La formazione della coscienza al discernimento, per una vita secondo lo Spirito
La prospettiva di questo contributo intreccia, alla ricerca di un equilibrio attraverso lo svolgersi del pensiero, tre termini ampiamente utilizzati nella presente stagione ecclesiale: formazione, coscienza e discernimento. L’accostamento, che potrebbe risultare in prima battuta ovvio, in realtà impone un percorso più ampio alla luce di alcune considerazioni di fondo.
L’incertezza circa il concetto di “formazione”
La massiccia introduzione di questo termine nei documenti magisteriali, come nella pubblicistica non ha giovato ad una comprensione piena dell’idea sottesa alla formazione e alle difficoltà che tale processo comporta nell’attuale contesto socio-culturale. Non a torto si è parlato dell’idea di formazione come di una specie di “imperativo categorico” della pastorale, cioè di un’indicazione puramente formale, non compiutamente sviluppata nelle sue determinazioni materiali corrispondenti e in riferimento alla più affermata prassi pastorale tradizionale. Più in profondità la centratura ricorrente sull’idea di formazione sembra collegarsi con un’idea del soggetto sganciato dalla sua collocazione concreta e dal più ampio contesto socio-culturale in cui si attua l’insorgere ed il consolidarsi della sua personalità prima di ogni deliberazione esplicitamente tesa ad un’azione specificamente formativa. Comunque l’impegno della formazione sottintende una presa a carico del soggetto in un tempo, l’attuale, in cui i processi di omologazione culturale rendono instabile ed ambiguo ogni progetto antropologico, specialmente quello aperto alla prospettiva vocazionale. Il ripiegamento sull’immediato, sui singoli problemi che pesano sulla persona in modo sproporzionato, fino al limite del disagio psichico, profila un impegno ad accogliere quelle proposte che appaiono immediatamente funzionali e funzionanti per risolvere tali problemi, per alleggerire o schivare il peso di una decisione che impegni alla ricerca di un fondamento oltre l’immediato. La stessa formazione spirituale, che è alla base di una progettualità vocazionale, appare non di rado mortificata in quanto viene risolta nella linea dell’apprendimento di una tecnica o nella plasmazione di una facoltà particolare della persona e non come una modalità di accesso, attraverso l’educazione degli affetti e dell’agire effettivo, ad una “vita secondo lo Spirito” in cui l’orizzonte teologale si saldi su quello virtuoso e morale. Così ogni discorso sulla formazione della coscienza al discernimento sembra esposto a questa logica tecnicistica più che all’acquisizione di una globale “sapienza di vita”[1].
La difficile delimitazione del concetto di coscienza
È diventato abbastanza comune rilevare attorno al concetto di coscienza una concentrazione di significati che hanno portato sia all’ampliamento del concetto stesso, come ad un suo svaporamento in un’accezione quasi esclusivamente psicologica di “consapevolezza”, eludendo, così, la connotazione radicalmente morale che le è propria.
Del resto questa difficoltà è segnalata dalla stessa enciclica Veritatis Splendor (=VS) quando prende atto dei possibili riduzionismi di cui è stato fatta oggetto la coscienza morale (cfr.. VS 54-64). Ma prima che di riduzionismi occorre ammettere, piuttosto, come l’estensione del concetto, al di là dell’accezione tradizionale che vede la coscienza nella forma del giudizio in situazione, abbia portato ad una visione più articolata dei nessi che intercorrono tra la persona e il suo agire a partire dalla collocazione storica dell’uomo. Anche il concetto di “coscienza” presupposto alle argomentazioni che saranno esposte si rifà alla suddetta estensione nella luce non tanto di un dissolvimento del paradigma tradizionale di essa, ma piuttosto per riportare alla luce l’implicito che gli è sottostante e che la tradizione manualistica, la cui finalità pratica era quella di determinare materialmente la qualità morale dell’azione nel confronto tra coscienza e legge, aveva fatto cadere, ma che corrisponde, piuttosto al paradigma biblico-originario del fenomeno in questione. Inoltre l’attenzione alla coscienza non deve portare a disattendere la valenza della norma per l’agire. Occorrerà mostrare come sia l’orizzonte dell’imperativo morale a costituire la coscienza nella sua consistenza e a profilare per essa un compimento che, attraverso l’obbedienza alla norma, abbia a che fare con la globalità della vita personale.
Non va comunque dimenticato che la coscienza appare culturalmente situata e, dunque, porta alcuni tratti da considerare come motivazioni che insieme preoccupano l’educatore e lo occupano a porre l’azione formativa in riferimento preciso ad esse. Diventa allora particolarmente decisivo comprendere il situazionamento della coscienza morale a partire dall’attuale contesto socio-culturale.
Un primo dato da evidenziare è l’ambivalenza della coscienza umana come elemento strutturale da cui non è più possibile prescindere. Esso viene a costituire una specie di “seconda natura” all’interno della quale l’uomo accede alla comprensione di sé e del senso della sua presenza nel mondo. Le giovani generazioni sono ormai predisposte “a concepire la parte riflessa della loro coscienza – le idee che hanno, le cose che imparano, le convinzioni che via via si formano – come l’aspetto superficiale, precario della loro coscienza in senso proprio, della loro persona. Infatti, ormai tutti siamo abitati dalla persuasione che dietro questa superficie ci sia dell’altro e questo altro, il profondo di noi stessi, potrebbe essere anche difforme, diverso, persino in contrasto con ciò che in superficie sentiamo, pensiamo, vogliamo”[2]. Questa ambiguità di fondo rende allora particolarmente difficile il compito dell’educazione e dell’autoformazione della coscienza morale. Qualcosa sfugge al di sotto del fascio delle attuali motivazioni, intenzioni e scelte della persona. Non può allora funzionare semplicemente l’idea della formazione della coscienza morale come istruzione della volontà o come trasferimento intellettuale di convinzioni elaborate da una tradizione morale all’interno del quale l’uomo si trova inevitabilmente a vivere. L’operazione è più delicata: appare necessaria l’educazione del cuore, del centro profondo della persona, perché su questo livello si pone la possibilità di un processo formativo in cui la libertà della persona possa incontrarsi con la verità effettiva dell’appello morale in cui si decide la consistenza della propria vita.
Un secondo elemento da tenere presente è la difficoltà di attuare il discernimento del mondo della risonanza, cioè del mondo affettivo. A questo livello si fonda e si unifica l’elemento intellettivo, volitivo della persona con il momento attrattivo del bene, che nella prospettiva cristiana, si rivela all’interno del felice rapporto con Dio attuato dalla fede e della partecipazione alla grazia di Dio attraverso il dono dello Spirito Santo. La discesa nel mondo dell’interiorità, dà ragione dell’azione dello Spirito Santo nella sua “capacità di rendere affettivamente importante la Legge di Dio e persuasiva la Parola della fede”[3]. In questa luce l’educazione della coscienza morale si configura in continuità con l’educazione alla risposta di fede che spinge, in modo dinamico e perentorio, ciascuna persona alla cura per la ricerca della modalità esistenzialmente corretta e pienamente sensata di questa risposta: la vocazione appunto. L’educazione della coscienza morale nella prospettiva cristiana rivela questa qualità particolare: essa non si riduce alla delimitazione del comportamento giusto, ma ha a che fare con una persona chiamata alla verità di sé, a sentire affettivamente importanti e decisivi in ordine alla sua vita quegli appelli ad una giusta relazione con Dio nella fede capaci di tradursi in una ricaduta nelle scelte più o meno grandi e decisive della vita. La capacità di arrivare al mondo dell’interiorità e della risonanza dell’appello morale per offrire una parola e dei criteri di comprensione e di giudizio di sé è, dunque, rilevante in ordine ad una pedagogia di maturazione vocazionale.
Un terzo elemento per cogliere l’attuale situazionamento della coscienza morale è quello della “deistituzionalizzazione del criterio dell’autenticità morale”[4]. La sfera della moralità si identifica con l’orizzonte delle relazioni immediate, nelle quali cioè non si profila alcun aspetto istituzionale. Criterio di realizzazione allora non diventa la ricerca del bene all’interno della trama di rapporti allargati nel quale il soggetto vive, ma la negoziazione del bene di volta in volta a partire dal grado di coinvolgimento del soggetto e il suo declinarsi secondo la logica della forte emozione. Là dove, come nella trama istituzionalizzata dei rapporti, il coinvolgimento è minimo, allora minima sarà la capacità del soggetto di identificarsi con essi. Il problema educativo della coscienza morale deve, allora far fronte a questa situazione, proponendo di allargare i mondi vitali abitati e sentiti dalla persona per renderli effettivamente importanti e decisivi in ordine all’autenticità di vita. Il risvolto sull’educazione vocazionale sarà allora quello di aiutare la persona a liberarsi da una figura ristretta della propria problematica vocazionale (come risposta esclusivamente legata al bisogno personale), per comprendere come la vocazione che si istituzionalizza in uno “stato di vita” abiliti la persona ad abitare ogni ambito dell’esistenza, ogni tipo di rapporto alla luce della propria scelta di vita.
