N.05
Settembre/Ottobre 1998

Spirito, anima e corpo: dinamismi umani e discernimento vocazionale nella direzione spirituale

 

LA DIREZIONE SPIRITUALE PER IL DISCERNIMENTO VOCAZIONALE

 

Uno dei compiti qualificanti la Direzione Spirituale (D. Sp.) è facilitare nella persona del chiamato un adeguato discernimento vocazionale. Occorre infatti che la Guida Spirituale (G. Sp.) aiuti il chiamato a raggiungere un duplice obiettivo:

– trovare la sua vera strada nella vita, tra le varie possibili, quella corrispondente al disegno di Dio su di lui: la vita consacrata o impegnata e il matrimonio sacramento. Ciò richiede un’opera duratura di discernimento e orientamento spirituale e vocazionale;

– poter percorrere la propria strada, una volta individuata, lungo le varie tappe, secondo un andamento non sempre lineare. È allora che la risposta vocazionale, a poco a poco, prende corpo e si sviluppa come cammino vocazionale.

 

Saper aiutare a dare genuine risposte vocazionali come una necessità

Da parte della G. Sp. saper aiutare il chiamato a dare risposte vocazionali adeguate è una necessità. Fa parte della sua competenza e serietà professionale. Costituisce una necessità imprescindibile. Si tratta anzitutto di individuare le varie realtà presenti nella persona, per poi coltivarle per quello che sono effettivamente, non per quello che appaiono. Contemporaneamente occorre individuare gli elementi costitutivi della vocazione per poi coltivarli. Questa azione di discernimento è richiesta da varie istanze.

– Anzitutto dalla natura stessa della vocazione. Essa è realtà umano – divina. La risposta umana alla chiamata divina risente di tante ambivalenze presenti nella persona. Senza un adeguato lavoro di discernimento, si resta esposti alle illusioni ricorrenti nella vita spirituale sia nella persona chiamata, che nella G. Sp. La scelta vocazionale allora rischia di venir fatta su basi incerte, insicure, precarie. Le prove immancabili della vita metteranno a nudo tale terreno poco affidabile, con le relative conseguenze.

– È richiesta poi dalla stessa Parola di Dio. Essa parla di terreni diversi che ricevono la Parola di Dio. Solo il terreno buono le consente di fruttificare.

– È richiesta dallo stesso magistero. Ripetutamente esso mette in guardia dalle facilonerie educative e chiede un accurato lavoro di discernimento tra i frutti della carne e quelli dello spirito.

 

Poter aiutare a dare risposte vocazionali adeguate come un problema

Tuttavia aiutare ad operare un adeguato discernimento non è facile, non va da sé, non è automatico. Zone d’ombra di varia natura si frappongono.

– Zone d’ombra nel chiamato. Ci sono con frequenza persone animate da condotte conformistiche, oppure persone “come se”, che traggono in inganno o altre persone refrattarie alla proposta educativa. La ricerca del bene reale spesso finisce nel bene apparente. Compiacenza e identificazione non internalizzante possono facilmente trarre in inganno la persona chiamata e la stessa G. Sp.

– Zone d’ombra nella Guida Spirituale. La stessa Guida può ingannarsi sulla vera portata di vari elementi presenti sia nel chiamato che in se stessa. A volte ci sono difficoltà a cogliere nel chiamato gli elementi effettivamente presenti, al di là delle apparenze immediate. Ad esempio: le rimesse in discussione della vocazione da che cosa provengono? Da dove proviene la distorsione della realtà, fino ad un’alterazione? Altre volte ci sono difficoltà a vederci chiaro in se stessa come G. Sp. e a gestire gli elementi trasferenziali presenti in ogni relazione d’aiuto, sia spirituale che più in generale. Cfr. le idee sbagliate di uomo, ad esempio: le tre illusioni ricorrenti: intellettuale, morale, sentimentale; sono illusioni perché non si colgono i reali termini in campo su come stanno le cose e su come dovrebbero andare; oppure le attribuzioni di cattiva volontà quando invece è in campo una propria scarsa attitudine educativa o preparazione, a volte anche inettitudine.

 

La prospettiva pedagogico-spirituale: come predisporre il terreno all’accoglienza?

L’uomo nella D. Sp. per l’orientamento vocazionale può essere utilmente visto da diverse prospettive.

– La prospettiva teologica parte dal dato rivelato e, attraverso la riflessione razionale, precisa i termini di un’antropologia teologica.

– La prospettiva filosofica, articolata nelle sue varie correnti, parte dalla riflessione sull’uomo e offre un’antropologia filosofica.

– La prospettiva psicosociale parte dall’osservazione empirica a livello fenomenologico e offre un’antropologia psicosociale. Mira alla scoperta delle strutture e delle dinamiche psicosociali all’opera nella concreta persona e gruppo, in vista sia di un accrescimento, sia di una guarigione. Dato il suo limite e la sua ricchezza, occorre che essa precisi il quadro teologico e filosofico entro cui si muove.

Ognuno di questi approcci offre un apporto arricchente la comprensione della realtà uomo. Ciascuno è ad un tempo diverso e specifico, convergente e complementare rispetto agli altri. Nessuno ha un’esclusiva in proprio su tutto il quadrante… Per lo scopo di questo studio noi ci collochiamo dal punto di vista psico-pedagogico. Su questa prospettiva convergono le altre angolature in vista dell’obiettivo del discernimento e crescita spirituale e vocazionale. Occorre tener presente che aiutare a dare risposte vocazionali adeguate non è riempire un vaso di nozioni, di raccomandazioni, di precetti, di divieti. La persona da educare non è un contenitore da riempire. Occorre invece accendere una fiamma e alimentarla; è necessario facilitare la germogliazione e la crescita di un seme; per questo occorre predisporre il terreno di accoglienza. Questo seme viene sempre e solo da Dio, tramite anche la collaborazione umana.

 

 

 

LA CAPACITÀ PERSONALE DI AMARE E DI RISPONDERE 

COME LUOGO DELLA RISPOSTA VOCAZIONALE

 

Per poter facilitare la risposta vocazionale occorre lavorare su ciò che effettivamente costituisce il luogo della risposta vocazionale.

 

La capacità di amare e di rispondere: “Spirito, anima e corpo”

Ora nella concreta persona il luogo della risposta vocazionale è la capacità e la libertà di amare e di rispondere, aperta alla trascendenza per l’amore teocentrico. È questa che va pedagogicamente e pastoralmente favorita per consentire una risposta vocazionale affidabile, cioè libera, responsabile, generosa, conforme al disegno di Dio, graduale in rapporto all’età.

 

Promuovere un’attitudine, la capacità di libertà

Si tratta di promuovere la capacità o l’attitudine così che la persona possa essere operativa, e la libertà effettiva come una sorgente libera di sgorgare a pieno in rapporto a due realtà centrali:

– la capacità e libertà di amare in senso forte cioè di saper amare, di lasciarsi amare e di viversi come amabili;

– la capacità e la libertà di rispondere ad un’interpellanza percepita in vario modo alla chiamata di Dio. E tutto questo per amore e con amore prevalentemente allocentrico.

 

La libertà effettiva e lo psichismo personale

Il luogo della risposta vocazionale è dato perciò da ciò che sta alla base della capacità di rispondere, da ciò che costituisce la persona nei vari settori, dal terreno là dove si radica e si sviluppa la sua libertà effettiva di rispondere. In particolare è dato dalle strutture psichiche e dalla dinamica all’opera nella concreta persona sia a livello conscio che inconscio. È qui che si radica e si sviluppa, o meno, la capacità di amare e di rispondere alla chiamata, cioè la persona con ciò che essa è e come funziona.

 

“Mente, cuore, volontà e corpo”

In particolare ciò che emerge dai vari apporti è che il luogo della risposta vocazionale della concreta persona si situa là dove ciascuno è mente e cuore, volontà e corpo, in unità organica e dinamica con tutte le varie dimensioni costitutive della persona. La richiesta di Gesù circa il primo comandamento, come nucleo della risposta vocazionale, è precisa e inequivocabile. Lo indica allo scriba saggio che lo interrogava sul primo comandamento (Mc 12,30-31): “Amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso… Fa’ questo e vivrai”. Gesù parla di una totalità, di una necessaria disponibilità piena ad amare con tutto il cuore, la mente, la volontà, la forza. Non ammette vie di mezzo, sconti o facilitazioni da tempi di liquidazione di fine stagione.

 

Il problema pedagogico: come educare la capacità d’amare e di rispondere?

Di fronte a questa sua richiesta pressante sorge una domanda: qual è la condizione concreta di partenza del chiamato, cioè del suo cuore, della sua mente, della sua volontà, delle sue forze? Effettivamente quanto queste dimensioni costitutive della persona sono disponibili? Di fatto il cuore quanto è libero di amare? L’affettività quanto è sviluppata? In che direzione prevalente si muove l’intelligenza? E la volontà quanto è messa in grado di svolgere il suo compito? Così pure il corpo. La condizione concreta di ogni persona varia. Va da un’indisponibilità di fatto o da un minimo di disponibilità ad un buon grado di disponibilità fino alla piena responsabilità, con tante gradazioni intermedie. Ciò va verificato nelle singole persone. Occorre tener presente che questa capacità non si improvvisa. Non va da sé. Occorre promuoverla per facilitare la collaborazione personale all’azione della Grazia nell’orientamento vocazionale. Per raggiungere questo scopo ci sono varie tappe intermedie da percorrere. Per poter facilitare un genuino orientamento vocazionale è necessario partire sia dalla Parola di Dio, sia in particolare dalla concreta realtà della persona e procedere verso la crescita, verso la totalità richiesta[1]. Perciò obiettivo della G. Sp. è aiutare il chiamato a conoscere, a discernere e far maturare quei fattori umani che predispongono il terreno della persona chiamata alla crescita del germe vocazionale; come pure aiutare a ridurre o a togliere quelli che lo ostacolano. Si tratta di educare la capacità di rispondere della concreta persona.

