnato nel tentativo di darsi una libertà che, essendo egli creatura, non può che riceverne da Chi lo ha creato. Finitezza senza creaturalità, cioè sospiro ed aspirazione per una libertà dentro il confine della finitudine senza apertura relazionale ed obbediente al progetto di Dio sull’uomo: è questo un tratto qualificante la percezione di sé dell’uomo contemporaneo. Legittime appaiono così le domande poste in chiusa all’introduzione di Liverani circa la risonanza che l’attuale contesto culturale possa avere nei confronti degli adolescenti e dei giovani e circa la difficoltà di proporre itinerari vocazionali chiamati a confrontarsi inevitabilmente con il tema della libertà e dell’obbedienza.
Ritornare alle radici bibliche dell’obbedienza
Le risposte giunte dal convegno del Centro Nazionale Vocazioni hanno percorso la via lunga e doverosa della verifica biblica, teologica, spirituale e pedagogica a cui sono state dedicate altrettante relazioni. La prof. Bruna Costacurta, dell’Università Gregoriana, ricordando come il cammino del popolo di Israele sia paradigma originario di ogni credente, ha ripercorso la dinamica dell’Esodo come passaggio dalla terra d’Egitto, metafora dell’obbedienza servile e cosificata, all’obbedienza dell’Alleanza sinaitica, come espressione di servizio al Dio della libertà. L’evento -del Sinai si pone, dunque, come originaria figura di ogni chiamata che conduce all’autentica liberazione e di ogni obbedienza che si sostanzia dell’atto di fede. La liberazione del popolo – come ha ricordato la prof. Costacurta – sta alla base della sua possibilità di obbedienza alla legge. Non nel senso che la salvezza operata da Dio venga ricordata ad Israele per chiedere obbedienza in cambio, quasi legando il popolo ad una sorta di obbligazione determinata dalla riconoscenza, ma nel senso che solo la liberazione avvenuta può mettere in grado il popolo di obbedire al decalogo, perché non c’è obbedienza se non nella libertà. Così la legge mostra ad Israele che obbedire ad essa è corrispondere alla libertà e rimanere fedeli all’atto liberatore di Dio. L’osservanza della legge significa la libertà dall’idolatria, dall’autosufficienza, dal peccato, dalla schiavitù che insidiano ogni uomo nel suo cammino di vita. Più ampiamente l’obbedienza intima, attraverso la figura della legge, una disposizione costante nei confronti del riconoscimento dell’altro, una permanente apertura all’alterità nella forma della dipendenza da Dio e del debito imprescindibile nei confronti del fratello.
Il racconto della chiamata di Abramo, secondo una lettura canonica dei testi della Genesi, in cui essa avviene (Gn 12, 1) mentre il patriarca ha già iniziato il suo cammino verso la terra di Canaan (Gn 11, 31), evidenzia come ogni vocazione si verifichi nella storia di un uomo che è già nel suo svolgersi, ma che cambia radicalmente quando il chiamato accetta la propria vocazione e decide di obbedire. Per questo anche l’originario paradigma di Abramo fa comprendere al credente che con l’obbedienza si accede alla verità più profonda di se stessi e si scopre la propria identità.
Anche la terza figura evocata dalla Costacurta, quella di Geremia, posta accanto a quella del Servo di JHWH del libro di Isaia, consente di precisare come l’obbedienza alla chiamata di Dio sia l’esperienza di una totale destinazione alla missione profetica. Le caratteristiche di questa missione non sono poste come garanzia alla vita del profeta. Solo l’obbedienza porta il profeta al riconoscimento che la missione è di Dio, è Lui che ne ha la prerogativa e che la determina. Alla luce di quest’accoglienza dell’iniziativa di Dio, il suo destino, la sua vocazione profetica, diventa la “sua” missione, anche se questa consapevolezza nasce da un profondo travaglio interiore. Ma è appunto quest’impossibilità di appropriarsi della propria vocazione che permette di accoglierla in pienezza, perché fa entrare nell’obbedienza. La figura del Servo di JHWH, accostata a quella di Geremia, consente di approfondire ulteriormente il senso biblico dell’obbedienza. Egli è solo e radicalmente “servo”, in un’obbedienza non servile ma filiale, nella quale la volontà di colui che invia viene totalmente assunta come propria. Quest’assunzione della propria missione è tale da chiedere un impegno e un dono senza possibilità di ritorno.
L’esperienza di Israele viene, infine, a compiersi in Cristo. La sua adesione alla volontà del Padre, non è quella di un’obbedienza cieca e irresponsabile dello schiavo, che si limita a fare materialmente ciò che gli viene ordinato senza capirne il senso e senza saperne il motivo. Invece la vera obbedienza è quella di chi ascolta, capisce, sa e assume responsabilmente il progetto dell’altro mettendosi in sintonia con esso, in piena libertà. Il Cristo che “si fa obbediente” rivela che obbedire è entrare nel bene di un comando che s’impone da sé, per cui la sottomissione alla volontà altrui diventa comunione con Lui. In quest’ottica l’obbedienza del credente, come sequela del Cristo, è possibilità di una vita libera e liberata nella comunione di destino con Lui.
