La professione come vocazione
Il catechismo dei giovani Venite e vedrete (=CDG/2) si propone di accompagnare l’itinerario di fede in un momento particolare dell’esistenza in cui la proposta evangelica del discepolato cristiano si trova a confrontarsi con alcune sfide impegnative che toccano aspetti fondamentali dell’esistenza ed in cui la stessa consistenza della scelta di fede è chiamata a sedimentarsi in uno stabile progetto di vita. Tra queste sfide viene segnalata anche la scelta professionale e l’inserimento nel mondo del lavoro, oggetto di questo contributo che si prefigge di rileggere le pagine dedicate dal CDG/2 e di verificare la consistenza dell’ipotesi, fatta propria dal testo, dell’assioma: la “professione come vocazione”. In una prima fase analizzeremo direttamente il testo, mentre successivamente ci impegneremo ad una più precisa delimitazione della problematica in questione[1].
Lavoro e professione tra missione e vocazione
Una prima attestazione della figura dell’esercizio professionale come espressione di una decisionalità implicata nella vita è al capitolo 7 del CDG/ 2. Nella proposta dell’esistere cristiano come “vita nello Spirito” trova spazio nel testo la problematica della progettazione della professione, secondo una strategica disposizione di sé, ma anche nell’ascolto cosciente della voce dello Spirito, ispirata dalla concretezza della vita. Possibilità e limiti, l’orizzonte aperto della libertà e lo spazio ritagliato e limitante della necessità, la disposizione buona di sé nella vita attraverso l’accoglienza e l’esercizio delle virtù teologali che strutturano la personalità credente, sono implicati nelle decisioni della persona e in quest’ottica viene precisato il tema della professionalità nel CDG/2. L’inserzione, forse un po’ forzosa e non immediatamente preparata nella logica discorsiva, è nella sezione 7.4 “Camminare nello Spirito” che si propone la costruzione di una spiritualità giovanile in cui sono accostati la preghiera, la direzione spirituale, i consigli evangelici, la vita comunitaria, l’esperienza delle opere dell’amore e del servizio.
Questa prima referenza certamente assolve il compito di superare una visione di “spiritualità cristiana” ricondotta nello spazio privatistico ed intimistico dell’interiorità e riconosce francamente come la vita, nella globalità e nella concretezza delle risposte che attende dalla persona, è già luogo di scoperta e di esercizio di un’attitudine spirituale, per evitare la frammentazione e lo svuotamento di senso circa un progetto integrale di vita. L’esercizio lavorativo, secondo il testo conciliare (GS 34) richiamato nel paragrafo, “deve essere vissuto come missione, va cioè compreso dentro l’orizzonte della fede”. La frase annuncia ed apre un capitolo importante della riflessione teologica, consacrato dallo stesso magistero ecclesiale nella forma della Dottrina Sociale della Chiesa, ma non lo prosegue ulteriormente. L’affermazione non domanda semplicemente la legittimità di una posizione, ma un impegno per darne corpo, non solo attraverso la via della riflessione teologica – per cui non è univoco il suo riconoscimento, o meglio la proclamazione di una sua pacifica assolutezza aproblematica, come vedremo – ma anche nella stessa catechesi opponendo ad essa, e alla sua neutralità, la percezione che i giovani hanno di sé davanti alla “missione” lavorativa.