 

L’interazione grazia e libertà

Ora per poter perseguire questo obiettivo occorre tener ben presenti due istanze tra loro in profonda connessione e interazione.

– Da un lato occorre affermare la supremazia della grazia sulla natura. Dio è e resta sempre il per primo nel prendere l’iniziativa vocazionale, nel procedere lungo le tappe, nel portare a compimento il cammino vocazionale.

– Dall’altro occorre lavorare sull’interazione libera Dio – uomo nella vocazione. L’azione della Grazia non va pensata miracolisticamente. Essa non toglie prodigiosamente tutti gli ostacoli. Interagisce strettissimamente con la libertà umana, rispettandone le dinamiche di crescita, senza vincolarsi a queste in assoluto.

 

Da questa necessità e da questi freni emerge un serio problema educativo spirituale:

– Chi è e come va pensato l’uomo concreto nella D. Sp. per l’orientamento vocazionale? Quale realistica immagine di uomo occorre farsi, come va pensata la persona del chiamato, in vista di un orientamento vocazionale tramite la D. Sp.? Quale spessore ha la realtà uomo di cui tener conto per poter operare, valida per l’orientamento vocazionale?

– Quali sono gli elementi in gioco nel discernimento vocazionale, in azione sia nel chiamato che nella Guida? Quali sono i fattori umani che predispongono il terreno alla crescita del germe vocazionale? Quali sono quei fattori umani che soffocano la crescita del germe vocazionale?

 

Un’azione educativa radicata nella persona

Per poter aiutare il chiamato nel suo discernimento e orientamento vocazionale occorre perciò che la G. Sp. conosca anche i principali elementi personali in gioco nella risposta vocazionale; e che interagisca con le condizioni del terreno della risposta. È necessario che tenga presente e interagisca con l’effettivo spessore antropologico della concreta persona, pena il mancare l’aggancio indispensabile, l’attracco necessario per una risposta adeguata e per la relativa crescita entro la libertà. 

Ora in riferimento alla realtà uomo nell’orientamento vocazionale ci sono alcune acquisizioni antropologiche che costituiscono un punto di partenza imprescindibile, pena un servizio di D. Sp. poco adeguato. Riguardano la conoscenza delle strutture e del funzionamento della psiche umana entro un quadro antropologico teologicamente comprovato.

 

 

 

GLI ELEMENTI PERSONALI IN GIOCO NEL DISCERNIMENTO VOCAZIONALE

 

La descrizione degli elementi personali in gioco nel discernimento vocazionale è stata fatta da varie angolature prospettiche, più o meno comprensive della totalità della persona, e più o meno di aiuto in campo pedagogico – spirituale. Tra quelle emerse finora, quella più aderente alla realtà antropologica così come la conosciamo oggi, e quella educativamente più utile, teologicamente comprovata, mi sembra quella dell’“autotrascendenza nella consistenza”, arricchita da vari ulteriori apporti. Questa può essere utilmente approfondita tramite alcuni testi attualmente molto usati, ad esempio: CENCINI A. – MANENTI A., Psicologia e formazione, EDB, Bologna 1985, oppure RAVAGLIOLI A., Psicologia, Piemme, Alessandria 1992. 

I principali punti sono i seguenti.

 

Una concezione olistica e dinamica della persona

Anzitutto per comprendere l’operare umano c’è la necessità di una concezione adeguata della persona per ciò che essa è e per come funziona. I principali tratti sono i seguenti.

 

Una concezione olistica e unificata: l’agire umano, compreso il discernimento, è comprensibile solo entro una concezione olistica e unificata, entro l’organismo umano. Noi non funzioniamo a settori, a compartimenti stagni, ma in modo unitario e sistemico. Ogni settore è collegato con il resto dell’organismo da cui riceve sia un’azione di aiuto che di freno.

 

Una concezione dinamica e integrale: all’origine della scelta/decisione c’è una pluralità di motivi, a volte tra loro contradditori. Eccetto i casi patologici, ogni scelta umana nasce sempre da motivazioni consce ed inconsce ed è diretta dall’io, ma fino ad un certo punto, come lo dice l’esperienza quotidiana. Infatti non tutto ciò che siamo è presente alla coscienza; anzi una parte più o meno estesa di sé è sottratta alla coscienza di sé. I livelli della coscienza di sé vanno dal conscio al preconscio all’inconscio o subconscio.

La raffigurazione dello spessore, dell’articolazione e del rapporto tra questi livelli, secondo il noto schema di Johari, è costituito dalle seguenti aree: l’area pubblica, costituita da ciò che io so di me e che pure gli altri sanno di me. Su quest’area c’è apertura e libertà; l’area cieca, costituita da ciò che non so di me e che invece gli altri sanno di me. Su quest’area vige una certa attenzione, a volte sospettosità; l’area segreta, costituita da ciò che io so di me, ma che gli altri ignorano. Su questa si esercita una vigilanza più o meno rigida; l’area subconscia, costituita da ciò che di me né io, né gli altri conoscono. Questa area è conoscibile indirettamente, per inferenza a partire dai segnali emessi dall’inconscio.

Perciò, in vista di un positivo discernimento vocazionale, non basta una concezione illuministica (solo ragione – intenzione – volontà); né basta una concezione freudiana (solo affettività – emotività – inconscio – impulsi – contro impulsi), né una concezione behavioristica (solo stimolo – risposta). La scelta umana va vista entro una concezione olistica, unitaria, sistemica dinamica della persona. Questa concezione riconduce tutte le manifestazioni della psiche appunto nel concetto di un io unificato, sistemico e dinamico È questo il campo della libertà personale effettiva: un io olistico e dialettico, strutturale e finalistico.

 

I principali dinamismi e strutture della persona umana

L’uomo concreto, cui ci si rivolge come G. Sp., o che si rivolge a noi come discepolo, è costituito e funziona secondo le acquisizioni comuni della psicologia dinamica. I principali punti di riferimento sono i seguenti.

 

Io attuale, io ideale e identità di sé

La persona è costituita da un io attuale e da un io ideale tra loro in stretta interazione. L’io attuale è costituito dal concetto di sé o io manifesto, dall’io sociale e dall’inconscio.

 

L’io ideale è fatto dall’io ideale personale e dall’io ideale istituzionale.

L’io attuale e l’io ideale nel loro insieme danno luogo all’identità di sé. Questa va da un’identità sana e consistente a quella detta diffusione di identità. L’identità a sua volta può essere così, cioè diffusione di identità, a causa di alcune o di molte inconsistenze centrali, di conflitti inconsci interferenti sulla motivazione ad agire.

 

I bisogni ed i valori

Questi conflitti sono originati dal rapporto tra le sorgenti energetiche che dinamizzano la persona, cioè i bisogni ed i valori. Questi possono essere tra loro allineati lungo due assi: prevalentemente consonanti, con esiti di consistenza; o prevalentemente dissonanti a causa dei bisogni dissonanti, con esiti di inconsistenza personale di fronte agli impegni ed alle prove della vita. È in questo contesto che la capacità di rispondere è chiamata a germogliare, a radicarsi e a crescere.

 

Il tipo di rapporto bisogni – valori

Il tipo di rapporto tra i bisogni e i valori è un fattore centrale per la scelta. Infatti in ordine al discernimento e all’orientamento vocazionale è decisivo il rapporto che si è venuto instaurando nella concreta persona trai bisogni e i valori. Un individuo è consistente quando è motivato nel suo agire, sia a livello conscio che inconscio, da bisogni che sono in accordo con i valori. Possono essere bisogni consonanti con i valori o neutri orientabili ai valori vocazionali. È invece inconsistente quando è motivato da bisogni (inconsci) che non sono in accordo con i valori. L’elemento centrale è costituito dal rapporto bisogni – valori; anche gli atteggiamenti entrano a determinare la consistenza – inconsistenza, ma in modo subordinato a questo rapporto. Ad esempio: un’infermiera cura i malati per un desiderio di aiutare i deboli, gli indifesi e gli infermi. Se però la stessa infermiera curasse i malati, sempre per il desiderio di aiutare i deboli, ma questo desiderio coprisse in realtà un più profondo bisogno di autopunizione e di inferiorità, che viene rimosso e poi gratificato con il servizio ai malati, ecco che avremmo un’inconsistenza, una situazione cioè in cui la persona risulta essere motivata nel suo agire in ultima analisi da un profondo bisogno di autopunizione, certamente in contrasto e lontano con gli ideali cristiani della vera carità. Tuttavia il comportamento esterno sembrerà essere quasi lo stesso. Però, mentre nel primo caso vi è un bene reale, nel secondo il bene sembra solo tale; è solo un bene apparente, ma non reale. Certe forzature nel modo di servire segnalano l’alterazione sottostante.

 

La persona consistente

La persona consistente – nell’area in cui è tale – è armonicamente integrata, perché le componenti del suo io, e di conseguenza le sue strutture, sono messe in moto dall’identica forza motivante e indirizzate verso uno stesso obiettivo, interagendo costruttivamente tra loro. Abbiamo un individuo che assume, in un progetto di vita liberamente scelto, le forze dinamiche della propria personalità e può tendere con efficacia e costanza verso la realizzazione di tale progetto… L’individuo consistente vive in una situazione di trasparenza interna ed esterna. Quello che afferma essere lo scopo del suo agire è realmente la molla che lo spinge a fare. Ne coglie la validità intrinseca (valore), se ne sente attratto (bisogni), lo vuole e si impegna concretamente per realizzarlo (atteggiamenti). È una persona “vera”, e proprio per questo può conseguire i fini che si propone[2].