Preziosa anche la rilettura offerta dalla prof. Elena Bosetti dell’Università Gregoriana, nella lectio divina condotta sul testo di 1Pt 1, 13-21, che ha messo in luce la figura del cristiano come “figlio dell’obbedienza”, reso tale attraverso l’azione dello Spirito. Si tratta, qui, sia dell’obbedienza di Gesù, quella compiuta nel suo mistero pasquale, come di quella che i cristiani esprimono nella loro vita accogliendo l’evangelo. Così l’obbedienza che accomuna tutti i battezzati è la vocazione alla santità che deve permeare tutto il comportamento, la condotta, lo stile di vita del credente.
Per ritrovare i tratti teologici e cristologici dell’obbedienza…
La riflessione biblica ha consentito di ritrovare nell’obbedienza una delle arcate portanti per comprendere la vocazione di Gesù e in lui di ogni cristiano. La relazione teologica del prof. Rino Fisichella, dell’Università Gregoriana, ha puntualizzato alcuni tratti della libertà e dell’obbedienza come forma peculiare della fede cristiana. La fede – ha ricordato il teologo romano in apertura – è ascolto della parola che conduce all’obbedienza della fede e la fede, a sua volta, non è altro che obbedienza di chi vuole porsi nell’ascolto della parola di Cristo. La libertà in questa prospettiva “è sempre un dono e si svolge come un cammino che si attua davanti alla decisione di dare un senso alla vita”. La libertà non è atto di conquista dell’uomo, ma come la verità, è a lui donata; è una dimensione che consente alla persona, a partire dalla sua interiorità, di aprirsi al compimento di sé nell’amore, espresso nella lettera ai Galati dal “frutto dello Spirito” (cfr. Gal 5, 22). Per il credente, l’espressione della propria fede, è partecipare alla libertà di Dio e trovare in essa gli spazi per una vita autenticamente libera. Così l’obbedienza deve essere compresa come un atto d’amore con cui ci si abbandona a Dio.
La missione di Cristo, che s’identifica con la sua fedeltà alla volontà del Padre, porta l’intelligenza credente a rileggere la stessa obbedienza come forma di vita trinitaria. Se per il Figlio l’accettazione di ogni cosa come proveniente dall’amore del Padre è la ragione della propria vita, così per il credente la propria vita di fede si comprende come vita obbediente. Sullo sfondo dell’inno cristologico della lettera ai Filippesi (Fil 2), l’obbedienza personale del credente è inserita nell’obbedienza di Cristo, non come passiva ripetizione, ma come atto di affidamento alla misericordia di Dio, nella confessione della propria povertà, superando così ogni orgogliosa esaltazione di sé. Alla luce della dimensione ecclesiale della fede, può essere precisata anche la tipicità ecclesiale dell’obbedienza intesa come servizio alla verità che precede ed accompagna la Chiesa in quella tensione escatologica che porrà fine alla sua ricerca. Verità che è adesione e testimonianza al Vangelo, abbandonandosi fiduciosamente alla forza della parola. In questa prospettiva l’obbedienza ecclesiale è la trasparenza che la sposa ha verso lo Sposo a cui nulla può nascondere perché la sua parola è spada che raggiunge ogni intimità, scrutando i sentimenti di tutti e i pensieri del cuore di ognuno.
La forte proposizione della comunione ecclesiale, in un tempo di marcati soggettivismi, diventa il segno visibile e concreto in cui il ministero e il carisma trovano il loro significato più genuino perché siano espressione sincera della sequela. Si tratta, infatti, di non dimenticare che “essere in Cristo” non significa in primo luogo una formula di unione mistica, ma un’espressione di natura ecclesiologica: è per ogni credente la verità del suo inserimento dinamico e non spersonalizzante nel Corpo di Cristo che è la Chiesa mediante il battesimo.
