Il CDV e il suo Direttore: quale sinergia è possibile con gli altri organismi pastorali?
Occorre innanzitutto dire che una prospettiva in tal senso si innesta sul tema più ampio e fondamentale di una Chiesa-comunione, così come ce l’ha presentato il Concilio Vaticano Il e come la nostra Chiesa italiana l’ha riproposto negli anni ‘80 e ora si sforza di viverlo, negli anni ‘90, sul versante della testimonianza della carità. E proprio i nostri vescovi affermano:
“La vita della nostra Chiesa è arricchita oggi, per dono del Signore, da molteplici realtà che operano con efficacia nel campo dell’evangelizzazione e della testimonianza della carità. Ogni sforzo resterebbe perciò vano se non convergesse nell’impegno di edificare insieme la Chiesa e di cooperare alla sua missione. La pastorale diocesana deve essere dunque organica e unitaria sotto la guida del Vescovo: di modo che tutte le iniziative e attività di carattere catechistico, missionario, sociale, familiare, scolastico e ogni altro lavoro mirante ai fini pastorali debbano tendere a un’azione concorde dalla quale sia resa ancora più palese l’unità della diocesi[1]. Ciò è possibile se tutto il popolo di Dio e in esso i vari soggetti ecclesiali si impegnano a crescere in uno spirito di comunione e a operare secondo comuni orientamenti, a servizio della Chiesa e della sua missione”[2].
Anche se questo riferimento è in particolare per i religiosi e le varie aggregazioni ecclesiali presenti nella nostra Chiesa, credo si possa dire anche dei diversi organismi pastorali che operano all’interno di essa.
Cosa chiede la Chiesa italiana ai vari organismi pastorali in merito alla collaborazione tra loro?
Ciò vuol dire che la diversità di contributo che ogni persona e ogni organismo ecclesiale è chiamato a dare non è mai al di fuori del contesto dell’unica missione e non può mai andare al di là di un cammino di comunione che richiede diversi e specifici contributi, ma nella linea della complementarità e per il raggiungimento del medesimo fine, all’insegna della carità. È ancora la CEI che dice:
“L’istanza della comunione va intesa sia come coordinamento dei diversi soggetti pastorali, dei molteplici doni, carismi e responsabilità presenti nella Chiesa; sia come stile nello sviluppare l’attività pastorale, nel proclamare e vivere il Vangelo della carità”[3].
Dunque, l’esigenza della comunione a livello pastorale è duplice:
– “coordinamento tra i diversi soggetti pastorali” (anche un organismo pastorale è “soggetto pastorale”): collaborazione allo stesso fine pastorale con forze, metodi e persone diverse nell’intento di contribuire complementariamente all’opera pastorale. Ciò vuol dire che, pur particolarmente impegnato e attento al proprio settore, ogni operatore e ogni organismo pastorale ha presente e si tiene in collegamento con tutti gli altri, in forma sistematica e non sporadica, e si lascia coinvolgere in un’attività che, pur non direttamente sua, può essere di completamento e di aiuto ad un altro settore. Come pure sa trattenersi da mettere in atto iniziative che, pur rispondenti immediatamente alle esigenze del settore pastorale specifico, al momento potrebbero nuocere al clima di comunione;
– “stile nello sviluppare l’attività pastorale”: il soggetto rimane la “comunione” che non può essere un fatto sporadico o che riguarda solo alcuni settori o ambiti della pastorale, ma è lo stile, il “colore” che deve assumere tutta l’attività pastorale, se vuole essere espressione autentica dell’azione della Chiesa-comunione, tesa ad educare e far crescere i suoi figli, oltre che svolgere la sua missione di annuncio e di testimonianza. Del resto che influenza potrebbe avere sul mondo una Chiesa che si presentasse frammentata o addirittura divisa nel proporre l’unico Vangelo? E che forza educativa potrebbe avere nei confronti degli stessi fedeli?
Gli stessi Vescovi italiani, verificando la ricezione nelle Chiese locali degli Orientamenti pastorali per gli anni ‘90, denunciano il pericolo di “una specie di sbilanciamento di interesse dalla evangelizzazione alla testimonianza della carità, una lettura ‘settorializzata’ che non sempre abbraccia l’intero campo della missione della Chiesa e del cristiano, una lettura ‘etica’ superficiale che porta a privilegiare l’interesse per le ‘opere’ della carità, lasciando in ombra il loro radicamento nella “virtù” della carità come dono dello Spirito”[4].