 

I tratti della persona consistente

La persona consistente si caratterizza nel seguente modo. Ogni tratto va visto lungo un crescendo:

– è capace di affrontare la realtà; non ha paura, non fa lo struzzo, ma la guarda in faccia;

– integra le varie componenti della personalità; canalizza i bisogni attraverso l’autocontrollo e la rinuncia all’immediato;

– è capace di mantenere la tensione e di affrontare un conflitto; sa vivere una tensione di rinuncia; sa resistere allo sforzo e alle fatiche, non spreca energie;

– ha un’autodeterminazione flessibile, non rigida; è ferma e flessibile ad un tempo; sa distinguere tra il compromesso sui fatti e sui principi;

– sa amare, essendo libera da dentro di dare, senza bisogno di appoggiarsi sugli altri;

– è realistica nel compiere il proprio dovere; sa quando parlare e quando tacere, quando è qualcosa di essenziale o di accidentale;

– ha una fondamentale fiducia negli altri perché l’ha in se stessa; non contro-reagisce difensivamente in modo attivo o passivo;

– è dipendibile in rapporto all’autorità, all’altro e alla comunità, senza sentirsi sminuita; vive la sua finitezza al positivo;

– è stabile; anche quando sbaglia e cade, sa rinnovarsi e ripartire con realismo e fiducia;

– sa internalizzare i valori; sa che la vocazione cristiana non è tanto fare qualcosa ma piuttosto vivere la carità.

 

Consistenza e stima di sé

Frutto della prevalenza delle consistenze o delle inconsistenze è il tipo di stima di sé. Questa stima di sé può essere secondo i seguenti tipi, con varie gradazioni intermedie: la stima normale e vera, fondata sugli effettivi ricchezza e limiti personali accettati, fondata sul vero sé; la stima negativa o molto negativa, centrata sui limiti, spesso enfatizzati, dando luogo al falso sé; la stima compensatoria creduta come reale, costruita tramite i meccanismi di difesa attraverso il falso sé mascherato.

 

La libertà come libertà situata e i livelli di coscienza dell’io

La libertà umana è una libertà non assoluta e totale, ma limitata, situata e situazionata, come lo è ogni realtà umana.

 

Le tre aree della libertà

Il campo della libertà può essere illustrato come un cerchio, illuminato al centro, con tre zone successive, viste come tre aree di gradi diversi di libertà.

Una zona centrale, detta area della responsabilità, della volontà conscia e deliberata, dell’atto volontario e libero.

Una zona di sfumature o penombra o interscambio conscio/inconscio. È la zona intermedia del volontario in causa. Lo si vuole indirettamente attraverso l’uso dei mezzi.

Una zona di ombra, l’inconscio. È la zona periferica, sottratta alla libertà ma parlante attraverso le condotte sintomatiche.

Tutte le zone influiscono nella stessa azione. Di qui una visione tridimensionale dell’azione umana.

 

I fattori della coscienza di sé

I fattori presenti nella decisione e il grado di responsabilità personale sono diversi. Nelle varie scelte possono essere diversamente presenti i seguenti fattori: so che cosa faccio (contenuti della scelta); so che lo sto facendo (coscienza dell’atto di agire); so perché lo faccio (consapevolezza delle motivazioni dell’agire). L’io esercita una direzionalità anche sullo stato inconscio che traspare nella zona di sfumatura. Può accettare o meno, assecondare, rinforzare certe dinamiche inconsce.

 

Ogni azione è diretta dall’io attraverso le sue strutture e i contenuti, ma fino ad un certo punto

Come punto di partenza occorre tener presente che è l’io che guida e unifica la persona e le sue scelte. Infatti la crescita va dalle azioni reattive del bambino alla scelta responsabile dell’adulto. Ma qui sorge un problema: fino a che punto di fatto l’azione è diretta dall’io? Oppure l’io è succube in parte o in tutto dell’ambiente, delle pressioni del gruppo, delle aspettative altrui, dei propri bisogni? Ogni componente dell’io suggerisce modelli di azione secondo una propria mappa. Se la componente è conscia, il suggerimento è consapevolmente avvertito e deliberatamente accettato o rifiutato secondo la mappa conscia. Se invece la componente è inconscia, il suggerimento è sentito come subito, secondo la mappa emotiva inconscia. Quel suggerimento agirà senza il mio consenso, inserendo nell’azione una progettualità o intenzionalità da me non ricercata né voluta. Tuttavia mi appartiene. Ne sono frutto. le strategie dell’inconscio, cioè la gratificazione vicaria e la fuga preventiva. L’esperienza di sé è data non solo da ciò di cui siamo consapevoli, ma anche dall’intenzione e azione sia conscia che inconscia. L’intenzione conscia non rappresenta tutta l’esperienza di sé. È importante cogliere i comportamenti sintomatici di ciò che si vuole indirettamente; ad esempio: un comportamento forzato, rigido, artificioso, esagerato, affrettato, ecc.; lo stile difensivo secondo varie modalità: stile aggressivo, remissivo, compiacente, evasivo, esibizionistico, manipolatorio, provocatorio, narcisista, ecc. In queste situazioni il valore professato non entra profondamente nella persona, oppure essa lo vive ma non con gusto o con poco significato. La percezione e visione conscia di sé possono alterare i veri desideri, sentimenti, intenzioni della persona. Occorre tener conto di tutte le componenti. Ora ridare all’io la paternità delle azioni significa che le azioni hanno contemporaneamente diverse fonti motivazionali, in base alle componenti dell’io (io attuale, conscio e inconscio – io ideale). Ma questo come avviene? L’io dirige in base alle intenzioni e alle motivazioni.

Ad esempio: un giovane vuole farsi prete per servire la comunità (a livello conscio). Però non si rende conto che, in aggiunta a tale motivazione la forza maggiore (io latente) non è tanto servire, ma è quella di farsi servire in vario modo. È in buona fede. Ciò che fa non è né peccato, né patologia, ma inautenticità. Dentro è diviso tra forze contrarie… Un altro individuo dice di voler fare apostolato sociale tra i poveri e gli emarginati (ideale conscio). Non si rende conto che di fatto, in aggiunta a tale motivazione, l’effettiva ragione (a livello inconscio) è quella di soddisfare il bisogno inconscio di ricevere gratitudine dai poveri, benevolenza, attenzione. Certi sintomi lo segnalano. A monte sta un rapporto filiale carente. È diviso da due motivazioni opposte. C’è un bisogno di gratificazione materna. Dà per ricevere. Fa il dono e poi se lo riprende a livello inconscio. L’eccessivo attaccamento e l’autocentramento ne saranno un segno sintomatico… Un altro dice di voler fare apostolato per i poveri (livello conscio). Ma in ultima analisi la vera ragione è un bisogno notevole di ribellione contro l’autorità e le istituzioni stabilite… ribellione contro un padre o madre molto autoritari… Costui lotta per interposta persona a livello simbolico contro chi fin dall’inizio ha conculcato la sua persona. Nel suo impegno per la liberazione… in nome del Vangelo esprime tutta la sua ribellione. C’è una giustificazione. Il voler la giustizia sociale è motivazione vera, ma è anche mezzo per altri bisogni di aggressione… Una data persona dice di essere per il celibato (ideale conscio). Per insicurezza di fatto ha bisogno di evitare il contatto intimo con persone di sesso opposto. Il voto allora sarà una difesa di sé, non un dono. È fuga, non scelta positiva. C’è una divisione dentro di sé… Io ricerco un’amicizia. Può essere che io ricerchi tale relazione a partire da una mia autonomia personale, oppure può essere che, con tale richiesta, io viva un’eccessiva domanda di dipendenza affettiva. Nello stato di bisogno vado a farmi consolare dall’altro. Ciò a lungo andare fa morire l’amicizia.

I vari meccanismi di difesa salvaguardano in questi casi il soggetto dal percepire i reali conflitti e i relativi motivi e lo indirizzano verso soluzioni sostitutive, sempre inadeguate e insufficienti (autoaggressione, proiezione, compensazione, razionalizzazione, identificazione, spostamento, sublimazione, ecc.). Lo stato d’animo di conflitto può essere cosciente oppure può essere rimosso. L’interesse che ne deriva, e che rappresenta in qualche modo una soluzione per l’individuo, è cosciente. Però il nesso, il legame causale tra il conflitto e il meccanismo di soluzione è in questi casi inconscio. L’individuo non percepisce che il suo interesse, l’inclinazione derivano da un bisogno di risolvere il conflitto o superare il senso di frustrazione. Egli lo giudica “autentico”. Ma in realtà non lo è, perché il vero significato non è quello che appare.

 

L’io ideale e il discernimento vocazionale

In ogni processo decisionale, accanto ed in interazione con l’io attuale, decisivo è il ruolo dell’io ideale. Infatti l’entrata nella vita religiosa è in relazione non tanto con ciò che una persona è, o come vede se stessa, quanto con ciò che desidererebbe essere, con ciò che idealmente vorrebbe fare con l’aiuto di Dio.

 

Decisioni e ideali irrealistici

Ora proprio perché si decide in base agli ideali, questi possono essere, almeno in parte, irrealistici. Oltre che derivare dal desiderio di trascendersi, possono derivare da uno stato di deficit della persona, da bisogni conflittuali inconsci da gratificare o dai quali fuggire. Senza saperlo le persone possono orientarsi verso una scelta nel tentativo utilitario di gratificare i bisogni dissonanti o nello sforzo difensivo di venire a capo di conflitti sottostanti. Gli ideali consciamente formulati possono essere il frutto di forze inconsce. Ciò rende problematica la scelta vocazionale.

N.B. Malgrado l’incontestabile sincerità di chi fa una decisione, non si possono prendere per oro colato le motivazioni adotte e la descrizione di sé che viene fatta verbalmente. Bisogna considerare anche gli elementi inconsci.

 

Tipi di io ideale

Si può quindi dire che nella decisione responsabile esiste un “ideale germinativo”; si tratta di un nucleo di valori da sviluppare, fondati su aree di sé consistenti, ed ai quali aggiornare la propria responsabilità. A fianco di un ideale germinativo esiste anche “un ideale vulnerabile”, poco oggettivo e poco libero. Abitualmente questo si manifesta con due caratteristiche: con una mancanza di realismo e con una situazione di vulnerabilità legata in parte alla presenza nell’io di alcuni bisogni subconsci significativamente inconsistenti con gli ideali/valori perseguiti.