L’esistenza spirituale del credente come caratterizzata dall’obbedienza di Cristo è stata illustrata in modo ampio e convincente da Franco Giulio Brambilla della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale. La sua relazione ha inteso precisare dapprima come ogni vocazione nella Chiesa deve essere collocata all’interno della figura della fede, cioè dell’uomo “spirituale”, la cui esistenza consiste nel realizzare la propria vita come obbedienza “spirituale”. Ogni concretizzazione storico-ecclesiale della fede porta così il riferimento alla fede di Gesù, di cui ne è memoria. In particolare l’obbedienza spirituale cristiana è chiamata ad assumere i contorni della figura filiale di Cristo, cioè di una fede come quella di Gesù nella quale ritrova la sua verità. Si tratta di una identità che si riceve come dono e che impara come Gesù, dalle cose che riceve. È il testo di Eb 5, 7-9 (Cristo imparò l’obbedienza dalle cose che patì…) ad illustrare questa peculiarità dell’obbedienza cristiana. Si è troppo poco riflettuto – ha affermato Brambilla – sul fatto che l’obbedienza di Gesù ha un carattere “filiale”, è obbedienza alla volontà del “Padre”, non è affidamento ad un destino, alla figura di un Dio despota oscuro, ma è maturata nel terreno della preghiera filiale, della confidenza infinita e della fiducia irremovibile che il Dio dei padri è l’Abbà suo. È il percorso della generazione, della crescita e della maturazione di questa coscienza filiale del Cristo in cui è possibile rileggere anche per l’oggi una via adeguata alla comprensione personale dell’obbedienza. Ma a questo proposito si pone un’evidente difficoltà propria della cultura attuale che ha rimosso l’immagine della nascita, dell’originarsi ed ha voluto intendere la vita dell’uomo come “esistenza” cioè come une serie di gesti e progetti con cui l’uomo si pone e si dà un volto, staccandolo da uno sfondo anonimo e oscuro attraverso la sua opera creatrice e manipolatrice del mondo. L’esperienza della passività, dell’accoglienza su di sé di un’opera paziente e plasmatrice che si trova all’origine della vita di ciascuno è così l’humus antropologico da riformare in vista di una percezione piena dell’obbedienza come valore umano e nei suoi tratti più specificamente cristologici e cristiani. Su di essa, come successivo processo di consolidamento e verifica, vanno poste le esperienze di obbedienza a cui il credente deve corrispondere nella sua vita ecclesiale e nell’esercizio del discernimento e dello sviluppo della propria vocazione.
Per attuare la pedagogia dell’obbedienza
A Beppe Roggia, maestro dei novizi salesiani e docente di metodologia formativa presso l’Università Pontificia Salesiana, è stato affidato il compito di indicare alcune linee di educazione all’obbedienza cristiana. Una convinzione di fondo porta a motivare anche l’arduo cammino verso il valore dell’obbedienza: essa non è nient’altro che la gioia e l’impegno di continuare a dire di sì al Mistero non tenebroso, ma luminoso che avvolge la vita di ogni persona. In questa ricerca della pienezza di vita, intesa come avanzamento nel mistero di amore che avvolge ogni persona, allora, vocazione ed autorealizzazione possono essere intesi non come elementi che si elidono reciprocamente, ma come complementari. Pur ammettendo – ha ricordato Roggia – che l’angolare di riflessione e di osservazione è diverso (quello teologico per la vocazione, quello psico-pedagogico per l’autorealizzazione), occorre riconoscere in modo disarmato che all’origine vocazione ed autorealizzazione provengono dalla stessa sorgente. Infatti, chi è autore della vocazione se non Dio e cosa sogna Dio su una persona se non la sua piena realizzazione? Così non ci può essere vera vocazione se non c’è realizzazione della persona, né ci può essere piena realizzazione di una persona se non nella propria vocazione. La mediazione ecclesiale nell’esercizio dell’obbedienza, però deve sostanziarsi all’interno di una Chiesa comunità/comunione che è costituita soprattutto dalla reciproca obbedienza dei fratelli. Questo contesto invoca l’attenzione al fratello e alle necessità vicendevoli e il rispetto ed il riconoscimento dei doni del Signore presenti in ciascuno. Il lavoro formativo e vocazionale deve così partire dalla considerazione che formare alla libertà è formare all’obbedienza: la capacità di obbedire responsabilmente è direttamente proporzionale alla maturazione nella libertà personale. Questo implica un profondo cammino di conoscenza di sé, capacità di lettura di quanto è buono per la persona e un cammino di libertà nei rapporti tra le persone, in una reale e sempre più ampia accettazione dell’altro ispirata da sincera solidarietà. La pedagogia della personalizzazione e della gradualità impone al formatore, come nel formato, la pazienza dei tempi lunghi e l’imposizione delle sfide del quotidiano in cui si gioca la maturazione di ciascuno.
I temi lanciati dal Convegno non sono così facili tesi riassuntive o comodi prontuari, ma impongono un paziente lavoro di ricerca ulteriore per il quale il Centro Nazionale Vocazioni ha inteso offrire solo alcune coordinate fondamentali. Il Convegno nazionale di Roma è stato l’occasione per la presentazione di importanti novità avvenute in seno al CNV: il suo riconoscimento come organismo della Conferenza Episcopale Italiana e la nomina del nuovo Direttore nella persona di mons. Luca Bonari, che subentra a mons. Italo Castellani, dopo la sua nomina a Vescovo di Faenza, al quale è andato il ringraziamento sentito da parte dell’assemblea, e dei due Vice-direttori: don Lorenzo Ghizzoni e don Antonio Ladisa. Una nomina, è stato precisato dai responsabili del CNV, nel segno della continuità di quanto questo organismo ha svolto nel recente passato a favore della crescita della riflessione e dell’azione nell’ambito della pastorale vocazionale della Chiesa italiana[1].
Note
[1] L’articolo riprende ampiamente, pur con alcune integrazioni e precisazioni, il contributo già pubblicato in Settimana 2/1998, p. 3. L’Autore e l’Editore ringraziano il Direttore della rivista per aver acconsentito alla ripresa del presente testo.