La difficile applicazione del “discernimento”
Il concetto di discernimento, sotteso alla terminologia della tradizione biblica e spirituale, insiste in una prospettiva di maturazione dell’identità cristiana a confronto con l’oggettività della situazione. “L’istanza del discernimento spirituale – come si è fatto rilevare – nasce dall’esperienza che il cristiano fa della sua vita di fede in Cristo, nella chiesa e nel mondo. La complessità delle situazioni in cui è chiamato a vivere e ad agire per attuare il progetto di Dio […] gli impongono una considerazione attenta degli impulsi e delle motivazioni che lo portano ad operare determinate scelte”. Inoltre, “ciò che è bene per uno, non è bene per un altro, e ciò che è meglio per uno non lo è sempre per un altro. Da qui il problema: come riconoscere i segni di Dio in una determinata situazione e soprattutto di fronte a certe scelte?”[5]. Si pone così l’istanza del discernimento che nell’accezione biblica, attestata dal termine dokimàzo, indica l’impegno a soppesare, ad esaminare e verificare quanto è posto davanti alla persona. L’altro termine, abitualmente connesso al primo, diakrìno, segnala, piuttosto, il processo di giudizio, di separazione di ciò che può apparire in prima istanza confuso, di considerazione attenta degli elementi in vista di una decisione posta davanti alla persona. “In ogni caso si tratta di distinguere per chiarire la vera natura o le vere intenzioni di qualcuno o di qualcosa, di separare ciò che è mescolato e si presta alla confusione, per stimare e valutare nel modo giusto prima di prendere una decisione. E la parola di Dio ci consiglia di esercitare questa operazione non con una norma e un criterio meramente umani, ma badando al giudizio e al gradimento di Dio”[6]. In questa accezione al discernimento verrebbe attribuito quanto è compito della coscienza morale del cristiano, particolarmente davanti all’agire e al rilevamento delle sue intenzioni e motivazioni. Occorre, allora, riconoscere che alla luce di un’attenta considerazione circa la natura della coscienza morale, bisogna riferirsi al “discernimento” più che semplicemente come a pratica da applicare, piuttosto come a uno stato, a una modalità di essere, quella segnalata dalla maturità cristiana e dalla “vita secondo lo Spirito”, che diventa costitutiva della persona e che comunque può essere educata attraverso l’accompagnamento spirituale. Educare al discernimento e compierlo con la persona che viene accompagnata significa mettere in atto quelle dimensioni della coscienza personale che lo Spirito vivifica e rende operanti. Il cristiano impegnato ad attuare il discernimento è colui che raggiunge la “libertà nello Spirito” che lo rende “competente” circa la plasmazione della sua vita buona attraverso la doverosità dell’agire, ma anche lo apre ad una disposizione sintetica di sé attraverso la scelta di una vocazione specifica[7].
Alla luce di queste note che sembrano scoraggiare piuttosto che sostenere un itinerario che sarà evidentemente parziale cerchiamo di cogliere la relazione tra coscienza e discernimento, e l’azione formativa e auto-formativa che sembra imporsi, alla luce di tre caratteristiche proprie del costituirsi della coscienza e dell’applicazione del discernimento che appaiono suscettibili di doverosi processi di formazione.
DISCERNIMENTO COME “ARTE DI ASCOLTARE”
Un primo tratto del discernimento, che svela anche una struttura di fondo della coscienza morale, è rintracciabile nell’atto dell’ascolto della Parola di Dio. Appare stretto il legame tra discernimento e ascolto della Parola di Dio tanto da proporsi come “la chiave essenziale di ogni discernimento spirituale” e “il primo strumento di un buon discernimento spirituale”[8].
La qualità di questo discernimento operato dalla Parola di Dio è segnalato in modo esemplare dall’esperienza della Lectio divina che, accanto all’elaborazione del senso teologico aperta dall’esegesi, mira ad un livello più profondo a situare il testo come elemento di mediazione e di parola nella comunicazione “attuale” tra Dio e l’uomo. “È la presenza ininterrotta dello Spirito nella lettera della scrittura” a far sì che “la parola biblica, da questi incessantemente ispirata” diventi “la parola che Dio ci rivolge concretamente oggi”[9]. L’evento della Parola sotto l’azione dello Spirito fa sì che l’appello di essa non si limiti ad illustrare una verità di Dio, ma ad aprire al riconoscimento di chi è Dio che si comunica attraverso di essa e di come si comunichi nella modalità di un appello personale, capace di non lasciare inalterato il cuore dell’uomo.
Una Parola penetrante e che rende penetranti
Da queste semplici osservazioni emerge con chiarezza che in modo proprio e primario il soggetto del discernimento resta comunque Dio il quale mette alla prova il cuore dell’uomo attraverso la sua Parola (cfr. 1Ts 2, 4). L’atto umano del discernimento allora può comprendersi in primo luogo, secondo quanto attestato nelle stessa rivelazione, come una disposizione alla “passività” che rivela nell’uomo la disponibilità ad aprirsi al dialogo con Dio, prima di ogni altra disposizione che pregiudichi non solo l’esito del processo, ma la realtà stessa della possibilità di accedere alla rivelazione di Dio. In questo senso la Parola di Dio non lascia l’uomo indenne. E ciò è vero in due sensi. In un primo senso perché è della parola di Dio la sua capacità penetrativa che incombe dall’alto, ma sotto cui l’uomo non soccombe perché, in un secondo senso, è della parola di Dio la fecondità, cioè la capacità di far germinare nell’uomo quello che è il destino effettivo della propria vita (cfr. Is 55, 9-11). Così la proclamazione della Parola fa spazio nell’uomo perché da lui giunga la risposta, la quale non è altro che la realizzazione di sé come interlocutore privilegiato di Dio in una storia, quella di ciascuno, destinata ad assumere i tratti di una storia salvata, capace di rivelare la verità della persona. La fecondità spirituale della Parola produce nell’uomo un affinamento di sé; aprendolo, attraverso la personalità dell’appello, ad una sensibilità che non preesiste alla stessa lettura della Parola, ma che ne è il suo frutto e attraverso cui la persona si abilita a maturare una capacità di comprensione di sé davanti alla propria storia.
Tutto questo è compendiato in modo pregnante dall’Autore della Lettera agli Ebrei:
“Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non c’è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto” (Eb 4,12-13)[10].
La ricchezza del testo per istruire il tema del discernimento e della coscienza è stato avvertito dalla tradizione patristica che ha riconosciuto in questa operazione della Parola di Dio che inesorabilmente sortisce l’effetto di una spada, davanti a cui l’uomo non sembra sottrarsi, la generazione nel lettore di una nuova capacità critica (cfr. il carattere giudicante della Parola in Eb 4, 12c: kritikòs). Il lettore diventa dioratikos , cioè colui che “sa guardare attraverso le cose”, dopo essere stato penetrato in sé dall’appello della Parola. “È la parola di Dio stessa, sovrana, che tocca il cuore, lo ferisce e, ferendolo, lo risveglia, lo rende sensibile e dioratico. La frequentazione quotidiana della parola di Dio sotto forma di lectio divina costituisce il terreno per eccellenza del discernimento. Nell’ascolto assiduo della parola di Dio ogni credente può imparare ad ascoltare il proprio cuore, a percepire un’eco della Parola che si ripercuote e risuona dentro di lui” e lo introduce al discernimento affinando così “un senso spirituale che rende il credente sempre più in grado di percepire l’evento di salvezza che si cela dietro ogni avvenimento della storia, quella dell’umanità e la propria”[11]. Si tratta così di un chiaro appello “alla serietà della condizione dei credenti che devono imparare a discernere nella propria vita la presenza e azione del Dio vivente”[12].
Accanto a questa idea circa l’abilitazione al discernimento, il testo ci apre alla considerazione di fondo circa la realtà della coscienza. Tale esercizio del discernere è reso possibile da una coscienza penetrata dalla Parola. Si allude così ad una capacità propria di giungere fino a distinguere gli “elementi interiori e superiori che costituiscono il composto umano e la sua realtà spirituale e morale”[13]: anima e spirito, sentimenti e pensieri. Appare così l’uomo nella sua nudità originaria, scoperto e scrutato dalla Parola di Dio perché emerga nitidamente la verità di sé e la qualità del proprio agire. In modo significativo la domanda di Dio “Chi ti ha fatto sapere che eri nudo?” con cui Dio si appella all’uomo dopo il peccato (Gn 3, 11), rivela la nudità come la condizione della verità dell’uomo davanti a Dio, senza menzogna, senza la mediazione di una parola che proietti le proprie ragioni su quella di Dio per eclissarla o indebolirne la forza. Così la serietà del contesto giudiziale, a cui in prima battuta la coscienza richiama attraverso l’ampia fenomenologia biblica del senso di colpa e dell’angoscia più che in riferimento ad una sua un’astratta e formalistica definizione, non è distinguibile dal fatto che questo giudizio è di fatto la verità della persona scrutata da Dio in vista di un appello che è il segreto della vita per l’uomo.
La coscienza come luogo della percezione della personalità dell’appello che costituisce l’identità della persona
L’educazione al discernimento di sé dischiuso attraverso l’esercizio dell’ascolto della Parola di Dio si salda su di una caratteristica della coscienza nel suo essere costitutiva della moralità della persona.
Tale caratteristica si lascia esprimere attraverso la perentoria e indiscutibile “personalità dell’appello” che appartiene al darsi della coscienza. La costruzione dell’identità personale e insieme della coscienza morale non può comprendersi in modo riduttivo come la semplice trascrizione di un codice sociale di comportamento o di un’operazione di limitazione all’espansione incontrollata dell’io e del principio del piacere come segnalato da alcune teorie psicologiche circa lo sviluppo morale[14]. È piuttosto da collocare nell’esperienza originaria dell’essere raggiunti da un appello che insieme definisce ed ingiunge la doverosità della risposta attraverso le reali strutture affettive ed effettive dell’io. La coscienza appare così il luogo in cui si situa la relazionalità di fondo che costituisce l’identità propria della persona. Tale luogo appare non come desolata solitudine (o, se risulta tale, lo è in riferimento ad un’assenza, ad una lontananza segnalata appunto dal “peccato” che indica il fallimento effettivo di una relazione e non la mancanza di un’alterità di riferimento), ma è già abitata da una “presenza altra” attesa nella costituzione antropologica della persona e comunque capace in modo sorprendente e promettente di donargli una piena identità. La prima figura di questa presenza altra è nel dialogo interiore dell’uomo con se stesso in cui si attua un’originaria concretizzazione della coscienza morale. Questo dialogo interiore, o presenza del soggetto a sé, segnala come “l’uomo non può realizzare in atto la propria coscienza se non a condizione che egli riconosca la trascendenza di sé rispetto a sé”. La trascendenza segnalata si esprime in modo approssimativo come una sorta di sdoppiamento dell’io che invoca la sua unificazione come compito affidato alla propria libertà che anela alla verità di sé attraverso la realizzazione delle forme pratiche dell’agire nella propria storia. “Tale trascendenza comporta che l’uomo non possa venire alla verità di sé altro che mediante l’atto libero, con il quale si appropria di quella figura di sé promessa e insieme comandata dalle forme dell’esperienza passiva”[15]. La pregnanza del testo biblico da cui siamo partiti, evoca una parola che per liberare le autentiche dimensioni dell’uomo deve “essere subita”, segnala così che tale dialogo tra sé e sé è in realtà già costituito dal dialogo di Dio con l’uomo, così come segnalato dalla Rivelazione. Così a ragione l’enciclica Veritatis Splendor ricorda che
“la coscienza dà la testimonianza della rettitudine o della malvagità dell’uomo all’uomo stesso, ma insieme, anzi prima ancora, essa è testimonianza di Dio stesso, la cui voce e il cui giudizio penetrano l’intimo dell’uomo fino alle radici della sua anima, chiamandolo fortiter et suaviter all’obbedienza: ‘La coscienza morale non chiude l’uomo dentro un’invalicabile e impenetrabile solitudine, ma lo apre alla chiamata, alla voce di Dio. In questo non in altro, sta tutto il mistero e la dignità della coscienza morale: nell’essere cioè il luogo, lo spazio santo nel quale Dio parla all’uomo’” (VS 58).