In quest’ottica l’apertura del paragrafo, che si propone come punto di avvio per una discussione sul tema, ricorda che “vivere una professione ricercata e apprezzata, giustamente remunerata e personalmente gratificante è il sogno di ogni giovane. Oggi succede a pochi di poter scegliere il lavoro che piace. Chi lo può fare viene considerato un fortunato. I più sono costretti ad accontentarsi di quello che la società passa. Gli ideali vengono subito ritoccati e ridotti, e con essi spesso anche l’entusiasmo” (p. 312). L’affermazione pone subito a confronto (secondo l’atmosfera che domina in questa unità) ideale e realtà (cfr. p. 283), con uno squilibrio tra la bontà dell’ideale (ritenuta evidente nella sua percezione) e la crudezza della realtà. Credo che non sia sufficiente un’analisi di questo tipo, perché l’attenzione deve essere posta già nello stesso costituirsi dell’ideale professionale nell’attuale contesto socio-culturale ed economico, in cui i tratti della autorealizzazione non sono immediatamente quelli della percezione della missionarietà dell’esercizio professionale. La realtà, poi, di un lavoro non gratificante declina l’ideale prospettato ad una forma di semplice strumento, di mezzo per il conseguimento di fini che sono altri (se non alternativi) alla stessa professione vista come momento a parte, necessario, per una realizzazione di sé attesa da altre e più gratificanti esperienze. D’altra parte è la realtà stessa ad alimentare il “mito” della ottimizzazione personale della professione, inducendo frustrazione o anche disillusione nei confronti delle prime faticose ricerche ed esperienze lavorative o generando un crudo realismo circa la doverosità del lavoro la cui finalità non è immanente all’operatività stessa.
L’altro luogo di occorrenza, più preciso nella determinazione della tesi della professione come vocazione, è all’interno dell’unità 9 del CDG/2, cioè nel contesto di una riflessione sulla realtà sociale. Di essa, significativamente espressa nell’attività professionale, come nell’impegno politico, si afferma la non estraneità alla esperienza di fede, che illumina tutte le realtà umane. Particolarmente stimolante può essere il corsivo di apertura alla stessa unità 9 che precisa l’orizzonte antropologico e contestuale di riferimento alla riflessione per il discernimento del senso cristiano dell’agire sociale, nell’ottica di lettura del momento della giovinezza compiuta: “l’inserimento nel lavoro è uno dei passaggi rilevanti della vita, che segna in modo decisivo la giovinezza” (p. 359). Il significato esistenziale del lavoro presentato nel corsivo di apertura eccede la pur problematica questione dell’autonomia economica del giovane e presenta una dimensione più profonda: “esprimere capacità di cui ci si sente competenti, accrescere il proprio bagaglio di esperienze, provare a modificare la realtà attorno a sé”. Tale significato che si presta ad essere aperto ad una sua precisazione da parte degli stessi destinatari del catechismo, si scontra, anche in questa circostanza, con la disamina della realtà che si avviluppa attorno all’esperienza del lavoro: le leggi impersonali che reggono la logica di mercato e l’esercizio stesso della professione, la rivalità, i meccanismi umilianti connessi con l’accesso al lavoro, situazioni che non possono che rafforzare nel giovane stesso il garantismo di sé e l’egoismo di sopravvivenza, facendo svaporare (se mai ci fossero stati) gli ideali di partenza e mortificando la qualità stessa del lavoro dell’uomo come spazio (non unico), non solo di “autorealizzazione”, ma come sincera espressione del valore della solidarietà e della collaborazione per la realizzazione di un progetto sulla società civile.
