Le dimensioni teologiche fondamentali della vocazione
Un capitolo intero, e di tale ampiezza, non era mai stato dedicato alla “teologia della vocazione” da alcun documento magisteriale. Data la ricchezza dei riferimenti e il gran numero di spunti e riflessioni che i numeri 14-23 del documento contengono, mi limito in queste poche pagine ad offrirne semplicemente una chiave di lettura, che (spero) possa favorire un approccio diretto.
Esistono – semplificando – tre dimensioni teologiche fondamentali della vocazione: la chiamata alla vita (o dimensione antropologica), la chiamata alla Chiesa (o dimensione battesimale/ecclesiale) e la chiamata ad un ruolo nella Chiesa (o dimensione personale/esistenziale). Il rapporto tra queste dimensioni si può visualizzare in tre cerchi concentrici: non si comprende la propria vocazione nella Chiesa se non si comprende che far parte della Chiesa è una vocazione; e, rispettivamente, non si vive l’appartenenza alla Chiesa come vocazione se non si sperimenta la vita come vocazione.
Alla base di tutte e tre le dimensioni vi è l’azione trinitaria: il Padre, il Figlio e lo Spirito chiamano l’uomo alla vita, lo radunano nella Chiesa, lo attrezzano di doni e gli assegnano un compito corrispondente. “Ogni vocazione reca in sé i tratti caratteristici delle tre Persone, della comunione trinitaria. Le persone divine sono sorgente e modello d’ogni chiamata” (n. 15).
La chiamata alla vita
La visione della vita come vocazione presuppone una precisa concezione del rapporto tra Dio e l’uomo: concezione che esclude le due idee contrapposte della vita come destino (idea tipicamente orientale) e della vita come caso idea tipicamente occidentale). Non si può parlare della via come vocazione se non si prendono le distanze da queste due concezioni della vita, che si sono purtroppo sempre più diffuse anche in Italia e che – nonostante siano accolte anche da cristiani – sono decisamente antivocazionali.
L’idea della vita come destino nasce da una religiosità di tipo “cosmico” che plasma l’Oriente antico e moderno. Induismo, buddhismo ed altre grandi concezioni orientali della vita e del divino ne sono segnate e, nell’antichità, la religiosità greca, etrusca e romana hanno respirato questo clima. Ma questa idea oggi sta entrando decisamente anche in Occidente per la diffusione di gruppi e sette che si ispirano -più o meno liberamente a religioni orientali. La vita dell’uomo, in questa visione, viene considerata come un elemento del grande ingranaggio del cosmo: la libertà non esiste o comunque non ha rilevanza, perché tutto è scritto da sempre. Tutto si ripete e il mondo è una grande ruota che gira che gira.
Quest’ idea cosmica è in contrasto con l’impostazione biblica, che è invece prevalentemente storica. La Bibbia infatti vede nella storia il luogo principale della Rivelazione divina: è proprio il succedersi degli interventi di Dio che crea nel popolo ebraico (e poi in quello cristiano) la coscienza di essere chiamato (vocazione-elezione) ad un cammino verso una meta (finalità) che non è obbligata o garantita, ma da raggiungere e conquistare liberamente (responsabilità). “La categoria biblico-teologica più comprensiva e più aderente per esprimere il mistero della vita, alla luce di Cristo, è quella di ‘vocazione’” (n. 15).
L’altra concezione, contrapposta alla precedente ma ugualmente diffusa, è quella della vita come caso. Possiamo trascurare gli agganci, che pure esistono, alla filosofia greca e romana, perché l’idea che attualmente molti hanno della vita come caso è piuttosto influenzata dall’ateismo occidentale, intriso specialmente di positivismo-scientismo. Per molti, così, è un caso che siamo al mondo, un caso che ci capitino certe cose e non altre, un caso che un giorno moriremo… Buona parte della filosofia e della letteratura del Novecento, di stampo esistenzialista, si muove dentro alla visione “casuale” dell’avventura umana: l’uomo è senza direzione, senza un centro attorno a cui costruire la vita. Il motivo conduttore è l’impossibilità di raggiungere un “senso” come condizione esistenziale fondamentale, per cui occorre accontentarsi di vivere nella solitudine, nell’angoscia, nella nausea, nella noia, ecc.
Di qui la ricerca di soluzioni che, saltando la fatica di rispondere alle grandi domande esistenziali, si fermano all’immediato: non va dimenticato “che nella cultura della distrazione, in cui si trovano imbarcati soprattutto i giovani di questo tempo, le domande fondamentali corrono il rischio di essere soffocate, o di essere rimosse. Il senso della vita, oggi, più che cercato viene imposto: o da ciò che si vive nell’immediato o da ciò che gratifica i bisogni, soddisfatti i quali la coscienza diventa sempre più ottusa e gli interrogativi più veri restano elusi” (n. 14). È evidente anche in questa concezione la contrapposizione con la prospettiva biblica della vocazione: “in questa prospettiva della chiamata alla vita una cosa è da escludersi: che l’uomo possa considerare l’esistere come una cosa ovvia, dovuta, casuale” (n. 16).
