I luoghi-segno della vocazione e della educazione della fede perché la pastorale vocazionale non sia “utopica”
Il Documento “Nuove Vocazioni per una Nuova Europa” (NVNE), dopo essersi fermato a riflettere sulla “Teologia della vocazione” (Seconda parte) e sulla “Pastorale delle vocazioni” (Terza parte) e prima di affrontare il grande capitolo della “Pedagogia delle vocazioni” (Quarta parte), dedica il numero 29 ai luoghi in cui l’amore e l’attenzione della Chiesa per tutte le vocazioni possa realizzarsi, perché il tutto non finisca per essere estremamente “utopico”[1], nel senso etimologico della parola, cioè “senza luogo”.
L’esperienza ci insegna che non è sufficiente avere delle grandi intuizioni, generare dei progetti perfetti, possedere dei mezzi straordinari, se poi tutto questo non trova un “luogo” in cui “vivere”.
Il catechismo dei Giovani sottolinea l’importanza vitale di “fermarsi”:
Il ritmo della vita di oggi ci ha insinuato l’idea che tutto si giochi in decisioni immediate, azioni rapide: tutto subito. Non è così per lo sviluppo di abilità agonistiche e sportive, non così per l’apprendimento di un’arte, per la formazione del carattere, per l’esperienza dell’amore. Anche le più belle esperienze di servizio o di volontariato non sono il diario di qualche sporadica buona azione, ma un’esperienza consolidata di vita, di ascolto, di dono, di sentirsi a disposizione delle urgenze dell’altro. Chi decide di offrire la propria vita a Dio nella verginità o nel matrimonio, vive un lento, gioioso, tirocinio di amore, in cui impara a stabilire con l’altro o l’altra una reciprocità costruttiva. Una novità di vita non si improvvisa; il dono di sé esige di sapersi fermare, prendere in mano la vita, abbandonare la pigrizia delle conformità, ritrovare se stessi, permettere a una nuova presenza di dispiegarsi e di trasformarci[2].
Lo stesso Vangelo[3] ci ricorda che non basta avere qualcuno che indichi Cristo e solleciti a mettersi sui suoi passi facendo germogliare nel cuore il desiderio di seguirlo, perché prima o poi arriva il momento in cui si sente il bisogno di chiedere “dove abiti?”: la ricerca deve necessariamente approdare ad un luogo in cui si possa fare esperienza di vita. E il Papa nella recente esortazione post-sinodale “Vita Consecrata” così commenta: “l’invito di Gesù “Venite e vedrete” rimane ancora oggi la regola d’oro della pastorale vocazionale “[4].
Cerchiamo, allora di valorizzare questa “regola d’oro”, individuando “quegli ambienti vitali” che possono aiutare le vocazioni a raggiungere la loro piena maturazione.
Luoghi fondamentali: la parrocchia e la famiglia
Sottolineando l’importanza della Parrocchia nella pastorale vocazionale, il Documento NVNE ha voluto riaffermare con forza la convinzione che la vocazione non è un problema esclusivamente personale del giovane, che va risolto nell’intimo della sua coscienza, né tanto meno del Seminario o dell’istituto, ma è una realtà che interessa la vita stessa della Chiesa e, pertanto, la coinvolge direttamente nei suoi momenti vitali e nelle sue diverse componenti. Dobbiamo, però, constatare che, nonostante le autorevoli affermazioni del Magistero[5], la vocazione dei singoli battezzati non sembra essere ancora al centro dell’attenzione e della preoccupazione della comunità parrocchiale.
Sì, ma quale parrocchia?
Come la parrocchia può diventare luogo favorevole in cui “i germi di vocazione che il Signore semina a piene mani nel campo della Chiesa”[6] possano attecchire e fruttificare?
La preghiera
Innanzi tutto con la preghiera. Non solo per rispondere così ad un esplicito invito del Signore[7], ma anche per non dimenticare mai che le vocazioni sono un dono di Dio e che la comunità non può che invocarle dal Signore con la preghiera. La preghiera per le vocazioni aiuterà la comunità ad essere grata per i doni ricevuti e ad accogliere con stupore e riconoscenza quelli che il Signore vorrà ancora donare.