Fedele al proposito di rileggere in senso cristiano quegli aspetti della vita in genere, e in questo contesto, della socialità, il testo offre una lettura “vocazionale” dell’esperienza del lavoro alle pp. 372-373, dopo aver offerto una riflessione di fondo sul senso della “vita attiva” dell’uomo, che per il credente è riletta a partire dalla teologia della creazione e della redenzione in Cristo di tutto l’uomo e delle realtà umane, secondo una modalità abituale di trattazione in cui l’impersonalità del concetto di lavoro è congiunta alla riflessione sull’uomo lavoratore e sulla necessità di ripensare il tempo del lavoro in rapporto all’area del tempo libero (o del non lavoro), della festa e della contemplazione, come esperienze da leggere in modo integrato per coglierne il loro più autentico senso (cfr. pp. 360-367). Alla luce di questo quadro di riferimento viene svolta una riflessione, secondo una prospettiva etico-sociale, in cui trova posto, accanto alla proposta, contenuta nella Laborem exercens, del lavoro umano come “bene degno”, “cioè corrispondente alla dignità dell’uomo” e come “bene della sua umanità” (cfr. LE, 9), anche l’ottica “vocazionale”. Il dovere etico del credente davanti alla professionalità appare non solo una figura (peraltro incerta) di appagamento personale, ma anche di concreto esercizio della solidarietà, anticipabile nel periodo formativo attraverso l’esperienza del servizio e del volontariato. L’attuazione concreta di questo è comunque sospesa all’attenta considerazione delle dinamiche, non solo personali, ma strutturali e socio-culturali in cui tale “valore” è chiamato a trovare una sua efficace realizzazione. L’affermazione della vocazionalità della professione, che risulta peraltro imprecisata, posta e non ulteriormente argomentata, conclude il paragrafo in questione e da essa deve partire una riflessione più attenta a considerare la pertinenza e la comprensione più puntuale di questo postulato: “alla luce della fede, nelle possibilità positive che gli vengono offerte dalla professione e dal lavoro, come anche nelle inevitabili tentazioni connesse alla scelta e all’esercizio di una professione, il credente riconosce una chiamata personale di Dio. In questa luce il lavoro non è soltanto un impegno, ma una vocazione, una strada per realizzare il disegno di Dio su noi e su gli altri” (p. 373). Il valore sotteso a questa sezione è anche riassunto a p. 392: “Il lavoro non è mai soltanto professione ma anche vocazione; mediante il lavoro l’uomo entra in relazione non soltanto con le cose, ma anche con gli altri e con Dio. Operare nel mondo significa assumere fondamentali atteggiamenti di gratuità, responsabilità e solidarietà. Anche per i cristiani impegnati nelle realtà sociali e politiche vale la possibilità di raggiungere la perfezione non nonostante la loro attività temporale, ma proprio grazie ad essa”.
Lo sviluppo critico di questa affermazione porta con sé, così, sia una lettura più chiara del concetto di lavoro e professione, come della figura di esso emergente dalla rivelazione, per rilevare infine la pertinenza della categoria “vocazionale” applicata a questa realtà umana. Di questo progetto svolgeremo in questo contributo solo il primo punto, rimandando alla bibliografia per successivi approfondimenti.
Per la definizione del concetto
La riflessione sulla storia e sull’evoluzione dei concetti di lavoro e professione non è certamente opera agevole[2]. Senza volere separare rigidamente i termini ed i relativi concetti è possibile riconoscere all’idea di lavoro un riferimento all’oggettivo dispendio delle energie umane nella “attività”, perché la trasformazione delle realtà naturali possa soddisfare il bisogno umano. Il riferimento alla professione porrebbe, invece, in primo piano la dimensione soggettiva, l’esplicazione, nell’opera e al di là di essa, di un modo di essere della persona e delle proprie capacità in prospettiva di autorealizzazione. A fronte di questa sintetica affermazione occorre rilevare come la centralità della categoria di lavoro per interpretare l’attuale civiltà non sembri corrispondere ad una struttura permanente dell’esperienza umana, quanto piuttosto sia da ascrivere a quel momento storico, maturatosi a cavallo dei secoli XIX-XX, contrassegnato da una forte tensione circa l’ideologia del progresso illimitato ed innescato dal massiccio utilizzo della tecnologia nella realtà del lavoro umano. Quanto oggi va profilandosi in modo sempre più preciso è una realtà più complessa che modificando l’assetto lavorativo ha portato in luce “il compito di determinare possibili valori ed impegni della libertà umana ulteriori rispetto al lavoro”[3].