Naturalmente, la denuncia di un pericolo esprime il desiderio di scongiurarlo: occorre evitare qualsiasi “settorializzazione” che impedisca di aver presente sempre tutto il campo della missione della Chiesa, col rischio di cadere in un’operatività vuota, anche se apparentemente efficace e capace di venire incontro alle urgenze e alle emergenze del momento. Questo stile si instaura quando un organismo pastorale si sgancia dal contesto ecclesiale di condivisione delle motivazioni e di coordinamento di attività, per essere più celere e tempestivo negli interventi. È questo stile che, a lungo andare, non dà più la possibilità di percepire le motivazioni della ‘virtù’ della carità e fa perdere il contesto ecclesiale.
La collaborazione tra i vari organismi pastorali della diocesi dà la possibilità di ponderare, allargare la visuale, operare non solo per le emergenze o le urgenze e tiene viva una pastorale ordinaria, del “quotidiano”. Anche il Convegno ecclesiale di Palermo ha sottolineato l’urgenza e la necessità di una collaborazione, che sfocia nella reciprocità:
“La convinzione che la pienezza dei doni dello Spirito si trova solo nel l’insieme della Chiesa, deve indurci a valorizzare le diverse componenti nella loro specificità, facendole convergere verso l’unità. Dobbiamo alimentare una cultura della reciprocità e della partecipazione e attivare un’incessante comunicazione e collaborazione, per esprimere concretamente la comunione. Tutti siamo abbastanza poveri per dover ricevere; tutti siamo abbastanza ricchi per poter dare”[5].
Vengono qui evidenziati due aspetti particolari della collaborazione:
– la reciprocità: i confini tra i diversi organismi pastorali non sono e non possono essere rigidi. Nell’unica geografia pastorale, essi hanno il compito di tener vivi i colori della specificità, perché il paesaggio non si appiattisca. Perciò, come in un paesaggio non si distinguerebbe la montagna se non ci fosse la pianura e non ci sarebbe differenza tra i monti se non ci fossero le valli e varie altezze e forme, così la diversità di operazione pastorale tra i vari organismi emerge da un unico paesaggio pastorale, che non è piatto, ma ricco di varie altezze, profondità e diversità. Perché poi il paesaggio non si trasformi in tante isole diversamente ricche o povere, ma rimanga un paese ben compatto, occorre che ci sia uno scambio reciproco delle proprie ricchezze ed energie. Così nella pastorale: il buon funzionamento di un organismo non basta a determinare il decollo della pastorale se questo, per esempio, non sa ricevere gli stimoli e le sollecitazioni che gli vengono da altri settori per una più mirata azione, oppure non sa dare spazio o energie ad un altro settore che gliele richiede per completare il suo servizio;
– la partecipazione: anche gli organismi pastorali corrono il pericolo di favorire il nascere di “specialisti” di settore, che poi diventano i “galoppini” di turno, i quali si assumono “in toto” o quasi la fatica pastorale di un determinato settore. Ora, che ci siano specialisti è una cosa buona e necessaria, ma a loro compete, più che una egemonia, una passione educativa perché anche altri lavorino all’interno di un organismo pastorale e in comunione con esso, con passione e competenza, in modo da allargare il gruppo di coloro che vivono la missione della Chiesa in modo attivo.
Possiamo riassumere così, semplicemente elencandole, le caratteristiche che designano lo stile di comunione dei vari organismi ecclesiali: a fondamento la comunione e la carità per l’unica missione, in seguito convergenza nell’impegno di edificare la Chiesa, organicità e unitarietà, diversità di contributo, coordinamento, reciprocità, partecipazione.
Quale dialogo e collaborazione (sinergia) è possibile oggi nella diocesi?
Nella diocesi i luoghi privilegiati e specifici del dialogo e della collaborazione sono i Consigli presbiterale e pastorale diocesani. Qui il Vescovo trova il suo “senato” con cui consigliarsi circa il governo pastorale della sua Chiesa; qui nascono i piani e i programmi pastorali; da qui, dunque, vengono le indicazioni circa il lavoro pastorale per i diversi organismi e settori della pastorale stessa. È questo allora il luogo più appropriato per il dialogo e la collaborazione anche tra i diversi settori della pastorale: questi Consigli che, convocati dal Vescovo, hanno presente la fisionomia della diocesi, possono essere i luoghi più adatti per un indirizzo circa la collaborazione tra i diversi organismi pastorali, ma anche i luoghi dove arrivano le sollecitazioni dei responsabili dei diversi organismi pastorali (i quali devono partecipare, perché membri effettivi o invitati, a questi Consigli).