Una piena accezione di questa idea è possibile attraverso una ricomprensione del tema dell’uomo costituito ad “immagine e somiglianza di Dio”. Se già il testo della lettera agli Ebrei aveva lasciato presagire il tema del “cuore” come correlato biblico al concetto di coscienza e più propriamente come luogo in cui la parola di Dio (cioè Dio nel suo rivolgersi dialogico all’uomo) scruta i sentimenti e i pensieri dell’uomo (cioè le sue passioni e ciò che è il principio della sue azioni: l’intreccio tra il mondo degli affetti e la globalità degli elementi che strutturano la persona), così l’accadere della coscienza come “personalità dell’appello” non è disgiungibile dalla “grazia della scoperta del cuore” cui la parola di Dio fa accedere, dando all’uomo consapevolezza del suo essere partner dialogico di Dio. Ma “la scoperta del cuore comincia con la scoperta della sua ambiguità. Potremmo dire con una frase di Agostino: il cuore diventa il luogo dove noi scopriamo che dobbiamo essere ‘ad imaginem’ di Dio, che siamo fatti per essere immagine di Dio. Il fondo del nostro essere è questa specie di parentela con Dio, e tuttavia è luogo del nostro scoprirci ‘in regione dissimilitudinis’ nel paese della dissomiglianza”[16]. Nel mistero del cuore si cela il segreto, il desiderio dell’uomo. Qui l’uomo fa la scoperta della sua fame e della sua sete. Se essa è fame e sete delle cose, di se stesso nella sua orgogliosa autarchia o della volontà di Dio. Nel cuore l’uomo fa l’esperienza della forza e della debolezza della sua libertà. Nel cuore si attua il processo di liberazione che porta a galla l’autenticità dell’uomo non come libertà da Dio, ma obbedienza per Dio che sprigiona l’autentico senso della libertà e della verità di sé. Occorre allora esplorare in modo più ampio questo rapporto tra immagine e somiglianza (che è anche evidenza della dissomiglianza) che segnala il consolidarsi della coscienza e della sua obbedienza alla relazione con Dio. Il testo di Genesi 1,26-27 rivela che “la creazione dell’uomo a immagine e somiglianza di Dio tende ad un evento tra Dio e l’uomo. Dio crea una creatura che gli è conforme, cui possa parlare e che lo possa ascoltare: egli decide di creare ciò che deve avere una relazione con lui”[17]. Una più precisa determinazione del concetto di “immagine” che superi l’attribuzione all’uomo di specifiche facoltà, l’intelligenza e la volontà, che lo separano dalla componente animale della creazione, e che si muova da una visione più precisamente aderente alla Rivelazione deve considerare che esso “sta a designare innanzi tutto un rapporto di Dio con l’uomo e soltanto in subordine un rapporto dell’uomo con Dio. L’essenza dell’uomo scaturisce da questo rapporto di Dio con lui, non da questa o quella qualità che lo differenzia da ogni altro vivente”. Più in dettaglio “secondo le tradizioni bibliche c’è davvero un luogo nel quale si manifesta, e può essere conosciuto, il rapporto di Dio con l’uomo: è il volto umano che si rende specchio di Dio”[18]. Dietro l’espressione “volto” riconosciamo, così, come l’attuazione costitutiva dell’uomo e della sua dignità è la capacità di essere un “volto”, possibilità già data e significativamente espressa dall’uso del participio passato del verbo “volgere”, che sottintende un posizionamento passivo (come realtà donata da Dio) e, insieme, un posizionarsi attivo dell’uomo, esito di questo dono, di fronte a Dio, agli altri esseri umani e alle cose. Ancora l’antropologia del volto sottolinea il suo rapporto immediato con la realtà interiore dell’uomo. La coscienza appare così segnata dall’essere l’uomo immagine di Dio, cioè volto, rivolto a Dio come essere che riceve in dono l’esistenza e la promessa di vita come dono da esplicitare nella libertà come verità di sé. Una prova della originarietà di questa accezione ed insieme del riferimento al primo apparire del fenomeno della coscienza morale è registrato dai racconti biblici del peccato. Quello della prima coppia umana (Gn 3, 8-10) provoca nel suo effetto una divergenza dal volto di Dio e la rottura della verità di questo rapporto attraverso il velo della menzogna e della paura della nudità. Ma anche quello di Caino (Gn 4, 6-7) in cui il suo volto oscurato e prostrato manifesta il disagio interiore del cuore puntualmente segnalato ancora dall’appello di Dio: “Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto?” (Gn 4, 7a).Volto e cuore appaiono così le immagini bibliche per dire della coscienza come appello rivolto alla persona nella sua integralità; ma anche come la coscienza abbia a che fare con una dimensione insieme originaria, radicale ed interiore del profilo della persona. Un significativo collegamento con il tema del discernimento può essere visto in correlazione con la dimensione fondamentale dell’etica del discorso della montagna in cui le istanze rappresentate dalle antitesi matteane, poste dall’interpretazione di Gesù alla Legge mosaica (Mt 5, 20-48), mirano, insieme al riferimento all’originario (“in principio” inteso come non solo in prospettiva cronologica, ma di radicamento esistenziale), all’interiorità e alla cura per la sua autentica preservazione che si prolunga in primo luogo nel desiderio e poi nelle azioni effettive e per la radicalità di un appello al bene che non ammette altra fondazione se non nella costituzione della persona e nella preservazione dei suoi tratti più autentici. Gli appelli del discorso della montagna, così, fanno riferimento più che ad una presunta ellitticità del rapporto tra norma e persona, al desiderio di portare alla luce questa realtà della coscienza che svela la verità e la libertà della persona nella sua evidenza originaria, nella sua interiorità e nella radicalità dell’appello del bene.
In una prospettiva dinamica può essere raccolto attorno a questo tema dell’appello all’alterità, uno dei parametri dello sviluppo dell’Io segnalati dalla ricerca psicologica, che si muove, nella sua indagine a partire dalle relazioni originarie costitutive della persona nel proprio ambiente di vita. In particolare “il parametro dell’alterità, e quindi dell’interazione, che echeggia la prospettiva socioculturale, denota l’insopprimibile tensione tra l’interno e l’esterno, tra io o sé come ‘proprio’ e altro”[19].
Così in relazione allo sviluppo religioso e della coscienza morale della persona questo parametro dell’alterità fa riferimento al discusso rapporto tra autonomia ed eteronomia morale che può essere risolto nel riconoscimento per cui la morale nasce “come norma dell’agire scaturente dal significato intrinseco delle prime esperienze spontanee del rapporto di reciprocità personale. La morale è sempre un codice di fedeltà: un codice che consente e rispettivamente impone di tener fede all’agire passato, ai vincoli con l’altro già stretti in forza di esso”[20]. In questa luce si può intendere come la morale biblica e la conseguente visione di coscienza è sempre autonoma ed eteronoma. Autonoma perché la norma è proposta alla coscienza attraverso le esperienze pratiche in cui il soggetto viene a completa conoscenza di sé. Eteronoma perché il soggetto ha da sempre bisogno di riferirsi ad altro da sé per giungere ad una completa definizione di sé. “Tra il soggetto e se stesso sta l’accadimento, e in specie sta l’incontro; sta in ogni caso quello che non dipende da lui, ma può essere a lui soltanto rivelato”[21]. Secondo la prospettiva biblica così la teonomia è la radice dell’autonomia dell’uomo ed insieme della necessità di dipendenza originaria, radicale ed intima, da Dio per ricevere la vita e per il raggiungimento del suo senso e la conservazione dei suoi significati. La presenza della norma segnala così questa teonomia per cui l’evento di liberazione dell’uomo passa attraverso di essa e non eludendola. Solo attraverso la norma l’uomo può giungere a comprendere l’opera gratuita e sorprendente di Dio su di lui. Una norma che appare il percorso offerto per giungere alla determinazione della promessa di Dio, come promessa di vita[22]. Una legge che, al di là della sua formulazione materialmente coincidente con una generica normazione di tipo umano, è comunque “atto della Parola di Dio” che chiama l’uomo a riconoscere in essa e a discernere da essa l’unica via per la sua vita.
Per una “formazione della coscienza” come appello personale
Dalle osservazioni recepite circa il discernimento come movimento di accoglienza della Parola di Dio ascoltata, che dischiude all’uomo una capacità di penetrare la propria storia di vita come luogo in cui ricercare i segni della salvezza, e della coscienza raccolta nella sua originaria costituzione “dialogica”, vengono a prospettarsi alcune indicazioni circa il compito formativo che possono essere sommariamente sintetizzate.