Può essere così recepita in modo positivo la traccia offerta dal CDG/2 di cogliere il tema del lavoro come parte integrante di una complessa considerazione dei tempi e dei modi di essere dell’uomo, nel segno di una duplice feconda relativizzazione: quella per cui il tempo del lavoro non può coincidere integralmente con il tempo della vita; quella per cui l’essere dell’uomo non può identificarsi con il volontarismo dell’attività, ma domanda parimenti un accesso a quella sospensione contemplativa che consente di apprezzare con più equilibrio il senso dell’operare umano non come realizzazione di un progetto prometeico di controllo e di disposizione della vita nelle sue molteplici forme, ma come opera di trasformazione in vista della risoluzione dei bisogni fondamentali dell’uomo e come opera di edificazione culturale per il bene civile. Non può comunque essere occultata la dimensione di “penosità” (già conosciuta dalla antichità e presentata più volte nella rilettura cristiana), di pesantezza, di fatica, di sterilità, propria dell’operare umano, che appare quasi condizione insuperabile dell’esistere e che dunque domanda un senso o porta a svolgerlo al di là dell’esperienza stessa. In questa prospettiva la realtà oggettivante del lavoro deve essere compresa all’interno della dimensione “umana”, della decisione professionale. Non è altrettanto immediato pensare alla scelta professionale quale espressione della decisione di realizzazione del proprio progetto di vita, come attestato dalle stesse affermazioni del CDG/2 sopra ricordate.
Tuttavia è importante inquadrare il concetto di professione all’interno del rilievo di una espressione personale e di uno spazio di esercizio nel quale può svolgersi la libertà umana, senza occultare il dato dell’attuale contesto in cui la qualifica professionale sembra assumere contorni più fluidi, rispetto al passato in cui poteva designare attività chiaramente circoscritte e tendenzialmente connesse ad impieghi socialmente elevati. “La professione è, da un lato, lo spazio effettivo di libera decisione che contrassegna l’agire umano e, dall’altro, il livello di responsabilità sociale che inerisce a tali decisioni. La professionalità deve, in altri termini, essere riconosciuta a quelle attività – siano esse, sul piano strutturale, dipendenti o autonome – che implicano l’esercizio della creatività umana e alle quali è connesso un reale quoziente di incidenza sulla trasformazione della vita”[4]. Alla luce di questa delimitazione concettuale che rileva l’intreccio (eticamente decisivo) di libertà, responsabilità soggettiva (personale) ed oggettiva (sociale), può essere plausibile una distinzione tra professione e lavoro.
L’ideologia sottesa alla professionalità sembra comunque intersecare due modelli antinomici, la cui ricomposizione o il cui conflitto per la prevalenza di uno dei due non pare agevole: un primo modello tenderebbe a privilegiare la competenza tecnicoscientifica con il conseguente frazionamento dei saperi e la difficoltà di un controllo dei processi esecutivi in corso o con la tendenza alla sacralizzazione delle professioni. Il secondo appare, invece, “caratterizzato da una interpretazione rigidamente “politica” della professione, e perciò da una sottovalutazione della competenza in nome di un’attenzione privilegiata – e talora quasi esclusiva – ai fini sociali complessivi”[5].
Le antinomie che vengono a pesare sulle responsabilità oggettive delle professioni si completano con quelle che derivano dagli atteggiamenti soggettivi della responsabilità. Si ravvisano due momenti propri della considerazione moderna della professione. Un primo momento appare contrassegnato da una “mistica della professionalità”, erede della rivisitazione weberiana del protestantesimo[6], contrassegnata da un’attitudine volontaristica, da una certa sacralizzazione del ruolo, da una ricerca della purezza dei significati interiori della propria attività, più che da un’attenta riflessione sull’efficacia storica del proprio agire con la conseguente cura per la propria qualificazione tecnico-professionale. Un secondo momento può essere colto come reazione al primo ed è centrato maggiormente sulla tecnicizzazione della propria professionalità, in cui l’aderenza alla oggettività e la pretesa difesa della neutralità della scienza ha portato ad una esclusione progressiva della componente etica ed alla dicotomia tra etica e competenza tecnica.