Intendere la vita non come destino cieco né come caso ma come vocazione, significa accettare di darle un senso. Il destino cancella il senso, perché elimina la libertà dell’uomo; il caso lo cancella, da parte sua, perché elimina il progetto di Dio; la vocazione invece, mantenendo insieme libertà umana e progettualità divina, ammette che la vita ha direzione, senso, ragion d’essere. “La vita di ciascuno, in ogni caso e prima di qualsiasi scelta, è amore ricevuto” (n. 16): la consapevolezza di essere dentro ad un progetto di amore è ciò che può dare unicamente significato all’esistenza; mentre la convinzione di essere una rotella di un immenso e mostruoso ingranaggio (destino cieco) o di essere una particella inutile di materia sospesa in un angolo dell’universo (caso) è già ammissione di non-senso e fallimento. Accogliere, predicare ed elaborare teologicamente la dimensione vocazionale della vita non è altro che contemplare il mistero dell’amore che precede l’uomo e che è Dio stesso; proclamare che “l’amore è il senso pieno della vita” (n. 16) in un mondo che spesso non cerca più un senso; ripetere che “grazie a quell’amore che l’ha creato nessuno può sentirsi “superfluo”, poiché è chiamato a rispondere secondo un progetto da Dio pensato apposta per lui” (n. 16)… sono i compiti che ogni cristiano ha davanti per creare una cultura vocazionale.
La chiamata alla Chiesa
Solo dentro alla consapevolezza della vita come vocazione (dall’amore e all’amore) si può guadagnare anche quella dell’appartenenza a Cristo e alla Chiesa come vocazione. La Chiesa è comunità di chiamati: uno slogan che si ripete continuamente ma di cui, forse, non si coglie abbastanza la portata. L’appartenenza alla Chiesa, infatti, viene talvolta vissuta analogamente all’appartenenza ad un club: libero accordo dei soci, fine comune, energie (tempo, denaro, ecc…) convergenti. Soprattutto quando il senso del “gruppo” (pure essenziale, soprattutto nell’età dell’adolescenza e della prima giovinezza) è molto forte, rischia di essere sottovalutata l’idea che l’adesione alla Chiesa è solo una “risposta” alla chiamata di Dio.
“Non esiste un brano del Vangelo, o un incontro, o un dialogo, che non abbia un significato vocazionale” (n. 17). Se questo è vero, è vero anche però che vi sono alcuni passi nei quali è più facile trovare elementi per un discorso vocazionale ecclesiale. Uno di questi è la chiamata dei primi quattro discepoli narrata in Mt 4,18-22 (par.: Mc 1, 16-20). Cogliamo solo brevi spunti.
La chiamata di Gesù avviene nel “quotidiano”
Vide Simone e Andrea mentre “gettavano la rete in mare”; vide Giacomo e Giovanni mentre “riassettavano le reti”. La Chiesa non nasce come una setta “spiritualista”; Gesù non porta questi quattro discepoli fuori dal mondo, in una situazione di distacco dal quotidiano, perché, fatta una profonda esperienza spirituale, fossero in grado di rispondere alla sua chiamata. Il Signore non ha bisogno di creare uno “spazio sacro” per chiamare a far parte della Chiesa. Lungo i secoli la Chiesa ha sempre avversato lo “spiritualismo” (non la spiritualità!) disincarnato di chi punta nell’esperienza ecclesiale, sulle sensazioni esoteriche, sul disimpegno dal quotidiano, sulla fuga dalla realtà. È un primo elemento da tenere ben presente anche nella catechesi: appartenere alla Chiesa non è entrare in uno spazio privilegiato dove si dimentica il quotidiano, bensì partire dal quotidiano per stare con il Signore.
La chiamata di Gesù si cala nelle più diverse situazioni
La situazione dei primi quattro è quella di “pescatori”. La situazione di Levi è, addirittura, quella di probabile “peccatore” (come risulta poco dopo, in 9,9). La Chiesa non nasce come una setta di “puri”. Gesù raccoglie coloro che trova, così come sono. Se avesse voluto una Chiesa di “perfetti”, probabilmente si sarebbe recato al Tempio o in qualche Sinagoga, dove avrebbe raccolto il fior fiore della cultura e della santità giudaica… In riva al lago o lungo la strada si accontenta di ciò che trova. Anche contro l’idea di una Chiesa riservata ai “puri” la stessa Chiesa ha dovuto combattere più volte (soprattutto con il donatismo nel IV secolo e con il catarismo nel XII). Un’idea che, tra l’altro, è alla base di molte comode pretese di “impeccabilità” nei confronti degli uomini di Chiesa da parte di chi non si riconosce in essa.