Veri cammini vocazionali
Ma se la preghiera per le vocazioni sembra non essere assente dalla vita delle nostre comunità, l’obiettivo su cui oggi bisognerebbe puntare decisamente è quello di passare dalle iniziative slegate e sporadiche a cammini veri e propri di educazione dei giovani alla fede, ricchi della dimensione vocazionale. Questo non significa dover moltiplicare necessariamente le iniziative, ma valorizzare quegli itinerari che sono già presenti nella vita delle nostre comunità: dall’anno liturgico (vissuto dalla comunità come itinerario di fede ricco di provocazioni vocazionali che hanno però bisogno di essere evidenziate e proposte), ai cammini di catechesi (dove è necessario far risuonare con forza l’annuncio e la proposta vocazionale per non rischiare di fare del Vangelo “un’ipotesi innocua di lavoro”[8]) ed ad esperienze di servizio gratuito dei fratelli[9].
Ma non va dimenticato quanto ha affermato il Concilio Vaticano II: “Il dovere di dare incremento alle vocazioni spetta a tutta la comunità cristiana, che è tenuta ad assolvere questo compito anzitutto con una vita perfettamente cristiana”[10]. A questo proposito credo sia importante chiedersi se la vita delle nostra comunità è tale da favorire il sorgere e la crescita di nuove vocazioni.
Autentiche comunità cristiane
Come potranno generare vocazioni quelle comunità che non valorizzano i doni di tutti, ma si affidano all’impegno di pochi “fedelissimi”? O quelle dove le vocazioni non sono accolte, stimate e valorizzate per il bene di tutti? E lì dove l’iperattivismo soffoca ogni spazio di incontro e di dialogo con il Signore, come i giovani sapranno riconoscere nelle tante voci che affollano la loro vita quella del Signore che li chiama? E dove si è talmente impantanati nelle scaramucce interne come si educherà ad essere sensibili alle provocazioni che provengono dal territorio e dai fratelli più bisognosi? Non dimentichiamo che “la vita genera la vita. Con quale coerenza potremmo pregare per le vocazioni, se la preghiera non è affettivamente accompagnata da una sincera ricerca di conversione?”[11].
Inoltre, perché le nostre parrocchie diventino “luoghi” vocazionali è necessario fare un ulteriore “salto di qualità”: non esaurire tutto il tempo e le energie a nostra disposizione per seguire i gruppi, ma riservare degli spazi per gli incontri personali. Oggi non sono solo i giovani che si nascondono “nel branco”, ma anche le nostre comunità, preoccupate come sono di voler seguire e di concentrare la loro attenzione sui gruppi, rischiano di non essere capaci di raggiungere le singole persone.
La direzione spirituale
Per questo è indispensabile recuperare il dialogo personale tra educatori e giovani e il servizio della direzione spirituale che in passato hanno contribuito molto a condurre i giovani a Cristo ed ad aiutarli a scoprire la propria vocazione e a renderli capaci di offrire il proprio contributo alla missione della Chiesa nel mondo. Già il Concilio Vaticano II metteva in guardia da un grave pericolo quando affermava “di ben poca utilità saranno le cerimonie più belle e i gruppi più fiorenti se non mirano alla maturità di fede”[12]. È, pertanto, indispensabile oggi passare dall’aggregazione alla formazione. E per raggiungere questo obiettivo sarà di grande aiuto una Pastorale Giovanile che punti “su proposte essenziali, forti e coinvolgenti, che non chiudano i giovani in prospettive di compromesso e nei loro mondi esclusivi, ma li aprano alla più vasta comunità della Chiesa, della società e della mondialità”[13]. L’esperienza dei movimenti e delle associazioni ci dice che lì dove ci si impegna per la formazione non mancano battezzati maturi nella fede capaci di scelte vocazionali definitive.
Infine, i sacerdoti impegnati nelle parrocchie non devono dimenticare di essere i “coltivatori diretti” di tutte le vocazioni[14], servendole gratuitamente, senza aver paura di privarsi di qualche giovane impegnato pur di aiutarlo a realizzare la propria vocazione.
Sì, ma quale famiglia?