 

Una correlazione significativa tra identità e realismo dei valori

Di fatto c’è una correlazione significativa, una corrispondenza tra identità vera e realismo dei valori. Ciò porta ad un’integrazione strutturale dell’io. Più l’identità è consistente e stabile, più i valori sono realistici, durano nel tempo e si intensificano e viceversa meno… Minore è l’identità, più i valori, eccessivamente alti all’inizio, perdono significato con il passare del tempo. L’incertezza circa la propria identità è compensata attraverso l’elaborazione di un sistema grandioso di ideali. Data la loro funzione difensiva, non possono essere integrati nella vita, divengono insignificanti, lasciando il soggetto in una maggiore frustrazione e alimentando il circolo vizioso delle aspettative irrealistiche.

 

Discrepanza tra ideali professati e aree psichiche

Nel discernimento e orientamento vocazionale c’è un problema centrale da affrontare. I grandi ideali di una persona non sempre corrispondono alle aree forti della sua personalità e viceversa gli ideali meno importanti non corrispondono sempre alle aree più deboli della personalità. L’inconscio può creare una discrepanza tra ideali professati e predisposizioni psichiche, creando tra i due un rapporto inversamente proporzionale. Le persone possono avere ideali alti che corrispondono alle aree della loro personalità in cui sono effettivamente forti (situazioni di ideali realistici e germinativi). Le persone possono proiettare ideali irrealisticamente alti nelle aree in cui sono deboli.

 

Situazioni di ideali irrealistici e vulnerabili

Questa possibilità si verifica al 70-80%. Esempio: nei gruppi vocazionali si valutano enfaticamente i valori quali l’obbedienza, il servizio, la collaborazione. Le stesse persone trovano a livello di personalità gravi difficoltà che contrastano tali valori consci, rendendone difficile l’attuazione. Infatti nei religiosi studiati il 70-75% ha grosse difficoltà nella dominazione, nella fiducia in sé, nel bisogno di giustificarsi, nell’aggressività. Perché si enfatizza proprio ciò che non si riesce a vivere autenticamente? Perché il valore viene vissuto non per sé, ma come autocura illusoria.

 

Inconscio e pseudovalori come autocura tramite le strategie dell’inconscio

Il fondamento dell’idealismo irrealistico risiede nell’inconscio. Il valore diviene un pseudovalore, usato non per trascendersi ma per far fronte in un qualche modo ai problemi posti dall’inconscio. Il valore assume il significato soggettivo di autocura dei conflitti, un tentativo di soluzione ai problemi personali. Di tutto questo la persona non è consapevole, anche se sente senza potersela spiegare la difficoltà del progresso.

 

L’autocura inconscia può assumere due forme

– la gratificazione vicaria: il valore serve per soddisfare indirettamente un bisogno inconscio inaccettabile, ad esempio: servire gli altri al fine di essere riconosciuto nelle proprie capacità oblative (esibizione)[3] essere in buoni rapporti con tutti per soddisfare il proprio bisogno di dipendenza (dipendenza affettiva); approfondire le conoscenze al fine subconscio di dimostrare che si ha ragione (aggressività); impegnarsi in una giusta causa così da arrogarsi il diritto, attraverso lo zelo, di scaricare malumori finora repressi; l’uso della sessualità per affermare la propria identità di maschio altrimenti dubitabile; la scelta della castità per soddisfare il sottostante narcisismo del “non baciatemi” o del “io non ho bisogno di nessuno”. La psicodinamica sottostante è la seguente: nonostante i valori professati, l’individuo segue una logica di vita contraria a quei valori. Però non li rinnega, ma li distorce mettendoli a servizio di scopi contrastanti il valore stesso.

– la fuga difensiva: il valore serve per eliminare bisogni inconsci inaccettabili. Attraverso tale scelta si cerca di soffocare ciò che altrimenti appare irrisolvibile. Ad esempio: tentare di eliminare conflitti nell’area dell’aggressività, della pulsionalità e della sessualità attraverso una ricerca narcisistica della perfezione; accettare la sottomissione per evitare di riconoscere, appellandosi alla virtù dell’obbedienza, la propria aggressività o per non dover sostenere il rischio di idee personali; scegliere il matrimonio come rimedio all’insicurezza; entrare in comunità per evitare la solitudine.

 

Autocura e meccanismi di difesa

La psicodinamica sottostante è la seguente: il valore viene trasformato, per una parte più o meno estesa, in pseudovalore. È un processo inconscio che strumentalizza il valore vissuto non per ciò che è, ma come autocura per tentare di risolvere il problema sottostante. Ciò che mantiene tale processo inconscio è l’uso dei meccanismi di difesa che salvaguardano la stima di sé, altrimenti minacciata dall’ammissione di questi processi di gratificazione – fuga. Il servizio reso dalle difese è quello di poter usare il valore come autocura, mantenendo l’illusione contraria. Ciò che è gratificazione vicaria o fuga difensiva è vissuto ingannevolmente come virtù, carisma personale, chiamata vocazionale, volontà di Dio…

 

Un’autocura sempre insufficiente

Al vantaggio di salvare illusoriamente l’autostima si associa lo svantaggio della “coazione a ripetere”, del copione da recitare in circostanze analoghe. Più un bisogno viene affrontato non con il confronto-chiarificazione, ma con la gratificazione vicaria o la fuga difensiva, più quel bisogno si acutizza e diviene esigente, costringendo la persona a ripetere in modo sempre più massiccio ed esteso il suo stile autodistruttivo o dispersivo. Contrariamente a quanto si pensa a livello conscio, invece a livello inconscio più un bisogno è inconsciamente soddisfatto o evaso, più diventa prepotente. Ad esempio: se uno si illude che un qualche aspetto della vita religiosa o coniugale possa risolvere deficit o paure personali, potrà all’inizio sentirsi soddisfatto, se non entusiasta. Con il tempo i problemi personali si ripresenteranno con maggiore intensità, costringendo a ricorrere a stili sempre più rigidi e difensivi. La persona passerà dall’illusione alla delusione. Così si spiegano i falsi miglioramenti, le crisi (solo apparentemente) improvvise, gli entusiasmi passeggeri, il perpetuarsi di stili autoingannatori senza imparare dagli errori fatti.

 

Le inconsistenze alla base delle strategie dell’inconscio

Alla base delle strategie dell’inconscio stanno le inconsistenze. Queste inconsistenze vanno consapevolizzate e lavorate adeguatamente. La condizione dell’io ideale è decisiva per l’orientamento vocazionale. Tutti questi aspetti vanno approfonditi per averne un quadro di riferimento organico, pedagogicamente utile, in vista dell’orientamento vocazionale. Visto pedagogicamente, è frutto di una serie di scelte, piccole o grandi, scelte fatte o subite entro un processo decisionale. Queste scelte portano la persona, più o meno consapevolmente, verso una data direzione. Il processo decisionale è perciò il luogo della persona in cui prende corpo, più o meno consapevolmente, il proprio orientamento vocazionale. Esso è una realtà complessa, frutto dell’interazione di più fattori. È frutto, come abbiamo visto, dell’interazione e dell’azione della Grazia e della concreta libertà personale.

Conoscere l’articolazione e la dinamica del processo decisionale è di grande aiuto per la G. Sp. In esso si esprime la condizione della concreta persona, dei suoi vari elementi costitutivi in interazione, spirito, anima e corpo, così come effettivamente sono.

 

 

 

I FATTORI SOFFOCANTI LA CRESCITA VOCAZIONALE

 

Il discernimento e la crescita vocazionale possono stentare ad avvenire a causa di dati problemi della persona. Il discernimento, con il relativo orientamento, può restare impigliato in alcuni conflitti centrali della persona e non svilupparsi adeguatamente a causa delle inconsistenze personali. Infatti è molto importante vedere come si combinano tra di loro i vari elementi della personalità, perché è da questo fatto che si vedrà sbocciare una persona consistente e vera o meno. Un orientamento vocazionale compiuto, efficace e non solo efficiente, esige infatti una certa strutturazione della personalità.

 

I tratti del falso sé e le inconsistenze personali

In modo diverso e a livelli diversi capita con frequenza che il vero sé fatica a prendere corpo. Nella misura in cui il vero sé non si configura a sufficienza attraverso le tappe evolutive, allora prende corpo il falso sé a varia gradazione. Si può parlare allora di atonia del vero sé che resta non sufficientemente sviluppato nel tono e nel dinamismo. Le potenzialità che lo costituiscono non riescono ad attualizzarsi, o ci riescono in modo minoritario rispetto all’insieme. È come se mancassero di tono o di dinamismo. Questo falso sé si può presentare prevalentemente secondo uno dei due seguenti modi.

 

La forma prevalentemente passiva

Può essere secondo una modalità prevalentemente passiva, con una percezione di sé negativa più o meno accentuata. Sono presenti allora alcuni indicatori quali il dubbio su di sé, la timidezza ad esistere per chi e per come si è, sotto forma di paura di esistere o di vergogna di esistere, l’incapacità di affermarsi che può giungere fino al rifiuto di esistere, la chiusura autodifensiva con forme di introversione eccessiva, la dipendenza dagli altri, la ricerca compulsiva di stima e di affetto, la mancanza di fiducia, la carenza di autostima, la mancanza di stabilità, la carenza di riferimento valoriale, ecc.

 

La forma prevalentemente attiva

Oppure il falso sé può presentarsi assieme ad una grande sicurezza apparente in presenza di una stima di sé compensatoria creduta come reale. Coloro che erano dotati intellettualmente hanno sviluppato la loro intelligenza ed hanno potuto riuscire brillantemente. Coloro che erano dotati per l’azione hanno potuto divenire degli intraprendenti, ecc. In rapporto ai loro doni e capacità queste persone hanno messo in atto dei funzionamenti compensatori. Questi forniscono soddisfazioni e in qualche modo aiutano a vivere. Questo tipo di persone sembra pieno di sicurezza e solido. Di fatto in profondità ci sono a varia gradazione insoddisfazioni viscerali, una specie ed di vuoto interiore una certa fragilità. Da qui emerge la necessità di un cammino di crescita predispositivo alla fede, ad un tempo suo frutto e causa.