L’azione formativa si profila così come educazione all’ascolto di sé e come esplicitazione della verità personale attraverso lo sviluppo del dialogo con Dio. Circa l’ascolto occorre ribadire che esso è più di un fatto tecnico. È piuttosto un atto antropologico, un atto, cioè, in cui la persona si dispone nella sua globalità davanti alla Parola. L’atto di ascoltare predispone nella persona un atteggiamento globale di ricettività in cui prendono parte tutte le dimensioni che la costituiscono: la componente affettiva che polarizza l’attenzione della persona con tutto il suo mondo interiore, la sfera dell’intelligenza che permette di comprendere la Parola, cioè di tenere presso di sé quanto ascoltato come cosa preziosa per la costituzione effettiva della persona, la volontà che riapre la vita della persona a “stare dietro” alla parola perché la promessa in essa celata possa essere esibita nella realizzazione pratica della vita stessa. Lo sviluppo di questa capacità di ascolto impone anche un atteggiamento nella guida spirituale di accordarsi nella sua azione alle segrete ispirazioni dello Spirito ed insieme a riconoscere il compiersi del miracolo di un cuore educato dall’ascolto come realtà che si realizza nella vita di un fratello o di una sorella a lui o a lei affidati. Questo impone nella guida l’autenticità della sua esperienza di ascolto che lo abilita a porsi in attenzione delle mozioni che lo Spirito pone nella persona accompagnata. Così, come segnala con particolare penetratività A. Louf, il cuore dell’accompagnatore “trasale, allorché è toccato da una parola di Dio nella Scrittura, è quello stesso cuore che palpita e trasale in ugual modo quando, attraverso le parole e i sentimenti condivisi di un fratello o di una sorella, si manifesta all’accompagnatore qualcosa del desiderio dello Spirito santo che è all’opera in loro”[23].
Si impone così all’educatore il delicato compito di formare all’arte di ascoltare, aiutando la persona a ritornare presso di sé e presso la propria interiorità come luogo di risonanza della Parola ed in cui l’anelito di chiarezza circa la propria vita prende corpo. Accanto all’educazione dell’ascolto, così si pone l’opera di educazione alla “domanda” da rivolgere a Dio e alla sua Parola. C’è un domandare che segnala ancora nella coscienza il desiderio di sottrarsi all’incontro, di restare nella logica del “confronto”, per evincerne l’improponibilità dell’appello. C’è un domandare che rassomiglia alla logica dell’“affronto”, del porre in giudizio la Parola alla luce della propria personale e precaria visione di Dio. C’è infine un domandare che, al di là di ogni ansia preoccupata per l’esito di quanto verrà rivelato, è già disponibile al distacco, al lasciare la roccaforte acquisita della propria certezza. C’è un domandare che sa rischiare l’incertezza e il suo dolore e che, fidandosi della Parola, porta all’affidamento di sé alla Parola come garanzia data alla prosecuzione nella via della fede. Un’interpellazione umana capace di sorprendersi comunque della qualità della risposta divina che porta l’uomo ad uscire da sé fino al limite (confine) di sé in cui incontrare con verità e libertà il Dio della vita[24]. Educare la domanda così porta anche ad educare la qualità relazionale e dialogica della coscienza personale. C’è un dialogo di coscienza che sembra ancora prigioniero della figura dell’ingiunzione dell’Altro che chiede senza promettere. C’è un dialogo che invece porta ad un inevitabile scontro interiore tra la tendenziale espansione del proprio bisogno nella forma egoistica della consumazione dell’Altro o dell’imporsi limitante dell’Altro sulla mia libertà. C’è, infine, un dialogo che porta la persona a scoprirsi originariamente pensata a realizzare se stessa attraverso di esso ed in cui emerge come la fiducia da accordate all’Altro non è che “atto secondo”, conseguente alla libertà e alla fiducia che l’Altro ha dischiuso rivolgendosi a lei. Nell’unico spazio del dialogo la coscienza matura se stessa, anche se questa maturazione e il mantenimento del dialogo stesso, esige la consapevolezza di sé nei termini della doverosità della conversione, oggetto della considerazione seguente.
Accanto all’educazione della domanda e del dialogo si pone la corrispettiva educazione alla capacità di rispondere o corrispondere e la misura di tale corrispondenza si attua nel discernimento della volontà di Dio come atto di amore, oggetto della terza parte di questo contributo.
DISCERNIMENTO COME DINAMISMO DI CONVERSIONE
Appare altrettanto immediato, quanto il rapporto con l’ascolto della Parola di Dio, il legame tra discernimento e conversione. Il processo di conversione, in questa prospettiva, è da pensarsi come una vera e propria riorientazione continua della dimensione intellettuale, morale e teologale della propria vita a ciò che la Scrittura chiama, in modo generico, la “volontà di Dio”. Occorre pertanto, a partire da un testo capitale della riflessione di Paolo, istituire un confronto tra discernimento e conversione a partire da un’accezione ampia di essa, capace di profilarla in modo “complessivo”. Sii viene così ad abbracciare il modo di accedere dell’uomo alla comprensione di sé e del mondo, l’orientamento attraverso i beni al bene complessivo della persona e ad un’adesione piena, nella forma dell’amore di risposta, a Dio, significativamente espressa dall’obbedienza alla sua volontà, e più radicalmente, superando una rilettura estrinsecistica di questa volontà, a partire dalla conformazione cristica della propria esistenza come atto di dono da parte di Dio ed insieme di scoperta che impegna le energie spirituali dell’uomo.
Il discernimento e il dinamismo della conversione: “ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”
In un passaggio della lettera ai Romani che apre alla sezione parenetica, Paolo si impegna a collegare strettamente il discernimento alla conversione. Egli infatti mostra come “la capacità di discernere la volontà di Dio richiede una nuova sensibilità spirituale, precisamente quella che ci è data attraverso l’evento della nostra conversione”. Evento la cui “portata è antropologica, nel senso più forte del termine, poiché concerne l’uomo nella sua totalità”[25].
“Vi esorto dunque, fratelli, perla misericordia di Dio ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12,1-2).
L’esortazione paolina, fatta con l’autorità dell’apostolo e la sensibilità del fratello nella comune fede, è condotta alla luce della “misericordia” di Dio. Questa designazione mette in evidenza molto più di un semplice attributo divino “bensì la sua azione di grazia verso l’umanità peccatrice”[26] che Paolo ha sviluppato in modo argomentativo nella prima sezione della lettera attraverso la proclamazione del Vangelo di Cristo e della grazia. Così in modo simmetrico la volontà di Dio, al di là di un’astratta ed estrinseca proclamazione di un diritto di Dio sull’uomo, è precisamente che l’uomo acceda, attraverso il discernimento e la conversione, a questa esperienza di misericordia che egli ha dispiegato nella storia della salvezza del popolo ebraico, come nella coscienza di ciascuno (cfr. Rm 1, 18ss., ma più propriamente Rm 2, 14-15) e che ha realizzato compiutamente nella salvezza di Cristo. Questa significazione della volontà di Dio come misericordia è ciò che intima all’uomo la conversione possibile solo alla luce dell’esperienza dell’evento di grazia e precisamente facendo valere questa grazia come esigenza che raggiunge l’uomo e lo dispone appunto al “sacrificio di sé”, all’“offerta di sé” come tratti qualificanti in modo più preciso la conversione. Queste espressioni rappresentano un punto di riferimento obbligato per esprimere la realtà “simbolica” della fede cristiana in cui l’adesione di fede si salda nel culto e nella logica sacramentale e nella disposizione della vita secondo la dimensione del dono di sé non ridotta sbrigativamente in senso spiritualistico ed individualistico, ma a partire dalla cifra della corporeità, dalla “somaticità” come riassuntiva dell’unità della persona e delle sue relazioni mondane. Tale “offerta di sé” allora trova la sua possibilità di realizzazione attraverso il doppio imperativo espresso nel versetto 12, 2: “non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente”. Sono evidenziati un “negativo” e un “positivo” che ben configurano la dinamica di conversione verso l’“offerta di sé”. Si tratta di non assumere, fare proprio lo “schema” di questo mondo, che si applica esternamente sull’uomo snaturando la nuova realtà del cristiano, ma accogliere, nel livello più profondo e da qui nella realtà della vita somatica, la nuova immagine di Cristo nel cui mistero i cristiani sono stati inseriti attraverso la trasformazione battesimale (cfr. 2 Cor 3,18). L’esercizio del discernimento si impone così per riconoscere sia tale nuova immagine, sia quanto essa sia ancora sottoposta alla mentalità di questo secolo, profilando così il compito della conversione come impegno continuo, di vigilanza, di distanza critica, perché la libertà di fondo del cristiano non ricada nella vecchia logica del “mondo” o della “carne”. Si tratta così del “rinnovamento” della “mente”. Dietro l’espressione greca (nous) sta più di una dimensione semplicemente intellettualistica, ma sembra profilarsi lo spirito, il cuore dell’uomo in cui si determina una vera e propria “intuizione spirituale” che è posta alla “radice delle scelte del soggetto, alla capacità di valutare e vagliare attentamente per poi passare alla decisione”[27].