Se, come afferma la Familiaris Consortio, “l’amore è la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano”[15], questa vocazione va educata e testimoniata sin dall’inizio. Ecco aprirsi per la famiglia un grande e insostituibile compito: essere il luogo in cui imparare ad amare attraverso dei veri e propri cammini educativi.
Educare al rispetto della persona
Il bambino crescendo deve essere aiutato, anche attraverso la testimonianza dei genitori, a non selezionale le persone, ma a riservare la stessa attenzione e lo stesso amore verso tutti: ai nonni, agli zii, alle persone che vivono nello stesso palazzo…;
Educare alla gratuità
In una società il cui stile d’agire sembra essere racchiuso nella frase “nulla si fa per nulla” che tante volte troviamo sulle labbra della gente, diventa estremamente necessario aiutare a scoprire e a fare esperienza della gratuità, di un amore, cioè, capace del “dono sincero di sé”[16]. In questo modo si farà comprendere che “amare significa dare e ricevere quanto non si può né comprare né vendere, ma solo liberamente elargire”[17];
Educare all’amore fedele e libero
In famiglia si deve poter far esperienza che l’amore quando è autentico conduce le persone all’unità, alla comunicazione piena, ad amarsi sempre di più e non diventare schiave di nulla. Il bambino crescendo deve poter constatare che l’amore del papà per la mamma vale di più di un’ora di straordinario; che il dialogo fra papà e mamma vale di più che fare le pulizie o guardare la televisione…;
Educare al servizio
È importante se non vogliamo avere degli adulti egoisti educare i bambini, i ragazzi e i giovani a tradurre l’amore in gesti concreti di servizio sia nei confronti dei propri familiari che nei confronti degli estranei, soprattutto dei più bisognosi;
Educare alla fede
I genitori devono sentire la responsabilità di essere i primi educatori dei figli alla fede sostenendoli nell’ascolto e nella comprensione della Parola, accompagnandoli nella preghiera filiale ed introducendoli nella vita della comunità ecclesiale.
In tutto questo la famiglia non può essere lasciata sola, ma dovrà sentire l’affetto, l’attenzione e il sostegno di tutta la comunità ecclesiale. Solo così una “famiglia che è aperta ai valori trascendenti, che serve i fratelli nella gioia, che adempie con generosa fedeltà i suoi compiti ed è consapevole della sua quotidiana partecipazione al mistero della Croce gloriosa di Cristo, diventa il primo e il migliore seminario della vocazione alla vita di consacrazione al Regno di Dio”[18]
I Luoghi – “Segno”
Vi è un fenomeno che si sta diffondendo sempre più nel mondo giovanile; un numero crescente di giovani sono in “ricerca vocazionale” permanente, perché incapaci di prendere decisioni definitive. Vivono una specie di “zapping” vocazionale entrando ed uscendo dai più svariati gruppi vocazionali, ma non fermandosi mai in nessun luogo. Non possiamo che condividere le riflessioni del Catechismo dei Giovani: “Senza decisione la vita si svela come un vagabondaggio spirituale, dove l’assommarsi delle esperienze non insegna nulla e non conduce da nessuna parte. La decisione di fede, invece, sviluppa quella fiducia che abbiamo incontrato nei discepoli, fino a renderla terreno fertile per l’incontro impegnativo e risolutivo con Gesù”[19].
Per questo, giustamente, il Documento NVNE richiama l’attenzione sui luoghi “segno”: seminari, conventi o istituti, comunità… Ma perché un segno parli è necessario conoscerlo. Ecco, allora, schiudersi davanti a noi un primo cammino indispensabile: passare dall’ignoranza alla conoscenza. Il seminario, i conventi, gli istituti presenti in diocesi sono conosciuti dalle comunità e soprattutto dai giovani? Che cosa si sa della loro storia, della loro vita? Si accompagnano i giovani a visitare questi luoghi di vita vocazionale?