Tuttavia, il coordinamento degli organismi pastorali non potrà avvenire qui, ma piuttosto a livello degli incaricati del vescovo per la pastorale (delegati o vicari), che si assumono l’impegno di incontrare e far incontrare periodicamente i responsabili dei diversi settori della pastorale per verificare, correggere e programmare. Qui si stabiliscono le priorità, le iniziative da portare avanti insieme, quelle più specifiche di ogni settore, le attenzioni comuni; qui iniziano e si rassodano gli scambi anche personali tra i responsabili dei diversi organismi pastorali. Questo lavoro è più facile e forse normale nelle diocesi piccole, dove una persona può essere responsabile di più organismi pastorali attinenti; ma è pure necessario nelle diocesi grandi dove, diversamente, si rischia la settorializzazione e la moltiplicazione spropositata di iniziative pastorali che più che favorire minano la comunione e la partecipazione.
Questo coordinamento permette che ogni responsabile di un organismo pastorale conosca direttamente l’attività degli altri e sia messo in grado di evitare sovrapposizioni, ma, soprattutto, dimenticanza delle dimensioni necessarie a tutta la pastorale; oltre che una vera collaborazione in alcune attività che non possono essere solo di un settore o organismo, ma che richiedono vari contributi e attenzioni.
A mo’ di esempio, ecco alcune sollecitazioni dei nostri Vescovi:
“… mediante una costante e sistematica opera di coordinamento tra i vari ambiti e organismi pastorali, la Chiesa deve considerare i riflessi e le implicazioni familiari di ogni sua iniziativa o proposta e deve accogliere e valorizzare il contributo che, in virtù del sacramento del matrimonio, gli sposi e le famiglie sono in grado di offrire”[6].
“In diocesi è necessario costituire o potenziare l’ufficio pastorale per l’attività missionaria, raccordandolo opportunamente con gli altri uffici pastorali”[7].
“La ‘vocazione’ è dimensione essenziale e qualificante, che deve permeare tutta l’azione evangelizzatrice della Chiesa particolare, per cui la pastorale delle vocazioni non può e non deve essere un momento isolato o settoriale della pastorale globale”[8].
“O la pastorale giovanile crescendo genera la proposta vocazionale specifica o la pastorale vocazionale pone l’esigenza di una pastorale giovanile come cammino e come suo contesto idoneo”[9].
Contributi della pastorale vocazionale e dei CDV ad una pastorale sempre più organica e sistematica
“La ‘vocazione’ è dimensione essenziale e qualificante, che deve permeare tutta l’azione evangelizzatrice della Chiesa particolare, per cui la pastorale delle vocazioni non può e non deve essere un momento isolato o settoriale della pastorale globale”[10]. Questa affermazione, se presa seriamente, dà un tono nuovo e particolare a tutta la pastorale e deve avere una ricaduta nei diversi organismi e settori di pastorale. A questo proposito il documento finale del Congresso Europeo sulle vocazioni[11] ha delle espressioni forti:
“…dire vocazione significa dire dimensione costitutiva ed essenziale della stessa pastorale ordinaria, perché la pastorale è fin dagli inizi, per natura sua, orientata al discernimento vocazionale (…). L’autentica pastorale rende il credente vigilante, attento alle moltissime chiamate del Signore, pronto a captare la sua voce e a risponderGli (…). Ogni vocazione è ‘mattutina’, è la risposta di ciascun mattino a un appello nuovo ogni giorno. Per questo la pastorale sarà pervasa di attenzione vocazionale”[12].
Nella luce di tutto ciò, alla pastorale vocazionale è chiesto di essere vigile e sostenere quella che Giovanni Paolo II chiama la “cultura vocazionale”[13], contribuendo così a far emergere la dimensione vocazionale dall’interno degli stessi settori pastorali, sostenendo un’opera educativa che vada nella direzione di mettere gli educatori in condizione di riconoscere questa stessa dimensione.
Questo servizio richiede alla pastorale vocazionale alcune caratteristiche[14]:
– essere segno di una espressione stabile e coerente della maternità della Chiesa, aperta al piano inarrestabile di Dio, che sempre genera vita;
– essere sempre più attenta alla promozione di tutte le vocazioni;
– originata non dalla paura(dell’estinzione), ma dalla certezza del dono di Dio in ogni persona;
– proiettata non verso il reclutamento, ma verso il discernimento del progetto divino;
– animata dal desiderio di servire la persona;
– da un’animazione fatta di iniziative ed esperienze episodiche ad un’educazione vocazionale che s’ispiri alla sapienza d’un metodo collaudato d’accompagnamento, per poter dare un aiuto appropriato a chi è in ricerca;
– sostenere gli operatori pastorali nel passaggio da animatori a educatori alla fede e formatori di vocazioni;
– mettere le basi perché l’animazione vocazionale diventi sempre più azione corale, di tutta la comunità religiosa o parrocchiale, di tutto l’Istituto o di tutta la Diocesi, di ogni presbitero o consacrato/a o credente, e per tutte le vocazioni in ogni fase della vita.