Il collegamento tra misericordia e volontà di Dio e quello successivo tra “offerta di sé” e “rinnovamento nella mente” viene precisato nel testo paolino con alcuni attributi che possono arricchire la nostra riflessione. Il sacrificio di sé, che nel testo viene proposto, alla luce della nuova mente e dell’immagine di Cristo impressa nel credente, nella linea dell’obbedienza al Signore Gesù, viene definito come “vivente”, “santo” e “gradito a Dio”. Questi attributi possono essere visti in correlazione con l’atto del discernimento della volontà di Dio descritto nel versetto seguente come ricerca di ciò che “buono”, “a lui gradito” e “perfetto”. Si precisa, così, come l’oggetto del discernimento della volontà di Dio sia la comprensione della nuova condizione dei credenti, non solo a partire dalla realtà del dono, ma dell’appello alla realizzazione di esso, attraverso il compimento della volontà di Dio. In dettaglio si accenna, in primo luogo, ad un sacrificio “vivente”. Dietro questa espressione c’è più che una semplice affermazione della sostituzione dei sacrifici dell’antica alleanza e del paganesimo. Si afferma che esso è compiuto a partire dalla nuova vita partecipata al cristiano nel battesimo e dunque nella pasqua di morte e risurrezione del Cristo che “da morti che eravamo per i nostri peccati, ci ha reso viventi” e in grado di camminare in una vita nuova (cfr. Rm 6, lss.). Tale caratteristica dei “viventi” designa appunto come ciò che “buono”, secondo la volontà di Dio, è precisamente che Egli non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva. Ciò che è buono davanti a Dio è che l’uomo viva davanti a lui. Così il discernimento di ciò che buono deve condurre l’uomo a convertirsi per ritrovare precisamente come “via”, e dunque come cammino di novità e come impegno etico, ciò in cui consiste la sua bontà, cioè che egli viva realizzando la propria conformazione a Cristo. Così la scelta del bene, significativamente espressione della coscienza morale, coincide con la scelta di ciò che fa vivere l’uomo davanti a Dio, con la scelta del bene complessivo della persona che è appunto la piena espressione della sua vita, attraverso la scelta di quelli che sono i beni, che orientati in una dimensione integrale, conferiscono la bontà di vita (cfr. VS 13). L’oggettivamente bene che unifica ogni coscienza credente all’imperativo della ricerca di ciò che rappresenta la vita attraverso la scelta corretta ed ordinata dei singoli beni, diventa, con la seconda caratteristica segnalata da Paolo, la personalizzazione dei beni in vista di un progetto pensato per ciascuno, che non è mai disgiungibile dalla singolarità della propria storia di vita, e che viene ad elaborasi nell’atto del discernimento di “ciò che è gradito”, di ciò che corrisponde in modo oggettivo alla soggettività singolare pensata da Dio. Si rende, così, necessario un discernimento più particolareggiato rispetto al bene della vita, quello, appunto, che porta a disporre la propria vita secondo la conformità del proprio progetto. Infine l’“offerta santa” indica come tutta la persona è destinata ad accedere alla vita santa, che va al di là dell’opposizione tra sacralità e profanità dell’esistenza, ma trova il suo corrispettivo nella “perfezione” che, nella termine greco utilizzato da Paolo, allude al traguardo finale dell’esistenza: il compimento del desiderio dell’uomo e il dono di esso da parte di Dio che fa partecipe l’uomo della sua perfezione (la “santità” come realtà propria di Dio). La volontà di Dio per la perfezione insiste così sulla forza attrattiva del fine che il discernimento deve configurare come piena realizzazione della persona. In modo analogo nella pericope evangelica del giovane ricco viene accostata una duplice volontà corrispondente al progetto di Dio sull’uomo: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti”: (Mt 19, 17) e “Se vuoi essere perfetto… vieni e seguimi” (Mt 19, 21). Il loro accostamento, in una logica progressiva o totalizzante per la persona interpellata, così porta a vedere come l’unificazione di sé è possibile solo nella forma dell’accoglienza integra ed indivisa del Dio che si è rivolto agli uomini in modo integro e indiviso nel suo figlio Gesù alla cui sequela si pone il discepolo e che sortisce, come effetto, la destinazione e la dedicazione di sé in modo integro ed indiviso al Dio dell’Alleanza e della Rivelazione e, in lui, ai fratelli[28]. Così il discernimento come conversione porta insieme alla scoperta di Dio e all’apertura di uno spazio in cui si intreccia la scelta oggettiva del bene per la vita, la scelta strategica di ciò che è gradito a lui per la realizzazione della personale sequela, e l’attrazione del compimento di sé come perfezione.
In quest’ambito, in cui il discernimento viene a precisarsi come scoperta progressiva della volontà di Dio, si apre al cristiano la prospettiva della conformazione all’obbedienza di Cristo in cui l’offerta di sé del cristiano e, dunque l’abbandono della volontà propria, trova la sua espressione positiva, superando così un deprecabile (quanto non evitato) riduzionismo di visuale che pare imporre precipitosamente all’espressione una coloritura volontaristica, al limite del vittimismo. L’atto di rinuncia alla volontà propria coincide con l’abbracciare l’obbedienza di Gesù in cui il cristiano non trova solo il modello della propria obbedienza, ma la ragione stessa di possibilità di ogni atto di ubbidienza. “Solo un vero discernimento permetterà un’obbedienza cristiana, cioè un obbedienza che riproduca quella di Cristo, accettando di andare fin dove Cristo stesso è andato, nel mistero della sua Pasqua: È stato obbediente fino alla morte (Fil 2,8). Ciò è possibile solo nel caso di un’obbedienza che coinvolga una certa profondità dell’essere […] Acconsentire a obbedire in nome dell’evangelo è qualcosa che non si può fare al di fuori della Pasqua di Cristo o senza che questa obbedienza divenga una reale partecipazione alla sua morte e resurrezione. Obbedendo così, si celebra la Pasqua di Cristo. Nel senso più forte del termine, il credente è raggiunto da questa obbedienza negli strati più profondi del proprio essere, e non è possibile che non ne esca radicalmente trasformato”[29]. Così tale nuova consapevolezza del credente per la quale la “sua” volontà sgorga da una libertà che è dono della Pasqua di Gesù fa accedere ad una comprensione, o consapevolezza di sé, formata dalla stessa coscienza obbedienziale di Cristo che si pone per il credente come misura della propria coscienza. In questa luce debbono essere viste anche le “azioni” dell’obbedienza, tradizionalmente espresse attraverso il riferimento alle indicazioni esterne di chi esercita una certa forma di autorità sulla persona, non come semplici stratagemmi per la sicurizzazione della propria coscienza, e che dunque fanno restare l’uomo in una forma di schiavitù della legge, ma come espressioni interpretative della partecipazione all’obbedienza di Gesù e comunque da sottoporre ad un’interpretazione che consenta di cogliere in modo adeguato ed evidente il legame tra le varie “obbedienze” della vita e l’obbedienza nella sua forma cristica. Partecipare all’obbedienza di Gesù significa per il cristiano la dilatazione della propria libertà, o meglio il poter disporre di una libertà più grande capace di rendere ragione (anche in una prospettiva criticamente avveduta) di quell’esercizio limitato della libertà che si impone sia attraverso il riferimento alla norma (che segnala codificandola e “misura” concretizzandola l’oggettività del bene), come alla volontà altrui per aderire più perfettamente alla volontà di Dio.
La coscienza come nuova consapevolezza di sé
L’aver accostato all’idea di discernimento l’esigenza della conversione porta a considerare un’ulteriore dimensione della coscienza morale che viene a configurarsi come una “nuova consapevolezza di sé”. Con questa dimensione si intende accogliere, ma anche integrare, la rilettura dell’accezione psicologica della coscienza come, appunto, consapevolezza di sé. Tale consapevolezza per il cristiano non si comprende se non a partire dalla novità della vita in Gesù. Nella coscienza si segnala così non una semplice risonanza dell’io, ma dell’io in quanto reso conforme a Cristo e dunque partecipe della sua coscienza filiale. In questa consapevolezza che è il frutto radicale di un processo continuo di conversione si apre all’uomo la capacità per il Bene, l’ordinamento dei beni della vita in vista della personale adesione al bene e lo spazio della vocazione come adesione integra e perfetta alla volontà di Dio.
Non può sfuggire a questo livello il delicato intreccio tra l’attenzione ad alcune dinamiche psicologiche e il quadro di fondo di un’antropologia personale chiamata a segnalare l’auto-trascendenza della persona che si coglie non solo capace di scegliere i beni, ma di ordinarli in modo complessivo per riferimento al valore e di trovare attraverso di essi il compimento buono della vita. In questa prospettiva l’“oggettività dei valori morali risulta non da una posizione di partenza preconcetta […], ma dalla constatazione di quali siano le effettive possibilità per la libertà del soggetto morale”. La consistenza interna della personalità rende possibile la scelta dei valori nella situazione come espressione di un più ampio rispetto del valore della persona stessa chiamata gradualmente alla propria maturazione attraverso l’esercizio della libertà di scegliere ed aderire al valore. Così “i valori morali portano gradualmente nell’arco dello sviluppo, se vissuti con scelte coerenti, a una struttura consistente della persona, in quanto hanno in se stessi un appello di libertà. Sono infatti la percezione soggettiva del bene morale in quanto bene per la propria realtà personale integrale”[30].
La nuova consapevolezza della coscienza così segnala una particolare competenza della libertà personale che si realizza compiutamente attraverso e al di là della scelta dei singoli beni, nella adesione personale al Bene. Si tratta di quella dimensione “verticale” della libertà che si distingue e si dispiega da quella “orizzontale”. In quest’ultima si attua l’esercizio della scelta dei beni a partire da un orizzonte all’interno del quale il soggetto si colloca. La dimensione verticale della libertà segnala, invece, il passaggio alla definizione dell’orizzonte che più adeguatamente corrisponde al proprio ideale di vita[31]. Questa nuova competenza della libertà salda insieme l’idea della coscienza con quella della conversione, intesa come atto di esercizio della libertà verticale e può intendersi anche come riconosciuta dal soggetto, nella forma di realtà donata: quella della conformazione a Cristo, a cui si faceva cenno.
Accanto a questa consapevolezza di sé come acquisizione della libertà si pone un’altra dimensione ineludibile della coscienza: quella temporale[32]. Con essa non si vuole segnalare semplicemente la gradualità del processo di formazione della coscienza verso la maturità morale, ma più profondamente l’interazione tra passato, presente e futuro nell’acquisizione della consapevolezza di sé e nell’adesione libera ad un sistema di beni pensati per il proprio compimento. Dietro ogni “presente” della persona, e sottoposto ad un suo attento discernimento, c’è un passato che non è sempre memoria grata e riconosciuta di una libertà donata, ma che spesso assume la caratteristica di un vero e proprio blocco nei confronti di ogni più ampia e radicale risoluzione della vita. Anche questo aspetto della memoria fa parte insieme del discernimento e della realtà della coscienza come consapevolezza di sé. Ma tra le righe di un presente e di un riaffiorante passato si colloca, in modo germinale, un tratto di futuro che, comunque, porta, pur dentro inevitabili necessità, i tratti dell’imprevedibilità. Essa può lasciare sgomenti e potrebbe risolversi in irrealistici utopismi di improponibili palingenesi della persona o nella conservazione di idealismi e ideologismi che chiedono al futuro la semplice conferma del proprio passato, nella ripetizione di uno schema di vita fatalisticamente subito, e non la sorpresa di vedere che in esso il già-dato è chiamato a confrontarsi con quello che è il non-ancora pensato, ma comunque già germinalmente attestato, come possibilità, dalla mia forma di vita. La coscienza morale, e il suo compimento nell’atto del discernimento che è conversione, è chiamata a questo ritorno su di sé per misurarsi nella consapevolezza del presente, nella consistenza del passato e nella capacità di futuro. Dentro questo movimento riflessivo si pone la verifica per l’apertura oggettiva di sé al Bene, che non è mai presupposta, ma che deve essere raggiunta a partire dalla storia effettiva della persona. Si può scorgere la pregnanza del presente come appello a prendere cura della disposizione dei beni per la trasparenza del Bene. Si giunge a cogliere come il discernimento è anticipazione nel presente di un giudizio che è comunque misurato sul compimento escatologico della propria esistenza verso cui la persona si indirizza attraverso l’integralità della disposizione di sé ad essere conformata al modello cristico (la cui conformazione ultima definitiva resta comunque dono e realtà escatologica).