La conoscenza spalanca un ulteriore cammino: passare dall’utilizzo alla valorizzazione. A volte con i giovani ci si reca nei seminari, nei conventi o negli istituti, ma solo perché non si hanno altri luoghi dove fare qualche incontro o qualche ritiro spirituale. E si utilizzano questi luoghi senza che però incidano minimamente nella vita dei giovani. Quanto beneficio ne trarrebbero i giovani se li aiutassimo a conoscere questi luoghi e a lasciarsi interpellare da essi. “In un contesto culturale fortemente curvo sulle cose penultime e immediate, attraversato dal vento gelido dell’individualismo, le comunità oranti ed apostoliche aprono a dimensione vere di vita autenticamente cristiana, soprattutto per le ultime generazioni chiaramente più attente ai segni che alle parole”[20].
Un ultimo cammino credo sia opportuno intravedere: passare dai luoghi alle persone. Come sarebbero “provocanti” questi luoghi se non ci limitassimo solo, come si è soliti fare, ad utilizzare le strutture, trascurando le persone che vi abitano. Sarebbe sufficiente, quando si va in questi luoghi, chiedere ad un seminarista o ad una monaca o ad una religiosa di offrire una piccola testimonianza vocazionale, parlando un po’ della propria esperienza e della propria vocazione. Non dimentichiamo che la vocazione si trasmette, in un certo senso, quasi per contagio. Molto più incisivo di tante catechesi o incontri vocazionali è il dialogo dei giovani con i testimoni vocazionali.
Se nei nostri cammini di fede riuscissimo a far parlare questi luoghi, ricorderemmo ai giovani che “ogni decisione richiede di fermarsi, perché niente si raggiunge subito… Dimorare è l’esperienza di un amore che dà nome alla ricerca, alla scoperta e conduce a piccoli passi verso la maturazione della fede”[21]. Questi luoghi potrebbero, allora diventare sempre di più dei potenti segnali di “stop” per tanti giovani abituati a viaggiare nella vita a velocità supersonica e a voler raggiungere subito e senza eccessivi sforzi determinati obiettivi. E di tutto questo oggi si avverte un enorme bisogno.
Conclusione
Se riusciamo ad accogliere e ad attuare questi suggerimenti presenti nel numero 29 del Documento NVNE, la pastorale vocazionale uscirà “dalla cerchia degli addetti al lavoro per raggiungere i solchi periferici della Chiesa particolare… là dove la gente vive e dove i giovani in particolare sono coinvolti più o meno significativamente in un’esperienza di fede”[22].
Note
[1] “Utopia” = progetto promosso da buona intenzione, ma che non può aver luogo, che non si trova in alcun luogo, cioè, inattuabile” (da Vocabolario etimologico della lingua italiana di O. Pianigiani, ed. Polaris 1991).
[2] CdG/2, p. 23.
[3] Gv 1, 35-39.
[4] Vita Consecrata, 64.
[5] “La pastorale vocazionale esige, oggi soprattutto, di essere assunta con un nuovo, vigoroso e più deciso impegno da parte di tutti i fedeli, nella consapevolezza che essa non è un elemento secondario o accessorio, né un momento isolato o settoriale, quasi una semplice parte, per quanto rilevante, della pastorale globale della Chiesa: è piuttosto un’attività intimamente inserita nella pastorale generale di ogni Chiesa, una cura che deve essere integrata e pienamente identificata con la “cura delle anime” cosiddetta ordinaria, una dimensione connaturale ed essenziale della pastorale della Chiesa, ossia della sua vita e della sua missione” (PdV, 34).
[6] Dalla Colletta della Messa per le Vocazioni Sacerdotali.
[7] “La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!” (MI 9, 37-38).
[8] NVNE, 26.
[9] Su questo aspetto si è soffermato in modo più approfondito l’articolo precedente di S.Pinato: Dinamismo vocazionale della vita ordinaria della comunità cristiana.
[10] OT, 2.
[11] Messaggio perla GMPV del 1982, 4.
[12] Presbyterorum Ordinis, 6.
[13] Evangelizzazione e Testimonianza della Carità, 45.
[14] NVNE, 29.
[15] Familiaris Consortio, 11.
[16] Gaudium et Spes, 24.
[17] Lettera alle famiglie di Giovanni Paolo Il, 11.
[18] Familiaris Consortio, 53.
[19] CdG/2, p. 32.
[20] NVNE, 29.
[21] CdG/2, p. 36.
[22] Ivi.