 

Le inconsistenze personali

Come abbiamo visto, l’elemento fondamentale per ogni persona è che due componenti della persona, i suoi valori ed i suoi bisogni, siano in equilibrio tra loro. Se i valori ed i bisogni funzionalmente significativi (quelli che hanno il sopravvento), sono d’accordo, la persona è consistente. Altrimenti, se valori e bisogni sono in disaccordo, cioè dissonanti, allora la persona è prevalentemente inconsistente. Di conseguenza la personalità è vacillante, perché diventa campo di battaglia tra tendenze contrastanti; ad esempio: fare e non fare per l’inferiorità sottostante. L’individuo inconsistente vive in uno stato di disaccordo interno; non ha in mano la propria vita perché una motivazione che non conosce smentisce e contraddice la sua proclamazione di valori; dunque le sue strutture e contenuti sono in rapporto conflittuale tra loro, e creano un conflitto di cui l’individuo avvertirà le conseguenze senza avvertirne l’origine[4].

 

Come intendere le inconsistenze

Il contrasto creato dalle inconsistenze non necessariamente coinvolge tutte le componenti strutturali dell’io; lo può fare, ma raramente. Di solito, non tutto è contro tutto. Ad esempio: ci può essere coerenza fra ideali professati e comportamento pratico (quindi consistenza fra ideale personale e io manifesto), ma la persona può avere difficoltà a sentire in profondità quel comportamento a causa di bisogni subconsci inaccettabili. Oppure il contrasto può essere all’interno del solo io ideale (buona conoscenza di sé, ma mancanza o irrealismo degli ideali trainanti). Oppure solo nell’io attuale (valore chiaro ma cattiva conoscenza di sé). Esempi, per dire che le consistenze – inconsistenze possono coesistere.

In secondo luogo l’inconsistenza può essere più o meno riconosciuta dal soggetto. Allora, a seconda del grado di consapevolezza, si avranno diversi livelli di inconsistenza. All’interno della stessa persona ci possono essere più inconsistenze, ognuna delle quali può situarsi a livello diverso: vedo la mia contraddizione (inconsistenza conscia), ma non vedo il perché (inconsistenza inconscia). Evidentemente più le inconsistenze sono numerose e subconscie, più l’io sarà vulnerabile.

In terzo luogo non tutte le inconsistenze hanno la stessa importanza per la stabilità e perseveranza dell’io. A seconda quindi del significato funzionale che un’inconsistenza ha nel quadro generale della persona, si avranno diversi gradi di centralità delle inconsistenze[5]. Si può allora avere una gerarchia di inconsistenze: dal livello conscio a quello preconscio a quello inconscio. Una difficoltà ne nasconde un’altra.

 

La dinamica dell’inconsistenza

È necessario, allora, precisare i dinamismi dell’inconsistenza[6].

1. L’inconsistenza crea anzitutto una spaccatura all’interno del soggetto, una situazione di contrasto tra ideale scelto, sottolineato, proposto dagli altri, accarezzato come garanzia di positività personale e il vissuto quotidiano nelle sue varie espressioni (dal comportamento all’opzione di fondo).

2. Questa incoerenza determina uno squilibrio nella distribuzione di energia emotiva. In pratica, l’individuo inconsistente attribuisce troppa importanza ad alcuni aspetti o esigenze dell’io (normali in se stesse) e ne svaluta altre; ha bisogno eccessivo di gratificazione in certe aree dell’io e teme o ignora altre componenti della sua personalità. L’incoerenza, così, si sposta sempre più nel campo dell’attrazione, di ciò che il giovane “sente” dentro di sé.

3. Le conseguenze, allora, sono a due livelli.

Anzitutto quello strutturale – relazionale. Il senso dell’autoidentità e dell’autorealizzazione sarà inevitabilmente condizionato da ciò che il soggetto sente più centrale per sé (e legato all’inconsistenza); così anche la percezione dell’altro e il rapporto interpersonale in certi casi subiranno una vera e propria distorsione percettiva, che potrà estendersi al modo di intendere la vita comunitaria e apostolica, creando le famose aspettative irrealistiche. Tale distorsione non risparmierà neppure la concezione e l’esperienza di Dio, l’interpretazione della sua parola e l’annuncio del suo messaggio.

A livello invece dinamico – funzionale l’inconsistenza determina una mancanza di libertà e progressiva perdita del controllo su una parte di sé. Attraverso un percorso scandito da queste 4 tappe: all’inizio il soggetto si concede piccole gratificazioni nelle aree interessate dall’inconsistenza; queste concessioni veniali diventano poco a poco abitudini sempre meno controllate e ponderate, e poi dinamismi automatici sempre più nascosti ed esigenti; fino a piazzarsi al centro della vita e divenire motivazioni inconsce. In pratica il soggetto si sentirà sempre più attratto e dipendente da ciò che si concede regolarmente, ma l’attrazione, oltre ad aumentare le pretese, scatterà in modo sempre più automatico, facendo sentire meno la dissonanza e favorendo la logica dello “spontaneo – dunque – lecito”.

 

Le difficoltà dell’inconsistente nel discernimento vocazionale

Le inconsistenze si manifestano in una serie di effetti e di difficoltà. Le principali sono le seguenti[7]. Nel caso dell’inconsistente vi sarà meno libertà nella definizione ed esecuzione del progetto vocazionale, essendoci una forza inconscia che condiziona le sue scelte e ne limita la capacità effettiva di realizzarle… L’inconsistente, in quello che fa, oltre a quelli “ufficiali”, ha anche dei secondi fini, pur senza saperlo, e normalmente non riesce a realizzare né i primi né i secondi, come si propone. Gli è difficile accettare la Parola di Dio per quello che è; la leggerà prevalentemente a partire dai suoi bisogni; di volta in volta sarà una parola rivoluzionaria, od una parola che giustifica tutto e tutti. Fatica o è incapace di leggere oggettivamente la parola e percepirla come messaggio vitale, esistenziale. Gli è difficile discernere tra bene apparente e bene reale. Spesso è tratto in inganno dal bene apparente. Gli è difficile vivere un vero amore perché manca di gratuità, non sa amare prevalentemente di amore gratuito. Gli sfugge l’inconsistenza; non ne è consapevole, agisce con motivazione inconscia; questo è un guaio perché così non riesce ad imparare dall’esperienza e ripete gli stessi errori. Esempio: una persona con una forte inferiorità, ed una forte dipendenza affettiva. Per l’inferiorità si butta nel lavoro (grande carità), continua ad accumulare impegni su impegni, comincia a pregare di meno, la prima volta, ma poi… si abitua a non pregare più… comincia a perdere entusiasmo… Il bisogno di dipendenza affettiva, non più regolato, inizia a farsi sentire più forte. Inizia un flirt con una data persona, ecc.

 

Le consistenze difensive

Per la stessa organizzazione gerarchica, una consistenza può nascondere un’inconsistenza. In questo caso parliamo di consistenze difensive: quindi solo apparenti, ma che in realtà hanno scopi difensivi. Esempio: una persona è apparentemente consistente nell’area dei valori che però le servono per una funzione difensiva dell’io, quindi come tamponamento di un problema irrisolto che prima o poi si rifarà sentire. È evidente che una consistenza difensiva è equivalente ad un’inconsistenza. Di qui, allora, l’importanza di un lavoro formativo di prevenzione. Da queste difficoltà emerge la necessità di saper discernere per favorire l’orientamento vocazionale. Molte difficoltà spirituali sono in realtà espressione di inconsistenze subconscie vocazionali; non è questione di valori, ma di difficoltà ad armonizzarli con i bisogni. E questi casi non sono l’eccezione ma la regola: gli elementi sensibili e spirituali dell’uomo sono intrecciati in modo inestricabile. Non capire questo è perdere un’enormità di tempo senza che la persona progredisca significativamente, per concludere – al fine di salvare la stima di noi stessi – che quella persona è poco generosa nei confronti di Dio. Senza capire la vera natura dei problemi, l’intervento educativo può addirittura aggravare i problemi stessi; se la ribellione è una difesa contro l’umiliazione subconscia, la classica predica sull’orgoglio non fa che aumentare il problema della ribellione, non si è capito che la persona è ribelle perché si sente poco brava e più le si dice che è poco brava, più diventerà ribelle; l’intervento adeguato dovrebbe essere esattamente l’opposto: aumentare in quella persona la stima di sé.

 

Una coesistenza problematica entro cui occorre discernere

Per essere più precisi, anziché contrapporre persona consistente e persona inconsistente, si deve parlare di aree consistenti e inconsistenti all’interno della stessa persona. È possibile vedere in ognuno se prevalgono le consistenze o le inconsistenze. L’indice di maturità sarà dato proprio da questo rapporto tra zone forti e zone deboli. Ma affermare che alcune parti sono inconsistenti e altre no, non significa affermare che tra loro ci sia incomunicabilità. Infatti le inconsistenze vanno progressivamente a minare le consistenze e con il tempo possono diventare sempre più centrali. Val la pena forse ricordare che nessuno è perfettamente consistente, come probabilmente non esiste persona del tutto inconsistente. Le inconsistenze sono una parte dell’uomo, non sono tutto l’uomo. Ognuno di noi ha una zona libera; su questa può far leva per scoprire le proprie inconsistenze, limitarne l’effetto paralizzante e impedire la formazione di altre.