La consapevolezza di sé segnalata dalla coscienza morale si muove così tra libertà e tempo. La libertà ed il tempo che sono attraversati comunque dal criterio della conversione. In essa si attua in modo pieno il passaggio dall’esercizio orizzontale a quello verticale della libertà, ma anche la percezione che il tempo della vita va al di là della distensione cronologica, bensì è il kairos, unico ed irripetibile per il raggiungimento della verità di sé davanti a Dio.
L’azione formativa: la sintassi della vita nella conformazione cristica
L’impegno di acquisire una profonda consapevolezza di sé e la doverosità di un processo di conversione continua in vista della conformazione a Cristo impone sia per l’accompagnatore come per la persona accompagnata un’adeguata attenzione alla considerazione della propria storia di vita come luogo del consolidarsi di questo processo progressivo di assimilazione della propria identità.
In particolare l’attenzione al tempo e alla consistenza della propria libertà, che sono stati segnalati, impongono un lavoro di articolazione sintattica tra le molteplici esperienze distese nel tempo della vita. Questa “sintassi” delle esperienze consente di misurare lo slancio possibile della libertà e ritrovare nella propria storia alcuni presupposti ad un suo dispiegamento, anche se essi non si impongono in modo deterministico così da precludere ogni possibilità ulteriore.
Tale operazione richiede in particolare alla guida spirituale l’impegno a sintonizzarsi su questo grado di consapevolezza del soggetto per evitare irrealistiche proiezioni su di lui di progetti ritagliati su modelli astratti o, addirittura preconfezionati. L’attenzione alla maturazione della consapevolezza dei valori oggettivi così appare contestuale alla articolazione di essi in un progetto che, se resta personale, non delimita in modo relativistico e soggettivistico i valori, ma nella precisa ed oggettiva loro finalità: quella di rivelare e configurare come impegnativo e promettente l’esito buono della vita. Per questo la proclamazione del valore non appare sufficiente in un corretto processo di educazione della coscienza al discernimento. Tale proclamazione avviene all’interno di una storia di vita, quella dell’educatore, e raggiunge così quella della persona accompagnata. Pertanto la proposta dei valori arriva già plasmata dall’esistenza attraverso cui la guida può articolare tale proposta e all’interno della quale l’accompagnato rileva la particolare attrattiva che essi possono avere per la sua storia. Così in ogni processo educativo appare chiaramente come sia l’educatore come l’educando siano chiamati a conversione. L’educando in quanto raggiunto da una proposta che innesca la propria libertà e l’educatore che parimenti è chiamato a liberarsi da un visione angusta e preconcetta della realizzazione del valore, per accogliere quella che corrisponde effettivamente alla reale condizione e possibilità della persona accompagnata. E questa azione non è possibile senza un fine discernimento.
Inoltre se l’obbedienza appare il binario di una corretta conversione operata dal discernimento, obbedienza che assume, come già ampiamente rilevato, i tratti cristocentrici, grande attenzione deve essere riservata a liberarla da ogni sottile forma di esercizio di dominio e di desiderio di essere dominati attraverso la sua imposizione, figura di un’obbedienza deresponsabilizzante per l’accompagnato e da parte della guida di una volontà di potenza su di lui, inespressa, ma comunque malcelata, più volte stigmatizzata dalla riflessione attuale sul tema e già rintracciabile, a livello biblico, nelle polemiche di Paolo nei confronti degli altri predicatori dell’evangelo (cfr. tra gli altri: 1 Cor 3, 4-7; 2 Cor 5, 11).
Formare la coscienza all’obbedienza significa, così, sviluppare la capacità di discernimento, nella libertà e per la libertà, per aderire ad un progetto, quello della sequela del Signore Gesù, che, impegnando totalmente l’uomo, dilata la propria esistenza e la spinge al confine ultimo della verità di sé.
DISCERNIMENTO COME APERTURA ALL’AMORE E ALLA SUA CONCRETIZZAZIONE
Un ultimo tratto del discernimento che occorre considerare, si sposta sulle determinazioni più pratiche ed immediatamente operative dell’agire a cui si collega un’ulteriore accezione della coscienza che, davanti alla doverosità e all’ineluttabilità dell’agire, si attua nella forma del giudizio di fronte all’azione concreta. Anche a questo riguardo un testo biblico di riferimento ci porta ad esplorare questa dimensione del discernimento e contestualmente a proporre alcune considerazioni circa la coscienza morale e il processo di formazione.
Discernimento per comportarsi in maniera degna del Signore
È ancora l’epistolario paolino a specificare questo ulteriore passaggio verso l’attenzione alla determinazione concreta delle singole azioni alla luce, comunque, di un orizzonte complessivo di tipo teologale. Il testo è contenuto nella sezione introduttiva della lettera ai Colossesi:
“Perciò anche noi, da quando abbiamo saputo questo, non cessiamo di pregare per voi, e di chiedere che abbiate una conoscenza piena della sua volontà con ogni sapienza e intelligenza spirituale, perché possiate comportarvi in maniera degna del Signore, per piacergli in tutto portando frutto in ogni opera buona e crescendo nella conoscenza di Dio; rafforzandovi con ogni energia secondo la potenza della sua gloria, per poter essere forti e pazienti in tutto” (Col 1, 9-10).
Ritroviamo il tema della conoscenza della volontà di Dio riletto sul duplice registro, innestato dai due campi semantici presenti nel testo, della attestazione di questa volontà e dell’incitamento alla prassi, come già segnalato nel testo di Romani esaminato poco sopra. Questo duplice piano segnala che “quello che si chiede a Dio è nello stesso tempo un progetto di vita o un modello di esistenza cristiana per il quale ci si deve impegnare”[33].
È da rilevare che questo itinerario di scoperta integrale della volontà di Dio, tradotta a livello comportamentale, produce una più profonda conoscenza di Dio. Tutto il testo allude ad una totalità, ad un’integralità che si spinge fino alla cura per “ogni opera buona” per “piacere in tutto” a Dio. La comprensione (synesis) spirituale a cui si allude può essere così raffigurata come il discernimento nello spirito capace di racchiudere dentro di sé l’attenzione per la globalità dell’agire a partire dalla considerazione della sua singolarità, che diventa parimenti il campo applicativo di questo particolare dono fatto oggetto della preghiera dell’Apostolo. Tale comprensione non è comunque possibile se non attraverso l’intensificazione della conoscenza umana, e dunque richiede una conoscenza più profonda e nuova (epìgnosis) che è dono dello Spirito.
In particolare due aspetti della vita cristiana intesa nella sua prassi concreta debbono diventare oggetto di discernimento in vista di questa resa integrale della vita alla volontà di Dio. Possono essere esemplificati dalla preghiera e dall’azione, due campi in cui si attua tradizionalmente l’azione del discernimento e la disciplina della vita. Entrambe queste sfere non sono pienamente comprensibili e determinabili nella loro concretezza per il cristiano se non sotto l’azione dello Spirito che insieme porta ad una piena conoscenza di Dio e simultaneamente alla risposta adeguata di riconoscenza. Conoscenza che è conoscenza dell’amore, risposta che è risposta di amore, tratto che unifica comunque la preghiera e l’azione a partire dalla comune caratteristica di dialogo di amore che vuole raggiungere prima Dio e in Dio il prossimo. L’unità di preghiera ed azione, cui mira il discernimento, prima di una necessità di inveramento a posteriori per evitare il rischio di spiritualismi disincarnati o attivismi che reificano il dinamismo intrinsecamente spirituale della vita cristiana, è da riconoscere per il credente come un a priori che struttura nell’unità la sua vita. Si tratta della riconoscenza, attraverso la moltiplicazione dei gesti, della loro comune origine: la dischiusura dell’amore di Dio come esperienza reale e partecipata al credente attraverso lo Spirito. Non si tratta di una semplice ed onesta coerenza, ma di una forma particolare dell’attuazione doverosa della testimonianza della scoperta di Dio e della sua volontà buona sulla vita. Non si tratta di orgoglioso auto-perfezionamento, ma del riconoscimento che ogni “aspetto della vita ha a che fare con l’amore, che si profila non nella sua genericità, ma nella sua generalità”, che si dispiega in ogni opera o che viene mortificato nell’azione cattiva e nel peccato. La ricerca della volontà di Dio attraverso una fede testimoniale non si può concepire come esibizione di una molteplicità disarticolata di atti, ma attraverso di essi, perché di essi si compone inevitabilmente la vita, si propone “di mostrare l’unica realtà che ne consente l’unificazione: l’amore”[34]. Il discernimento, allora, punterà a valutare, attraverso i singoli atti e dentro la corrispondenza alla norma che codifica il valore o la tutela di un bene particolare della persona, la misura dell’amore come misura personale e commisurata alla qualità della propria apertura di fede a Dio. Tale valutazione non può essere compresa se non a partire da una visione più ampia dell’agire atomizzato e dunque alla luce di un opzione di fede e carità cui la storia della vita è chiamata a giungere ed insieme a confermarsi nell’attenzione alla particolarità del giudizio sull’agire.