Si può comunque rilevare una forma scadente di emergenza dell’etica della professionalità, forma scadente perché legata ad una prospettiva minimale e di tutela del complesso intreccio di diritti-doveri tra operatori e utenti dell’esercizio professionale, come è paradigmatico nel caso della classe medica. Si allude, cioè alla produzione dei codici deontologici, che fissano, in forma di correttezza, anche se non priva di stimolazioni etiche, la relazione delineata tra professionista ed utente. Si può parlare di una sorta di “cautelizzazione regolamentata” che ha alla base una teoria dei diritti elaborata dai vari soggetti sociali e da essi rivendicati a propria tutela. Questo configura un dialogo sociale, necessario nel presente, che non dice la complessità della relazione e la qualità buona che può instaurarsi, ma la sua declinazione dentro uno schema di tipo giuridico, tendenzialmente rivendicazionista e garantista. Non si tratta, ripetiamo, che di un primo livello che può e dovrebbe esigere, in nome di una più profonda comprensione della propria professionalità, vissuta in questo caso come tensione costruttiva della società, di evolversi verso un modo di esercizio e di percezione della propria coscienza professionale più ampio. Proprio in questa rinnovata coscienza può trovare uno spazio meno sfumato la caratterizzazione della professione come “vocazione”.
Si tratta, allora, di cogliere il senso del proprio agire professionale sapendo intrecciare nell’interpretazione gli atteggiamenti soggettivi, nei quali la persona elabora le intenzioni del proprio agire, con l’attenzione alle ricadute sociali che il proprio esercizio viene ad avere. Ciò è possibile attraverso un’assimilazione di quei valori interiori quali lo spirito di servizio e la solidarietà, più volte segnalati nel testo del CDG/2 con i significati sociali e culturali elaborati, con le attese che la società matura nei confronti di ciascuna professione. Non va comunque dimenticato anche un esercizio critico e testimoniale della propria professione che consenta di contrastare quegli aspetti più negativi presenti nell’attuale percezione del lavoro e della professione.
Lo sviluppo di questa prospettiva è connesso con una maturazione più ampia della coscienza personale. Circa questo aspetto occorre ribadire l’ambivalenza che attraversa il mondo dei giovani in particolare nell’attuale contesto. Appare in un certo senso tramontata l’idea della “mistica” ed “eroica” del lavoro che può aver esercitato un certo fascino nelle precedenti generazioni. Il disincanto anche verso questo valore indulge verso un ripiegamento nei confronti di quelle esperienze che danno corpo alla vita accanto al lavoro. Così il lavoro è visto come uno strumento necessario per assicurare alla propria esistenza la possibilità di accedere al altre esperienze, quelle enfaticamente rappresentate dal “tempo libero”, ritenute capaci di interpretare maggiormente l’autenticità della vita. Questo disincanto non è solo segno di una svalutazione del lavoro e della professione, quanto piuttosto scaturisce da una riflessione realistica circa le effettive possibilità offerte per accedere e per vivere il proprio impegno. Resta comunque il dato inquietante della difficoltà contemporanea ad articolare l’esperienza del lavoro e quella del tempo del “non lavoro”, visti ormai come due momenti separati della vita e, comunque, pensati in prospettiva più di “esperimenti” sulla vita, che di “decisioni” circa l’unità e la qualità della vita buona[7].
Davanti a questa caratteristica, che non può offuscare, comunque, l’importanza di una riflessione circa l’impegno ed il riconoscimento di quei valori che consentono di apprezzare in modo etico l’esperienza del lavoro e l’esercizio della professionalità, occorre riconoscere la consapevolezza di una non immediata leggibilità di quanto il CDG/ 2 propone. La semplice posizione della questione domanda, così, più radicalmente una riflessione sulla rimozione della domanda etica che si fa spazio in larghi settori della vita individuale e più ampiamente nell’ethos sociale. La semplice posizione di valutazioni circa la bontà dell’agire non trascende in molte occasioni il livello della raccomandazione e dell’esortazione, senza insistere su una educazione alla capacità di decidere e di valutare e, a monte, sul senso e la possibilità della “formazione” della persona[8].