Pensata e gestita così
“la pastorale vocazionale si pone come la categoria unificante della pastorale in genere, come la destinazione naturale d’ogni fatica, il punto d’approdo delle varie dimensioni, quasi una sorta di elemento di verifica della pastorale autentica (…). Di conseguenza la pastorale vocazionale è e deve essere in rapporto con tutte le altre dimensioni, ad esempio con quella familiare e culturale, liturgica e sacramentale, con la catechesi e il cammino di fede nel catecumenato; coi vari gruppi d’animazione e formazione cristiana e di movimenti (…). Soprattutto la pastorale vocazionale è la prospettiva unificante della pastorale giovanile (…). Naturalmente il discorso vale in doppio senso: è la pastorale in genere che deve confluire nell’animazione vocazionale per favorire l’opzione vocazionale; ma è la pastorale vocazionale che deve a sua volta restare aperta alle altre dimensioni, inserendosi e cercando sbocchi in quelle direzioni”[15].
Questo modo di rapportarsi della pastorale vocazionale con la pastorale in genere contribuisce a promuovere in quest’ultima maggior franchezza e più coraggio, l’aiuta ad essere più esplicita nell’andare al centro e al cuore del messaggio-proposta cristiana, ad essere più diretta alla persona, in una parola, ad essere più “pro-vocante”, ad arrivare a “trafiggere il cuore”[16].
In questo contesto il CDV[17] dovrà diventare sempre più luogo di riflessione e di comunione non solo per le diverse vocazioni, ma anche per gli operatori dei diversi organismi di pastorale. Quasi un luogo di ricerca, un laboratorio permanente, per trovare via via, all’interno della categoria della “vocazione”, i fondamenti stessi di tutta la pastorale, e fornire così gli strumenti adatti a leggere la dimensione vocazionale nei diversi settori pastorali e le indicazioni utili per autentici cammini educativi, in cui non sia assente la dimensione e l’annuncio vocazionale.
Sarà importante che il CDV, come suo compito specifico, ma pure come servizio agli altri settori, promuova percorsi formativi soprattutto inerentemente alla direzione spirituale e al discernimento vocazionale; e progetti itinerari vocazionali che siano la logica maturazione-continuazione di cammini di fede o di catechesi iniziati nell’ambito familiare, parrocchiale, oratoriano, caritativo o scolastico[18].
Il CDV dovrà, infine, porre molta attenzione e impegno all’elemento unificante per eccellenza e fondamentale per la pastorale vocazionale: la preghiera[19].
“Ma l’autentica preghiera vocazionale, giova ricordare, merita questo nome e diviene efficace solo quando crea coerenza di vita nell’orante stesso, anzitutto, e s’associa, nel resto della comunità credente, con l’annuncio esplicito e la catechesi adeguata, per favorire nei chiamati al sacerdozio e alla vita consacrata, come a qualsiasi altra vocazione cristiana, quella risposta libera, pronta e generosa, che rende operante la grazia della vocazione”[20].
Note
[1] Christus Dominus, n. 17.
[2] CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità. Orientamenti pastorali per gli anni ‘90, n. 29.
[3] CEI, Evangelizzare il sociale, Roma 1992, n. 70.
[4] CEI, Comunicato XXXV Assemblea Generale, 19.5.1992.
[5] CEI, Con il dono della carità dentro la storia, Roma 1996, n. 20.
[6] CEI, Direttorio di pastorale familiare per la Chiesa in Italia, Roma 1990, n. 22.
[7] CEI, Comunione e comunità, Roma 1986, n. 51.
[8] CEI, Vocazioni nella Chiesa italiana, Roma 1985, n. 26.
[9] Ibidem, n. 23.
[10] Ibidem, n. 26.
[11] Pontificia Opera per le Vocazioni Ecclesiastiche, Nuove vocazioni per una nuova Europa, 6 gennaio 1998.
[12] Ibidem, n. 26a
[13] GIOVANNI PAOLO II, Messaggio per la XXX Giornata mondiale per le vocazioni, 8 settembre 1992.
[14] Cfr. Pontificia Opera per le Vocazioni Ecclesiastiche, Nuove vocazioni per una nuova Europa, o.c. n.
[15] Ibidem, n. 26g
[16] Cfr. Ibidem, n. 26.
[17] Cfr. CEI, Vocazioni nella Chiesa italiana, o.c. n. 54.
[18] Cfr. Ibidem, nn. 30; 38; 40.
[19] Cfr. Ibidem, n. 27.
[20] Pontificia Opera per le Vocazioni Ecclesiastiche, Nuove vocazioni per una nuova Europa, n. 25; Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Vita Consecrata, Roma 1996, n. 64.