 

Per una positiva risposta vocazionale

I fattori personali che predispongono il terreno ad una positiva risposta vocazionale sono quelli che creano le condizioni per una consistenza psicologica. Questa consistenza è la situazione in cui una persona è motivata nel suo agire da bisogni consci e subconsci, che si vengono a trovare in accordo con i valori oggettivi e gli atteggiamenti propri della vocazione cristiana alla fede. In vista di una risposta vocazionale, vita consacrata o matrimonio come sacramento, di una risposta adeguata alla chiamata di Dio per la concreta persona, occorre rendere la persona disponibile a rispondere, ad amare, ad essere libera di… È necessario perseguire due obiettivi, tra loro interagenti e implicanti.

 

– Anzitutto discernere che cosa effettivamente è presente nella concreta persona, vedere qual è il suo effettivo punto di partenza con le sue potenzialità e con i suoi problemi, decifrare i segni di Dio presenti nella sua storia, vedere quali sono i settori chiave della persona. Avere una concezione olistica comporta interagire con tutto ciò che costituisce la persona, con il suo io attuale fatto dal concetto di sé, dall’io sociale e dall’io inconscio; e con l’io ideale, personale e istituzionale. Comporta una concezione della scelta articolata nei suoi elementi: ideale germinativo e ideale vulnerabile con le strategie dell’inconscio all’opera. Occorre distinguere gli elementi del vero sé rispetto a quelli del falso sé o della persona inconsistente, elementi per eccesso o per difetto.

– Le piste pedagogiche necessarie. Successivamente è necessario precisare le piste pedagogiche da percorrere per promuovere e interagire con una concezione della persona più integrale. È anche a queste condizioni che si promuove un adeguato discernimento vocazionale.

 

I tratti del vero sé

Il buon funzionamento degli elementi portanti della persona consente la formazione del vero sé. Infatti dall’intreccio e dalla condizione delle dimensioni costitutive della persona emerge un dato esito. Questo si allinea lungo un continuum che va dal vero sé al falso sé a varia gradazione. Il “vero sé” è caratterizzato dalla capacità effettiva di vivere in modo prevalentemente propositivo, creativo e assertivo, di sentirsi e viversi reali in un mondo che è reale, di reggersi in modo autonomo e consistente, dall’essere un membro vivo e attivo della comunità, dal vivere secondo schemi personali, con libertà interiore e non reattivamente, dallo sviluppare una personalità diretta da dentro e non eterodiretta.

 

Le relazioni costitutive

Si è perciò in presenza di un vero sé nella misura in cui, pur entro la parzialità di ogni realizzazione, si vive in fedeltà a se stessi, in fedeltà alle certezze ed evidenze profonde nate a livello dell’identità di sé, in docilità alla propria coscienza profonda. In riferimento a se stessi ci si sente in profondità, e si risulta per l’ambiente, veri, genuini, al proprio posto, in profondità felici e sereni, pur in mezzo alle difficoltà del vivere. Nel proprio lavoro ci si sperimenta sicuri senza irrigidimenti, ad un tempo con forza, pazienza, tenacia e con elasticità. Allora ci si vive ben orientati verso lo scopo della propria vita, consapevoli di non poter prendere altre vie senza rinnegarsi. Con gli altri ci si sperimenta aperti, tanto più aperti quanto più si prova solidità in se stessi. Si vive senza bisogno dell’approvazione altrui, anche se la si apprezza. Si riesce

a vivere la propria solitudine. Nella relazione con Dio e con il cosmo ci si vive in armonia ed in comunione, pur entro le fatiche della realizzazione, ci si sente concretamente aperti alle dimensioni dell’assoluto e dell’universo. Un vero sé così delineato è un punto di arrivo e poi di ulteriore partenza lungo le varie tappe della vita. Di fatto la crescita del vero sé conosce varie fasi di passaggio, spesso appesantite da vari problemi evolutivi interferenti. Per far posto al vero sé, però, è necessario liberarsi dal falso sé, manifesto od occulto ai propri occhi. E questo richiede il cammino di tutta la vita, particolarmente della giovinezza[8].

 

Caratteristiche della personalità “consistente”

Possiamo in maniera molto schematica e riassuntiva tentare di delineare quali sono gli aspetti per cui una personalità si può dire orientata verso un maggior livello di maturità e di consistenza interiore.

 

C’è una capacità di fronteggiare la realtà: sia la propria realtà personale nel non diminuire le sue qualità e nemmeno i suoi limiti o sbagli. Ma neppure nel non diminuire tutto questo negli altri. Il suo modello è il confronto e non la fuga.

C’è in lui uno sforzo di integrazione dei propri bisogni, che sono accettati, con i valori vocazionali e gli atteggiamenti. Tutto questo non lo blocca nel rigidismo interiore. Egli non consuma gran parte dell’energia psichica nel cercare forme di sollievo ai propri bisogni e problemi, ma usa di questa tensione in maniera costruttiva prendendo e portando a termine decisioni, tollerando incertezze, lavorando senza nostalgie del proprio passato.

Egli è meno portato a sacrificare i propri principi e i valori al pragmatismo e nel difenderli si adotta una flessibilità ed uno stile di servizio che sono propri della maturità. Non si ricorre cioè all’aggressività e alla timorosa abdicazione delle proprie responsabilità. Si dimostra più portato ad un amore altruista e disinteressato che trascende la propria persona. Non c’è il bisogno di essere a tutti i costi desiderato per cui non si sente frustrato in maniera perturbante di fronte ad una mancanza di gratificazione.

Manifesta una buona capacità di realismo nell’adempimento dei propri doveri, che si unisce alla flessibilità e alla creatività. Sarebbe lo stile della “fedeltà creatrice” di cui parla G. Marcel. C’è una capacità di distinzione tra ciò che è essenziale e ciò che è accidentale. Poiché c’è di fondo una libertà nel dare e nel ricevere, c’è anche una fondamentale fiducia verso gli altri che è la conseguenza di una fiducia in se stessi, e che per chi ha fatto una scelta di fede, è un senso di abbandono e di fiducia in Dio. Nella relazione con gli altri l’ansia e l’ostilità sono ridotte di parecchio.

La relazione del consistente con i superiori, con i compagni o con quanti egli deve accompagnare o dirigere sono caratterizzate non dalla dipendenza affettiva, non dalla indipendenza assoluta, ma da una flessibile autodeterminazione. Egli si basa su di una oggettiva valutazione di sé e degli altri, sa farsi aiutare e consigliare, ma sa anche decidere da se stesso. Rispetta la libertà degli altri e si prende spazio per la propria. Soprattutto c’è in questa personalità la capacità di fare propri, ma in profondità, i valori in cui crede, di imparare dalla vita, di saper vivere con una carica di interiorità anche gli impegni che domandano un maggior spreco di energie. È la tipica dimensione dei contemplativi in azione!

Non sembra necessario aggiungere che la piena realizzazione di quanto fin qui detto è più un ideale che una realtà. Tuttavia la persona consistente dimostra una sostanziale stabilità in tutti i settori della sua vita, in una capacità di autocontrollo, di espressione di sentimenti, di unificazione interiore. Certo, il cammino della libertà non è facile, c’è sempre un prezzo da pagare, come l’uomo che ha trovato un grande tesoro e ha dovuto vendere quanto aveva per poterlo acquistare (Mt. 13, 44 – 46).

 

 

 

RISANARE E PROMUOVERE IL VERO SÉ

 

In vista di un positivo discernimento e orientamento vocazionale, radicato sulle effettive dimensioni della persona, è necessario un duplice lavoro pedagogico: anzitutto di sviluppo di ciò che è presente e positivo; poi di risanamento di ciò che è malsano. Le piste educative principali sono le seguenti.

 

Educare alla fiducia tramite l’esperienza del positivo e del limite di sé

In ogni persona c’è un’aspirazione centrale alla crescita, pur in mezzo alle varie difficoltà, quella alla sana fiducia in sé, negli altri, nella vita, in Dio. Questa fiducia è frutto di un’esperienza chiave: quella del proprio positivo, seppur limitato, del proprio valore, della bontà intrinseca di sé, pur entro le manchevolezze, di una amabilità da dentro, incondizionata e generatrice, di una fonte di vita inesauribile e misteriosa da cui si proviene, capace di sorreggere indefettibilmente, di non venir meno di fronte alle difficoltà perché assoluta, sottratta alla contingenza, alla fragilità. Questa fonte è anzitutto Dio e subordinatamente gli educatori.

 

Che cosa intendere per fiducia

La fiducia perciò consiste in un investimento di energie, di possibilità, di progetti… in un credito fatto ad un’altra persona; in un’apertura a… Questo avviene tramite un movimento di trascendimento che fa passare dal qui, ora verso un altro, verso un più, verso un altrove nel tempo e nello spazio per cui ci si sente fatti.

 

I presupposti della fiducia

Perché la sana fiducia possa prendere corpo nella concreta persona, occorre educativamente favorire i suoi presupposti che sono i seguenti.

L’esperienza del potersi poggiare con sicurezza su un pilastro interno, su un terreno solido, su una sponda robusta senza rischio di sprofondare, su un fondamento sicuro. Questa esperienza si radica nelle risposte ricevute, primordialmente e successivamente, alle domande dei seguenti bisogni illustrati da A. Rochais: il bisogno di essere riconosciuti, visto e capito in ciò che si è nel proprio intimo; il bisogno di essere accolti così come si è di fatto; il bisogno di essere creduti quando ci si dice nel meglio di sé; il bisogno di essere amati gratuitamente per quello che si è e non per quello che si fa o per le soddisfazioni che si danno; il bisogno di sperimentare la fiducia altrui nei propri confronti; il bisogno che venga lasciato prendere il proprio posto entro il proprio piccolo universo familiare e che si possa esercitare il proprio ruolo là dove si vive, nelle sue varie forme; il bisogno che attorno alla persona si sia felici della sua esistenza così come è, senza troppi “se” o “ma”; il bisogno di sentirsi al sicuro e in riposo interiore in mezzo a coloro che sono importanti per la sua esistenza, genitori e altre persone significative per l’interessato.

L’esperienza di potersi protendere verso un altro polo affidabile, con cui far ponte o vivere un interscambio, in vista di un bene proprio e altrui da perseguire, da far fiorire.