In questa prospettiva, attraverso una maturazione della responsabilità e della doverosità di porre decisioni capaci di rivelare la consistenza del soggetto, può anche svilupparsi un aggancio tra la professione come ‘vocazione’, pur nelle cautele che sono venute configurandosi, e un’attenzione alla “vocazione” intesa come maturazione di un preciso stato di vita nella Chiesa. La capacità di un’educazione profonda ed ampia della coscienza individuale a contatto con la vita e le sue richieste, può realizzare un ritorno del soggetto su di sé, per scorgere al di là delle parziali realizzazioni un’ orizzonte più ampio e totalizzante come quello di una vocazione di speciale consacrazione. L’ascolto di persone che dal mondo del lavoro e dall’esercizio professionale sono arrivate alla maturazione di una vocazione di questo tipo, anche riconoscendo l’insufficienza e l’insensatezza delle stesse esperienze di vita, lo può confermare ben al di là di ogni riflessione.
Note
[1] Di passaggio si può notare come una riflessione analoga manchi nella prima edizione del catechismo dei giovani Non di solo pane, uscito per la consultazione e la sperimentazione nel 1979.In quell’opera, radicalmente rivista, tanto che il CDG/2 si presenta in forma del tutto nuova e con una scansione differente all’interno del progetto catechistico italiano, la tematica del lavoro non era affrontata in modo diretto, ma solo attraverso alcune referenze marginali nel corso di altre trattazioni (cfr. capp. 3.4, 17.4, 19.5, 22.8).Ugualmente assente nel libro del 1979 l’affermazione della “professione come vocazione”. Anche rispetto al Catechismo dei giovani 1 Io ho scelto voi (CDG/1), la prospettiva è maggiormente sviluppata in ragione della peculiare situazione esistenziale dei destinatari del testo. Circa l’occorrenza della riflessione nel CDG/1, che anticipa alcuni temi del CDG/2, alcune pagine significative sono quelle della terza unità Responsabili nel mondo (pp. 110-112: ‘Si va a scuola”, “Qualcuno comincia a lavorare” che fotografano la situazione dell’adolescente; p. 141 sul senso cristiano dell’impegno nel mondo e più ampiamente nella sfera del sociale con una citazione della Laborem exercens nella banda colorata a fianco del testo – pp. 142-144). In un senso “vocazionale” il tema è introdotto anche nella unità 5 Chiamati a seguire Gesù come dimensione verso cui orientarsi: “A mano a mano che si cresce, nasce infatti il bisogno di dare un volto stabile al proprio domani, indirizzandosi verso un determinato lavoro e scegliendo uno stato di vita. Non si tratta di decidere già ora. Fin da oggi, però, è bene misurarsi con queste prospettive future, per sfuggire al pericolo di vivere alla giornata, senza una mèta per cui impegnarsi” (p. 243). Il testo del CDG/1 insiste sulla formazione di uno stile di vita ispirato al servizio a cui dedica una apposita sezione. Per una lettura di questa prospettiva con un’indicazione vocazionale si rimanda a: P.D. GUENZI, Educarsi al servizio: ipotesi di lettura della “fascia missionaria”, ‘Vocazioni’ 11 (1994/2) 37-43.