La chiamata di Gesù è per una pienezza di vita
“Vi farò pescatori di uomini”. Non dice qui “pastori” o “apostoli”; dice: “pescatori”. Non nega, cioè, la loro “umanità” per ricrearla dal nulla: si inserisce, invece, in essa, la valorizza, la purifica e la eleva. La chiamata alla Chiesa non è negazione dell’umano bensì valorizzazione, purificazione ed elevazione dell’umano. È questo un punto molto delicato, oggi che sulle orme di Nietzsche si tende a vedere nella Chiesa il “nemico” di tutto ciò che è autenticamente umano, vitale. Una teologia della vocazione battesimale-ecclesiale deve incaricarsi di evidenziare la bellezza di appartenere alla Chiesa ed aiutare a capire che il Vangelo non nega ciò che è autenticamente umano (l’amicizia, l’amore, il lavoro, ecc.) bensì, purificatolo, lo esalta in tutte le sue potenzialità.
La comunità ecclesiale ha una struttura profondamente vocazionale” (n. 19): non è dunque un club, bensì un popolo che, con tanti difetti e ritardi, segue il Signore nel cammino della croce, della gioia e della vita piena. Ma il volto umano e fallibile della Chiesa per molti rappresenta un ostacolo alla lettura dell’essere profondo – santo e divino – della Chiesa: perciò, anche nei fedeli meglio intenzionati, spesso il punto d’arrivo dell’adesione alla Chiesa è il senso di appartenenza ad una “società” e non il senso di risposta ad una vocazione.
Accanto a questa fondamentale difficoltà che incontra l’annuncio della Chiesa come “comunità di chiamati”, se ne aggiunge oggi un’altra più specifica, che si può riassumere nell’idea diffusa secondo la quale è sufficiente parlare della vita come vocazione e della comune vocazione battesimale, senza accennare alle possibili vocazioni specifiche. È un’idea radicata anche in educatori cristiani e in presbiteri: in termini pastorali essa implica la ben nota e dannosa esclusione della pastorale vocazionale ordinaria. Ma con ciò siamo già entrati nella terza dimensione di una teologia della vocazione.
La chiamata ad un ruolo nella Chiesa
“Nella Chiesa, comunità di doni per l’unica missione, si realizza quel passaggio dalla condizione in cui si trova il credente inserito in Cristo attraverso il battesimo, alla sua vocazione ‘particolare’ come risposta al dono specifico dello Spirito. In tale comunità ogni vocazione è ‘particolare’ e specifica in un progetto di vita: non esistono vocazioni generiche” (n. 19).
Se l’esperienza cristiana consistesse nell’adesione ad una idea che guida un gruppo di persone, allora questa terza dimensione della vocazione sarebbe accessoria: basterebbe infatti entrare nel gruppo (in questo caso: attraverso il battesimo) e condividere gli obiettivi degli altri. Ma se invece l’esperienza cristiana consiste nell’adesione alla Persona di Cristo, risorto e vivente qui ed oggi, come a Colui che dà senso pieno alla propria storia e chiede di essere annunciato, allora non basta condividere idee e momenti di gruppo: è necessario che l’esperienza sia “personalizzata”. È la dimensione personale-esistenziale della vocazione, culmine e necessario termine delle altre due dimensioni: le quali, altrimenti, rimangono sospese a mezz’aria e non raggiungono il loro obiettivo ultimo che è quello di arrivare al cuore della singola persona.
Se la vocazione non arriva alla scelta “per me”, è qualcosa di astratto: se la dimensione antropologica e quella ecclesiale non si concretizzano esistenzialmente, non si arriva a vivere fino in fondo il disegno salvifico di Dio, perché non giunge alla singola persona. Non si vivono interamente la vocazione alla vita e la vocazione alla Chiesa se esse non vengono declinate nelle singole storie personali. L’esperienza cristiana di S. Paolo è paradigmatica: egli contempla continuamente il “mistero” (cioè il piano) di Dio per l’umanità (nella creazione, nell’antico popolo, in Cristo, nella Chiesa): ma solo quando lo sperimenta per “sé” vive un coinvolgimento totale: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita che vivo nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Paolo è stupito dal fatto che il mistero di Dio si riproduce in lui, singolarmente preso, come persona. Il progetto di Dio alla prima persona singolare è la dimensione esistenziale della vocazione.
Perciò la vocazione si concretizza quando una persona, leggendo nella Chiesa i segni che il Signore manda nella propria storia personale, risponde alla chiamata di Dio in Cristo aderendo ad una progetto di vita definitivo e stabile a cui corrisponde una missione nella Chiesa e nella società.
Su queste basi teologiche si innesta una pastorale che favorisce l’incontro personale (soprattutto la direzione spirituale) e moltiplica i momenti di catechesi sulle diverse vocazioni (senza paura di proporre esplicitamente anche quelle al ministero ordinato e alla vita consacrata).