La percezione di sé, come anche degli altri, come realtà di valore, cioè bella, buona, vera, gustosa, che dà piacere e gioia, costruttiva, utile, gratuita… sorgiva, con una fonte buona da dentro.

La percezione degli altri e della vita non come antagonisti, come nemici o come concorrenti, ma come alleati, amici, come portatori di doni e di vita.

La percezione di Dio come un fondamento indefettibile, assoluto, su cui potersi poggiare con sicurezza serena.

La percezione/esperienza di un posto proprio nella vita in cui sentirsi/ viversi a casa, con un territorio di vita personale riconosciuto, rispettato e abitato.

La percezione di un ruolo positivo da poter svolgere, significativo per sé e per gli altri…, di un progetto di vita possibile.

La percezione del limite proprio e altrui non come morte, negazione di sé, minaccia permanente… ma come confine di sé e degli altri con una duplice funzione: configurare se stessi; aprire all’altro, al suo dono entro una complementarietà di collaborazione e di condivisione.

In sintesi si può dire che l’educare alla fiducia richiede facilitare l’esperienza di un centro proprio con dei doni, di una periferia più o meno estesa, di confini delineati, di vicini alleati, di un movimento di interscambio, di un fondamento affidabile.

 

Fiducia e stima di sé

Un’educazione efficace alla fiducia porta alla maturazione nella persona di una sana stima di sé che ne è il contrassegno di autenticità. Questa sana stima di sé è fatta di quattro fattori: una conoscenza esperienziale e oggettiva di sé; l’esperienza e il gusto del positivo di sé, del sapersi apprezzare per quello che si è; una tensione verso un più, un meglio (io ideale), conformemente alla propria natura; l’integrazione del negativo fisico, psichico, morale e spirituale nel proprio progetto di vita.

 

Educare a decifrare ciò che è effetto, sintomo e causa

Per poter operare un adeguato discernimento vocazionale è necessario per l’educatore imparare a fare diagnosi corrette. Occorre distinguere nella persona ciò che è causa, ciò che è sintomo e ciò che è effetto. Confondere questi elementi spesso fa peggiorare la situazione o, in ogni caso, ristagnare. Occorre imparare a fare una discesa da fuori a dentro della persona. Le principali tappe sono le seguenti[9]

 

I comportamenti

Anzitutto l’attenzione deve andare alla condotta, a ciò che è immediatamente visibile o facilmente percepibile, specie ai comportamenti abituali, ai gesti o ai modi di fare che la persona ripete anche in diversi ambienti e con diverse persone o che riconosce anche nel suo passato; alle abitudini ormai sedimentate; alle cose che dice con una certa frequenza o che sottolinea con altrettanta urgenza.

 

Gli atteggiamenti

Al secondo livello di osservazione lo sguardo si fa più acuto e va più in profondità. Di solito si parte dall’“area dell’incoerenza” prima constatata, per cercare di percepire non solo ciò che appare subito evidente, ma anche ciò che non lo è, ma che fa parte dell’io. Gli atteggiamenti, infatti, sono predisposizioni ad agire, come dei “programmi d’azione”, ormai memorizzati, consci e anche inconsci, pronti per l’uso come uno schema fisso e stabilizzato; da questi derivano degli stili operativi soggettivi e dei criteri di scelte, dei modi stereotipi di giudicare gli altri tramite simpatie/antipatie.

 

I sentimenti

Il terzo passaggio viene da sé: una volta superata la barriera di ciò che è subito visibile non dovrebbe essere difficile spingere oltre l’analisi, per rilevare con sincerità quel che il soggetto prova dentro di sé o ha provato in quella precisa circostanza, quando ha ricevuto quell’affronto o si è sentito emarginato. Il sentimento è una risonanza affettiva con cui la persona vive i propri stati soggettivi nel rapporto con il mondo esterno; nasce come emozione che diviene un po’ alla volta stabile e può arrivare a essere così intensa da diventare passione. È in fondo una forma di conoscenza dell’oggetto o dell’evento valutato in riferimento alla propria persona; proprio per questo il sentimento è profondo rivelatore del sé e dell’eventuale eccessivo attaccamento ad alcune realtà e rifiuto di altre.

 

Le motivazioni

Dai sentimenti alle motivazioni, o al tentativo di identificare ciò che realmente spinge il giovane ad agire, i bisogni che sono in lui prevalenti, anche se inconsci. La motivazione è il fattore dinamico – direzionale che attiva e dirige il comportamento umano verso un obiettivo preciso, è energia mirata, forza intenzionale. È ciò che il soggetto vuole realmente, pur – a volte – senza intenderlo e magari in contrasto con altri obiettivi dichiarati e… nobili. Qui il giovane deve cercare di cogliere l’orientamento generale della sua vita, di ciò che intende realizzare, come emerge dalle varie motivazioni che coglie alla base del suo essere e agire. Non basta più, allora, la sincerità, ma occorre giungere alla verità di sé.

 

Il concetto di sé

In ogni persona il concetto di sé traduce come una persona si sente, si pensa e di conseguenza si vive. Assieme al campo percettivo e all’ideale di sé, il concetto di sé rappresenta educativamente un punto di riferimento indispensabile per poter aiutare la concreta persona nella sua crescita. È a partire da questo che uno si lascia educare in modo efficace.

 

L’opzione di fondo o la posizione chiave della persona

Dovrebbe essere la stazione d’arrivo, almeno in questa fase. Tutto il cammino precedente ha lo scopo di giungere a identificare l’opzione di fondo, quella che è alla radice e al centro della vita, dove è il tesoro e il cuore del giovane. Se le motivazioni possono essere varie, l’opzione è una sola, come pure la posizione chiave della persona di fronte alla vita. È su questa che occorre aiutare a lavorare per facilitare i cambi di crescita necessari.

Questo tipo di indagine dovrebbe mettere il giovane in condizione di evidenziare che cosa si oppone in lui al progetto di Dio, cioè la sua inconsistenza centrale o la posizione chiave assunta nei confronti della vita; è questa che spiega l’incoerenza tra valore proclamato e vissuto. È a partire da questa scoperta che il soggetto può finalmente lavorare su di sé, sapendo dove concentrare i suoi sforzi.

 

Educare a decifrare il linguaggio dei sentimenti e dei comportamenti

C’è un quadrante psichico che, come su un video, rende leggibili e comprensibili lo stato e la dinamica dell’affettività e della stessa identità personale. Infatti l’affettività, come pure l’identità personale, si manifestano in particolare attraverso i sentimenti e le emozioni che la concreta persona prova. Questi sentimenti, sensazioni psicologiche ed emozioni informano l’interessato su ciò che sta succedendo in lui, a livello sia conscio che inconscio, in profondità e in superficie. Sono manifestativi di come l’organismo psichico sta reagendo di fronte alla sua condizione interna ed agli stimoli che lo raggiungono. Costituiscono il linguaggio non verbale del mondo interno della persona e della sua reazione a quello esterno. Offrono informazioni molto preziose che, opportunamente percepite e decifrate, consentono un intervento educativo adeguato. Manifestano il grado di ortopatia personale. I sentimenti e le emozioni non sono né buoni né cattivi, non hanno rilevanza morale per il fatto che si provano. Quasi tutti accettiamo questo in astratto. Praticamente molti ripudiano nella loro vita quotidiana ciò che accettano in astratto.

Molto spesso nella nostra cultura siamo stati abituati per educazione ad ignorare o a negare i nostri sentimenti, a fissare la nostra attenzione su altre cose. Per questo, frequentemente nelle nostre relazioni con gli altri, ci sforziamo di prescindere dai nostri sentimenti e di non prestare attenzione a quelli degli altri. Ognuno di noi però continua a provare costantemente diversi sentimenti che influiscono notevolmente su di noi e sugli altri. Essi possono ampliare, come pure restringere, l’area affettiva e della libertà interiore, favorendo o meno la comunicazione della persona.

 

Tipi di sentimenti

Ad esempio: ci sono sentimenti percepiti come positivi e gradevoli per la persona come il sentimento di gioia, allegria, di forza, di serenità, di amore, di trasparenza, di pace, di gusto di vivere, ecc. Questi sentimenti segnalano la presenza e l’opera di realtà costruttive della persona, di realtà consistenti, presenti e attive a livello della identità profonda. Altri sentimenti sono percepiti come sgradevoli o negativi, come il sentimento di sofferenza, di paura, di rabbia, di tristezza, di aggressività, di perdita di tono, di colpa, di negatività, di sofferenza, ecc. Segnalano la presenza di fattori negativi all’opera, di contrazione e di strappo di realtà vitali per la persona, di situazioni conflittuali all’opera.

 

I sentimenti come un termometro

La sfera dei sentimenti è come un linguaggio che traduce gli atteggiamenti profondi di una persona di fronte a se stessa (concetto di sé), di fronte agli altri (inserimento sociale), di fronte alla vita (senso della vita), di fronte a Dio (senso della trascendenza). È perciò del tutto sbagliato, inutilmente dispendioso di energie e dannoso prendersela con i sentimenti che si provano, qualunque siano, accusare se stessi o gli altri, spesso proiettarli sugli altri, rimuoverli moralisticamente. È come, di fronte alla febbre, prendersela con il termometro che la segnala, anziché con l’effettiva causa della febbre o dell’infezione. Occorre riandare alla vera causa, alla sorgente di emissione di tali segnali graditi o sgraditi, all’identità di sé e provvedervi adeguatamente attraverso un lavoro paziente, tenace e lungimirante di educazione, di consulenza, talora di analisi del profondo. Occorre ricordare che, mentre il pensiero, la mente, la riflessione intellettuale procedono velocemente come una lepre, il cambio dell’affettività è lento e graduale. Procede con l’andatura di una tartaruga. La fretta di crescere e di far crescere è un duro freno per lo sviluppo.