La coscienza davanti alla doverosità dell’agire
Il discernimento, che commisura sull’amore ed in vista dell’amore l’agire singolare, così si radica in una coscienza particolarmente sensibile alla sua attuazione nella forma del giudizio. La risonanza personale del comandamento dell’amore e degli aspetti ad esso collegati che vengono a delimitare globalmente l’orizzonte della vita della persona attraverso la proposizione della tutela dei singoli beni, oggetto delle singole norme, si compie a partire dalle situazioni e dal loro risvolto in-vocante e pro-vocante una risposta. Comunque il compimento della norma attraverso il giudizio della coscienza reclama che l’attuazione di essa venga compiuta nell’amore, con amore e per amore. Questo è possibile in forza della presenza dello Spirito che suggerisce l’imperativo dell’amore ed insieme ne determina la sua possibilità. Così il discernimento dello spirito si salda su di una coscienza costituita responsabile (orizzonte del dover essere) e, comunque, già in risposta (orizzonte del poter essere dello Spirito).
La coscienza vista come giudizio “segnala la cura perché ogni scelta concreta possa lasciar trasparire l’adesione al bene che va alla ricerca del giudizio corretto sul proprio agire” come forma di inveramento e di verifica della bontà e dell’adesione alla volontà di Dio. “La coscienza morale che lavora per giungere a decisioni corrette ed illuminate dai principi oggettivi rivela che ogni persona, per mantenere vitale il proprio rapporto con Dio, è chiamata a sviluppare la fedeltà a partire dalle quotidiane sfide della vita nelle quali l’altezza dell’intenzione è chiamata a confrontarsi con l’efficacia storica dell’agire”[35]. Il momento applicativo della coscienza come giudizio si pone sia davanti all’azione da compiere come valutazione previa della sua qualità morale, sia come valutazione conseguente all’agire per rivelare in esso la “consolazione” per l’azione buona compiuta, o il “rimorso” e l’impegno a ritornare su di sé in vista di una determinazione futura conforme alla rettitudine dell’agire. Anche in questo campo, il discernimento consente di fuoriuscire da una visione tecnicistica del giudizio di coscienza, per abbracciare un senso maggiormente rispettoso della qualità spirituale del soggetto.
Non va dimenticato, però, che questo lavoro della coscienza, proprio nella misura in cui è chiamato a misurarsi con l’efficacia storica dell’agire, può non apparire simmetrico e consequenziale nel passaggio dall’adesione in profondità al bene alla sua esteriorizzazione nell’azione. Gradi di impegno diverso sono certamente richiesti davanti alle molteplici azioni di cui si compone la vita, ma la sfasatura nella dinamica applicativa dell’amore segnala come costitutivo per la persona un certo grado di oscillazione tra gli stadi della propria maturazione morale che si traduce non solo a livello motivazionale ed intenzionale, ma anche nella fase di realizzazione della singola scelta. Una stessa persona può esprimere anche logiche differenti di maturità morale davanti a scelte diverse, ad applicazioni appartenenti a campi diversi e che dovrebbero essere unificati dall’orizzonte della realizzazione del comandamento dell’amore. Questa riflessione, la cui analisi più pertinente compete, comunque, alla scienza psicologica, è importante in vista sia dell’attenzione alla forma del giudizio di coscienza, sia in modo più globale in vista di un’apertura del discernimento dalla concreta situazione ad un discernimento complessivo circa la propria vita come nel caso della maturazione vocazionale. A tal riguardo si impongono alcune stringate considerazioni in ordine alla dinamica formativa.
Formare la capacità di giudizio e l’analisi del vissuto
Si tratta di passare nell’azione formativa dall’attenzione agli elementi sintattici agli aspetti più analitici dell’esperienza spirituale e morale della persona. Occorre, pertanto, far maturare una capacità di analisi del vissuto che si attui a partire dalle scelte concrete aiutando a cogliere in esse quegli elementi di continuità con un progetto o un’opzione di fondo che va costituendosi e quegli elementi di discontinuità che facilmente si è portati a coprire attraverso il meccanismo della deresponsabilizzazione o della esibizione di scusanti.
Il clima in cui condurre questa operazione non sarà tanto quello di un’ispezione vivisezionistica, ma, mostrando l’articolazione corretta della scelta sulle motivazioni di fondo, dovrà portare ad una più circostanziata definizione della verità di sé attuata nelle forme pratiche e molteplici dell’agire. Tale analisi ha trovato e trova una sua forma particolare nel giudizio o nell’esame di coscienza la cui importanza è collegata alla capacità di ritorno sereno e pacifico della persona su di sé attraverso un opportuno distacco da quegli aspetti emozionali che possono tradire un falso senso di colpa e condurre ad un disagio profondo la persona. Lo sviluppo di questo processo esige nel formatore la capacità di creare uno spazio di sospensione tra il soggetto ed il suo agire nel quale possa maturare il criterio per un discernimento adeguato non solo della qualità corretta o scorretta dell’azione, ma anche di un’equilibrata considerazione delle intenzioni e delle motivazioni e delle loro relazioni reciproche sull’agire effettivo.
L’analisi deve anche vertere sulla capacità del soggetto di elaborare un giudizio morale in situazione verificando la conoscenza della norma e della sua estensione nell’azione come misura che esprime adeguatamente la propria personale adesione al bene, e che comunque non può essere elusa. Inoltre l’attenzione all’analisi deve segnalare le disfasie tra questo momento e il profilo sintetico dell’agire, cioè tra la ricerca dei significati nell’agire e il riconoscimento del senso complessivo della persona. Significati e senso sono grandezze afferenti reciprocamente, ma comunque differenti. Il senso complessivo va alla ricerca dei significati, i significati da soli non dicono nulla se non unificati in un senso complessivo. Si profila, accanto alla forma buona della correlazione tra senso e significati, la possibilità di alcune forme difettose di essa. Quella che disperdendosi nei significati si illude di aver risolto il problema del senso e che genera un clima di sperimentalismo ad oltranza dei significati o l’attribuzione ad essi di dire, da soli, semplicemente perché posti, il senso pieno della persona. Ma anche quello della custodia presuntuosa di un senso già deciso a monte rispetto ai significati e che li seleziona o porta a non ritenerli così decisivi per la definizione non astratta del senso[36]. L’attenzione dell’analisi del rapporto tra senso e significati così si impone come esercizio sia per l’accompagnatore come per chi è accompagnato.
Non va dimenticato, infine, come il processo che dalla organizzazione sintattica si distende nell’analisi del vissuto è compiuto dal cristiano nello Spirito Santo che presiede ad ogni operazione e che deve essere riconosciuto nel suo protagonismo in ordine alla vita morale e spirituale complessiva. Tutta l’operazione analitica è condotta nello Spirito e alla luce della sua unctio magistra che ammaestra il credente in ogni cosa (cfr. 1 Gv 2, 27) e solo a partire dal quale il credente può imparare a “giudicare da sé” e a “distinguere il meglio” (cfr. Fil 1, 9-11). L’attenzione alla qualità della vita nello Spirito (cfr. Gal 5, 12 ss.) si segnala così attraverso il segno dell’abbandono delle opere della carne che, moltiplicandosi, disperdono e separano la persona dalla verità di sé e l’accogliere il frutto dello Spirito con il complesso delle sue virtù. Un’analisi del vissuto non può che portare alla considerazione del tessuto delle virtù che compone la vita del cristiano e della centralità della prudenza e della sapienza alla luce delle quali il cristiano sa commisurare il proprio agire sia sulla dimensione oggettiva del corrispondere alla norma, come sulla misura soggettiva della personale “statura” e “maturità in Cristo”[37].
CONCLUSIONE: MATURITÀ E VOCAZIONE
L’itinerario del discernimento e della maturazione della coscienza che è stato proposto dà già ragione del tema della maturità umana e spirituale che contribuisce a chiarire la dinamica della ricerca vocazionale. Dentro ciascun ambito si cela una verità della maturità cristiana aperta alla dimensione vocazionale della vita da discernere ed attuare come opzione di vita. Cifra emblematica della maturità cristiana è l’espressione contenuta nella lettera agli Ebrei: “il nutrimento solido invece è per gli uomini fatti, quelli che hanno le facoltà esercitate a distinguere il buono dal cattivo” (Eb 5, 14).
Anche in questo testo in modo significativo si correla l’azione del discernimento con una qualificazione particolare della coscienza morale: la capacità di distinguere il bene ed il male, alla luce del criterio di maturità (espresso dal greco teleioi che abbiamo già trovato nel testo di Rm 12, 1-2), dell’uomo compiutamente sviluppato in tutte le sue dimensioni e possibilità. È, così, da ritenere segno di perfezione e maturità la capacità di esercitare nel discernimento la comprensione di tutto ciò che è il bene e il male della persona e del suo agire, operazione che è propria della coscienza morale. La maturità come capacità di distinguere e, dunque, di aderire e perseguire il bene può corrispondere a quanto è stato percorso dalla nostra riflessione.
Quello che in questo itinerario è stato profilato come la capacità della persona attraverso l’ascolto della Parola di non essere rinchiusa nella prigione di un insopportabile ed angosciante monologo interiore, ma di scoprirsi come immagine di Dio aperta ad un dialogo che porta a galla la reale consistenza di sé. Quello che è stato riconosciuto come l’esigenza di applicarsi all’esercizio della conversione per ritrovare l’autentica consapevolezza di sé che si attua nella forma libera della sequela del Cristo obbediente. Quello infine che è stato segnalato come criterio generale per la persona: diventare custode della qualità buona della propria vita, grazie alla presenza dello Spirito, attraverso la cura per il proprio agire.
L’azione del discernimento che apre la coscienza del credente a questa maturità diventa contestualmente esercizio di ricerca vocazionale. Ricerca vocazionale come capacità di sintonizzazione sulla prospettiva di appello che il dialogo con Dio apre, un appello che è già carico di promessa per il futuro. Ricerca vocazionale come maturazione di questa consapevolezza della novità di vita e della sua attuazione nel tempo unico dell’esistenza attraverso un’opzione vitale, e la scelta di un preciso stato di vita. Ricerca vocazionale che diventa attuata attraverso un atto libero, intensivo ed espressivo della persona che attrae a sé l’agire complessivo e lo carica dell’esigenza di esprimerla adeguatamente estendendosi a tutte le dimensioni e le scelte della vita stessa. Tutto questo è il buono che l’uomo maturo discernendo può cogliere, misurare sulla propria vita e lasciare esprimere in essa. Tutto questo è ciò che corrisponde alla vita e alla perfezione che Cristo ha sintetizzato nella sequela incondizionata a lui.