[2] Rimandiamo a questi studi per un approfondimento della questione: F. TOTARO, Lavoro e prassi nella dialettica del moderno, in E. BERTI (a cura di), La razionalità pratica. Modelli e problemi, “Ragione e ragioni. Dimensioni dell’intelligenza, 2”, Marietti, Genova 1989, 71-90; ID., Tendenze e problemi nella filosofia del lavoro del XX secolo, in A. CAPRIOLI – L. VACCARO, Il lavoro I, Morcelliana, Brescia 1983,17-32; G. ANGELINI, Cattolicesimo e civiltà , in A. CAPRIOLI – L. VACCARO, Il Lavoro III, Morcelliana, Brescia 1987, 157-180; ID., Lavoro, in G. BARBAGLIO – S. DIANICH, Nuovo Dizionario di Teologia, Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1985, 701-725; ID., Teologia cattolica e lavoro, in A. CAPRIOLI – L. VACCARO, Il lavoro I, 135-162, ID., Linee per un’interpretazione del messaggio biblico sul lavoro, in A. CAPRIOLI – L. VACCARO, Il lavoro I, 119-128; (tutti questi testi presentano oltre ai citati importanti studi sulla tematica). Per l’etica professionale: G. PIANA, Antinomie della professionalità e nuove problematiche etiche, in AA.VV. Lineamenti di etica professionale (Atti del I seminario: 1-5 1987), “Collectio Ethica, 5”, ed. Oftes, Palermo 1988,71-76; G. GATTI, Etica delle professioni formative, LDC, Leumann (To) 1992. Circa alcuni autori, di prospettive diverse, che possono essere accostati oltre a quelli segnalati dagli studi citati: M. SCHELER, Lavoro ed etica. Saggio di filosofa pratica, “Idee/Filosofia, 114”, Città Nuova, Roma 1997 (ed. or. 1899); H. ARENDT, Vita attiva. La condizione umana, “Saggi tascabili, 41”, Bompiani, Milano 1996 (ed. or. 1958).
[3] G. ANGELINI, Cattolicesimo e civiltà…, 160.
[4] G. PIANA, Antinomie della professionalità 71-72.
[5] G. PIANA, Antinomie… , 75.
[6] Si allude alla celebre opera di Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (Sansoni, Firenze 1983, ed. or. 1922) e a Il lavoro intellettuale come professione (“Nuova Universale Einaudi, 74”, Einaudi, Torino 1948, ed. or. 1918).In particolare nella prima si sostiene la tesi di una dipendenza tra alcune correnti di spiritualità della Riforma e la visione del lavoro come “vocazione” dell’uomo che porterà allo sviluppo di alcune forme dell’economia capitalistica. Nell’ottica di lettura degli ordinamenti sociali proprio del pensiero dei riformatori “la vocazione di Dio è dunque vocazione secolare, la quale proprio per questo trova un’espressione emblematica negli ordinamenti mondani della famiglia e della società civile. Dunque il dovere di stato (proprio della tradizionale riflessione morale medievale, che continuerà nella manualistica cattolica N.d.A.) diventa Beruf, “vocazione”: il termine è venuto ad essere sinonimo moderno di professione nel tedesco moderno” (G. ANGELINI, Lavoro …,705). Secondo, poi, la particolare rilettura calvinistica del tema l’attivismo professionale, esteso alle moderne configurazioni del suo esercizio e per sostituzione all’ascetismo monastico antico, diventa un segno della particolare elezione del cristiano. Oltre ai testi citati nel contributo di Angelini, può essere utilmente accostata la rilettura catechistica di Lutero del Decalogo (ed in particolare del terzo e settimo comandamento) sia nel “Piccolo Catechismo”, come nel “Grande Catechismo” del 1529. Cfr. M. LUTERO, Il piccolo Catechismo. Il grande Catechismo, a cura di F. FERRARIO, “Opere Scelte, 1”, Claudiana, Torino 1998. Non può, così, essere dimenticato il contesto di origine dell’espressione “professione come vocazione” che è proprio, per quanto ci è dato di conoscere, della riflessione protestante e che è stato assunto anche all’interno della formulazione cattolica di un’etica professionale.
[7] Così secondo la riflessione di G. Angelini: “La consapevolezza diffusa ed inquietante del carattere solo congetturale o addirittura arbitrario, di molte delle sue scelte da parte dell’uomo contemporaneo è da spiegare in questo quadro: quelle scelte non fanno storia, non si cumulano, appaiono come semplici ‘esperienze’ o ‘esperimenti’, non come decisioni” (Cattolicesimo e civiltà…, 179).
[8] Per una ripresa “teorica” del concetto di formazione: AA.VV., Il primato della formazione, “Disputatio, 9”, Glossa, Milano 1997.