Note
[1] L’osservazione rielabora alcune tesi offerte dal convegno promosso dalla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale sul concetto di formazione come imperativo pastorale (25-26 febbraio 1997). In attesa della pubblicazione degli Atti, una sintetica, anche se parziale, presentazione di alcuni contenuti proposti è rintracciabile in P.D. GUENZI, In che direzione formare le coscienze?, “Settimana”, 16 marzo 1997, 10-11.
[2] P.A. SEQUERI, L’educazione della coscienza cristiana, in DIOCESI DI NOVARA (a cura di), Seguire Gesù il Signore: i fondamenti della morale cristiana, Novara 1995, 107-8.
[3] ID., 112.
[4] ID., 106.
[5] A. BARRUFFO, Discernimento, in S. DE FIORES – T. GOFFI (a cura di), Nuovo dizionario di spiritualità, Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1985, 419.
[6] M. RUIZ JURADO SJ, Il discernimento spirituale. Teologia, storia, pratica, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1997, 22.
[7] Per un approccio al tema del discernimento condotto sul filo dell’effettiva difficoltà dell’uomo contemporaneo a situarsi davanti alla scelta, irretito da mille fattori di indecisione, ma comunque chiamato a darsi ragione del perché e del per che cosa vivere, attraverso l’attenzione per le sue azioni quotidiane si può vedere: G. ANGELINI, Le ragioni della scelta, “Sympathetica”, Qiqajon, Bose Magnano (Bi) 1997.
[8] A. LOUF, Generati dallo Spirito. L’accompagnamento spirituale oggi, Qiqajon, Bose Magnano (BI) 1994, 23. Alcuni esempi dalla tradizione patristica necessiterebbero di un accostamento in vista della chiarificazione di questo aspetto. Possono essere così affrontati gli scritti di Evagrio Pontico (346-399), tra cui il Trattato pratico sulla vita monastica (ed. it a cura di L. Dattrino, “Collana di testi patristici, 100”, Città Nuova, Roma 1992), Gli otto spiriti della malvagità. Sui diversi pensieri della malvagità (ed. it a cura di F. MOSCATELLI, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1996) e soprattutto il cosiddetto Antirrheticus (PG 40, 1219-1286; PG 79, 1093-1140. 1145-1234 oppure nell’ediz. di W. Frankenberg, Berlin 1912), cioè il “Contestatore”, nel quale vengono proposti una silloge di brani scritturistici a confutazione e correzione degli spiriti del male, quasi a significare che la semplice audizione della Parola funga da criterio e da esercizio di discernimento. Sulla figura di Evagrio come “accompagnatore spirituale” si può vedere: G. BUNGE, La paternità spirituale nel pensiero di Evagrio, Qiqajon, Bose Magnano (BI) 1991. In questa direzione, pur se con finalità immediatamente costruttive e di prospettazione della globalità della vita spirituale, possono essere lette le Regole morali di Basilio di Cesarea (329-379) in cui lo sviluppo della pratica ascetica, compendiata in una serie di sintetiche affermazioni, è corredata dall’accostamento diretto di tipo interpretativo a passi delle Scrittura la cui presentazione dà ragione della loro capacità effettiva di stabilire il giusto peso ed il giudizio sul comportamento. Cfr. l’edizione italiana con ampio corredo di introduzione e di apparati critici: BASILIO DI CESAREA, Regole morali, (a cura di U. Neri), “Spiritualità nei secoli, 53”, Città Nuova, Roma 1996.In questa prospettiva del discernimento può essere collocata la diàthesis con cui Basilio designa la disposizione dello Spirito che correttamente orientato dà ragione anche della sincerità e della giustizia dell’opera esteriore, suggerendo così come tipica del cristiano la capacità di correlare l’intenzione profonda dell’agire con l’efficacia dell’azione stessa (cfr. Reg. XLIII, 1.27, Ed. cit.. 132-133).
[9] A. LOUF, op. cit. 24.
[10] Per un sintetico commento a questo testo cfr. R. FABRIS, Le lettere di Paolo 3, Borla, Roma 1980, 599-602.
[11] A. LOUF, op. cit., 25-26.
[12] R. FABRIS, op. cit., 602.
[13] R. FABRIS, op. cit., 601.
[14] Cfr. la loro recensione nell’introduzione di C. Bresciani in: A. MANENTI – C. BRESCIANI, Psicologia e sviluppo morale della persona, “Psicologia e formazione, 9”, EDB, Bologna 1993, 950.
[15] G. ANGELINI, La coscienza morale del cristiano, Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale, Anno Accademico 1995-96, Appunti ad uso degli studenti, 19.
[16] G. MOIOLI, Il peccatore perdonato. Itinerario penitenziale del cristiano, “Quaderni spirituali, 3” Saronno 1993, 52-53.
[17] E. BIANCHI, Adamo dove sei? Commento esegetico-spirituale ai capitoli 1-11 del libro della Genesi, Qiqajon, Bose Magnano (BI) 1994, 138.
[18] J. MOLTMANN, Dio nella creazione. Dottrina ecologica della creazione, “Biblioteca di teologia contemporanea, 52”, Queriniana, Brescia 1986,258-259. Il tema è percorso, tra gli altri, da Ambrogio nel suo Commento sui salmi: “Perché nascondi il tuo volto?” (Sal 43, 25). O meglio: anche se distogli lo sguardo da noi, rimane ugualmente in noi l’impronta luminosa del tuo volto” (cfr. Sal 4, 7). “La teniamo nei nostri cuori e risplende nell’intimo dello spirito: nessuno, infatti, può sussistere, se tu distogli completamente da noi il tuo volto” (Sal 43,90: CSEL 64, 326). Ancora: “Che cos’è, infatti, l’uomo se tu non lo visiti? Non dimenticare pertanto il debole. Ricordati, o Signore, che mi hai fatto debole, che mi hai plasmato di polvere. Come potrò stare ritto, se tu non ti volgi continuamente per rendere salda quest’argilla, di modo che la mia solidità promani dal tuo volto?” (De interpellatione David, IV, 6, 22: CSEL 32/2, 283). Superfluo richiamare gli studi di E. Lévinas che hanno messo a tema la questione del volto e dell’alterità (cfr. in part. Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, “Di fronte e attraverso, 92”, Jaca Book, Milano 1980). Per una ricostruzione del suo pensiero morale si può vedere: B. BORSATO, L’alterità come etica. Una lettura di Emmanuel Lévinas, “Fede e storia, 25”, EDB, Bologna 1995.
[19] F. IMODA, Sviluppo umano. Psicologia e mistero, Piemme, Casale Monferrato 1993, 289.
[20] G. ANGELINI, Autonomia ed eteronomia dell’uomo, “Rivista del clero italiano”, 74 (1993) 14.
[21] Ibidem.
[22] Questo è vero in riferimento sia alla norma primordiale di Gn 2, 16: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché quando tu ne mangiassi, certamente tu moriresti”, come alle “dieci parole” di Es 20,1-17 consegnate all’obbedienza dell’uomo perché prosegua il cammino della vita. In questo senso la coscienza come “voce di Dio” e costituita per l’accoglienza e l’osservanza dei cosiddetti principi della “legge naturale” trova una sua fondazione più piena.
[23] A. LOUF, op.cit., 26.
[24] Cfr .P.D. GUENZI, Anche la fede ha problemi di qualità, ‘Vocazioni’, 14/1 (1997) 19.
[25] A. LOUF, op. cit., 27-28.
[26] G. BARBAGLIO Le lettere di Paolo 2, Borla, Roma 1980, 463.
[27] G. BARBAGLIO, op. cit., 467-8.
[28] Cfr. G. LOHFINK, Per chi vale il discorso della montagna? Contributi per un’etica cristiana, Queriniana, Brescia 1990, 68-75.
[29] A. LOUF, op. cit. 30.
[30] C. BRESCIANI, op. cit., 43.
[31] Cfr. J. DE FINANCE, Saggio sull’agire umano, “Teologia e Filosofia, 21”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992, 263-288.
[32] Cfr. per un approfondimento: P.D. GUENZI, La dimensione etica della scelta di vita irrevocabile, ‘Vocazioni’, 9/1 (1992) 17-22; e ID. La condizione dell’adulto: destino fede e vocazione, ‘Vocazioni’, 13/3 (1996) 24-30.
[33] R. FABRIS, Le lettere di Paolo 2, Borla, Roma 1980 75.
[34] P.D. GUENZI, Anche la fede ha problemi di qualità, ‘Vocazioni’ 14/1 (1997) 22.
[35] P.D. GUENZI, Educare la coscienza, oggi educando l’amore, ‘Vocazioni’ 14/1 (1996) 25.
[36] In questa luce possiamo trovare la critica della VS ad alcune teorie circa la coscienza e l’opzione fondamentale contenute nei nn. 54-70.
[37] Resta comunque inevasa l’esplorazione della virtù della prudenza come ulteriore qualificazione insieme del tema della coscienza e del discernimento. Va notato che in connessione a questa virtù Tommaso pone la discretio spirituum (cfr. S. Th. I-II, 65, 1; 111, 4). Per una presentazione del tema del discernimento in Tommaso si può vedere: M.R. JURADO, Il discernimento spirituale. Teologia, storia, pratica, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1997, 91-96. Circa il rapporto tra vita nello Spirito e vita virtuosa sommarie riflessioni possono essere recepite in P.D. GUENZI, Vita nello Spirito, vita virtuosa e maturità vocazionale: l’obiettivo della direzione spirituale per l’orientamento vocazionale, in AA.VV., Direzione spirituale, maturità umana e vocazione, “Venite e vedete, 5”, Ancora, Milano 1997,9-46.