 

Le condizioni concrete dell’affettività

Anzi, con frequenza, il mondo affettivo di una persona si è strutturato, talora bloccato in tutto o in parte, entro un sistema di difesa chiuso a causa delle carenze patite. Cfr. l’affettività coartata, l’affettività intellettualizzata, l’affettività effervescente. Ci vuole allora tutto un lavoro progressivo di sgelo, di rivitalizzazione e di rieducazione del mondo affettivo, entro relazioni interpersonali vitalizzanti e rispettose della persona. Il modo di sentire di ogni persona, per poter essere capito ed eventualmente aiutato a migliorarsi, va collocato entro la storia evolutiva personale. Questa è sempre unica, monografica. Infatti la maturazione affettiva della concreta persona è strettissimamente legata alla condizione della sua memoria affettiva. Questa dimensione psichica è molto incisiva sull’ortopatia personale e sulle varie relazioni, compreso il discernimento e l’orientamento vocazionale.

 

Educare al gusto della verità effettiva

Il gusto della verità è presente in ogni persona. Il bisogno di verità è istintivo. Ogni essere aspira alla verità, ma queste aspirazioni sono spesso frenate e deboli.

 

Il gusto della verità

La verità fa paura quando si sente che potrebbe disturbare. Di conseguenza non la cerchiamo nei settori, o su punti precisi, sui quali non vogliamo metterci in chiaro. Liberare il gusto della verità sarà quindi guarire dalle paure nei suoi confronti. Perciò può essere utile chiedersi: in quali settori della mia vita ho paura di fare luce per mettermi in verità con me stesso? Di che cosa ho paura? A dove risale questa paura? Che cosa fare per guarirne? Bisogna non barare con la realtà e la verità.

Il reale di cui qui si tratta è il reale interiore; quello che accade in me; è il reale degli altri, quello che vivono nell’intimo di loro stessi e non soltanto quello che vivono esternamente; è il reale della relazione che vivo con loro, è il reale della vita, è il reale della relazione con Dio.

 

Le trappole contro la verità

È facile fermarsi a metà strada di un’esplorazione perché la paura paralizza il nostro gusto della verità. È facile accontentarsi di mezze verità perché il nostro gusto della verità non è molto forte. È facile accantonare la verità perché la verità intera ci disturberebbe troppo. Nella nostra ricerca possono infilarsi risvegli di pigrizia.

L’opposto dell’apertura al reale è rinchiudersi nelle proprie idee: le proprie idee su di sé; l’immagine di sé attualmente; le proprie idee sugli altri e la causa dei loro problemi; le proprie idee sul come della Salvezza. Per accettare di arrendersi al reale bisogna essere abitati da un gran desiderio di verità e di vita: verità su di sé, verità sull’essere umano, verità sul come dell’azione salvifica di Dio. Questo desiderio di verità è destabilizzante e comporta una ricerca permanente.

 

L’umiltà davanti al reale effettivo

Per poter abbandonare le proprie idee preconcette, mettersi alla scuola del reale e lasciarsi insegnare da lui, il gusto della verità deve essere accompagnato dall’umiltà. I due vanno di pari passo. Essere umili è riconoscere ciò che è. Essere umili non è dire: “Sono niente, non valgo niente”. Essere umili è riconoscersi come si è, senza scappatoie, senza barare con la verità che si scopre, bella o no.

L’umiltà è quindi un atto di libertà. L’io “piega le ginocchia” davanti alla realtà; e questo sia che si tratti del positivo di noi e anche delle “grandi cose”, per le quali Dio ci ha creati; sia che si tratti del negativo che può offuscare l’immagine che ci eravamo fatta di noi; sia che si tratti delle ferite del passato, mentre si credeva di aver avuto un’infanzia senza problemi, ecc.

 

Essere umili e accettazione di sé

Perciò essere umili è accettare ciò che si è. Riconoscere è ciò che viene per primo. Accettare è più difficile perché la persona può dibattersi e rifiutare di arrendersi umilmente alla realtà. Se il gusto della verità è sufficientemente liberato, potrà servire da punto di appoggio per “piegare le ginocchia”.

Spesso ci sono ostacoli, ad esempio: la chiusura e l’irrigidimento nell’immagine che si ha di sé e che si potrebbe chiamare orgoglio o sufficienza. C’è la paura. Per questo solo l’aspirazione alla verità che abita il cuore e la sua esperienza diretta dei benefici della verità possono far capitolare davanti alla realtà scomoda. Un segno che si è accettata la realtà, e non solo riconosciuta, è che si può parlare semplicemente.

 

Educare al senso di responsabilità della propria vita

Di fronte all’obiettivo di favorire il discernimento vocazionale e la crescita, ci si può chiedere: tra tante cose, iniziative, mezzi che vengono proposti al soggetto/i o fatte fare, che cosa è decisivo in ordine alla crescita personale? Che cosa non può mancare, pena il ristagno o il girare a vuoto?

Ciò che occorre aiutare a porre, ciò che costituisce come le pietre da costruzione sono gli atti costruttivi della persona. Si tratta di prese di posizione, di scelte piccole o grandi che a poco a poco danno consistenza, volto, configurazione alla persona. Solo l’interessato li può porre. L’educatore lo può facilitare tramite le condizioni favorevoli.

Per superare le dipendenze affettive occorre vivere ad un tempo un distanziamento dalle persone e dalle realtà vincolanti e una configurazione di sé secondo il proprio vero volto. I principali atti costruttivi sono i seguenti:

 

Gli atti costruttivi dell’identità di sé

Gli atti costruttivi del vero sé sono costituiti da prese di posizione nel concreto della vita. Come le pietre per costruire, essi costruiscono la persona a poco a poco. Vanno perciò posti con coraggio e costanza. I principali sono i seguenti:

– Gli atti di esistenza, di presa di posizione verso ciò che costituisce se stessi, di farsi avanti di fronte a se stessi e agli altri per chi e per come si è dentro rispetto alla non esistenza di sé. Questa non esistenza può configurarsi o come alienazione di sé all’altro in uno dei vari modi possibili quali la compiacenza (agire per avere un guadagno o per evitare un danno, anziché coerentemente con se stessi), l’atonia di sé, la negativizzazione di sé; oppure può prendere forma nella fuga da sé tramite la dominazione dell’altro, la strumentalizzazione.

– Gli atti di verità di sé per chi e per come si è in realtà, effettivamente, rispetto alle varie forme di non verità. Queste possono essere le forme di vergogna di sé, di ipocrisia o di doppia faccia, di doppio gioco, di illusione, di paura della verità perché dura da accettare in quanto causa di sofferenza o di fatica per l’interessato.

– Gli atti di resa al reale effettuale, di accettazione per poi trasformarlo, secondo la misura del possibile, rispetto alle varie forme di opposizione. Questa opposizione può prendere forma di attese indebite, di pretese irrealistiche; oppure può configurarsi come arroccamento difensivo attorno a qualche realtà idealizzata o di rintanamento in qualche trincea difensiva inutile e dannosa.

– Gli atti di umiltà in base a chi e a come si è effettivamente agli occhi propri come anche altrui. Questo va fatto in superamento o della grandiosità/sublimità propria dell’immagine di sé ipervalorizzata o del senso di vermitudine proprio dell’immagine negativa.

– Gli atti di presa di iniziativa rispetto alle varie forme di passività, di rinunciatismo o di evasione nel mondo dei sogni.

– Gli atti di amore/generosità rispetto o agli atti di grettezza, di piccineria, di egoismo o di paternalismo invadente.

– Gli atti di accoglienza dell’altro così come è, come anche dei suoi doni, rispetto alla pretesa di autosufficienza, di autonomia difensiva o di dominazione dell’altro in uno dei vari modi.

 

Riconoscere e disattivare le motivazioni inconsce

L’inconscio ha alcune caratteristiche che sono le seguenti:

– L’urgenza e l’esagerazione. La stima di sé carente causa una spinta peculiare di urgenza ed esagerazione.

– Le false aspettative. L’inconscio crea false aspettative. Quando uno ha bisogno, si attende una risposta qualsiasi ad esempio: cambiare luogo, mestiere, stato… L’alcolizzato cerca nel fondo del suo bicchiere la soddisfazione delle proprie frustrazioni… Il bisogno inconscio ha una specifica caratteristica che non è soddisfabile. È inutile cercare di soddisfare il proprio bisogno di essere stimati facendo straordinarie opere di carità. È da dentro che bisogna cambiare.

– I circuiti ripetitivi: Vi sono alcuni schemi di ricorrenza che, come un copione da seguire, si ripetono puntualmente. Essendo l’inconscio per definizione non conoscibile, è impossibile per l’inconsistente imparare dall’esperienza, per cui è condannato a ripetere eternamente il problema, a meno che non riconosca e lavori sull’inconsistenza personale.

– Le arbitrarietà: il soggetto, quando non è vincolato da schemi o strutture, reagisce in modo del tutto arbitrario e soggettivo.

 

Imparare a maturarsi in modo internalizzante

L’assimilazione dei valori può essere motivata in modo diverso:

– Per compiacenza: La persona accetta dati valori perché si aspetta una reazione favorevole dall’ambiente, o vuole evitare una reazione sfavorevole.

– Per identificazione: La persona accetta dati valori perché ciò permette una relazione intensa con una persona o un ambiente che sono ritenuti validi e gratificanti.

– Per internalizzazione: I valori si assimilano internalizzandoli. Tanto più si internalizzano i valori vocazionali, quanto più si è liberi di accettare tale valore che porta a trascendersi teocentricamente, quanto più si è disposti ad essere cambiati da detto valore; ed infine si fa tutto questo per amore dell’importanza intrinseca che il valore ha in sé, anziché solo dell’importanza che esso ha per me (egocentrismo).

In altri termini si ha internalizzazione quando accetto un valore di per se stesso e non per le gratificazioni che ne possono derivare; è un valore inoltre che accetto mi cambi da dentro, e mi porti a trascendermi.

 

Conclusione

Proprio perché si tratta di un servizio alla fede e alla vita della concreta persona la D. Sp. necessita di poggiare anche una corretta antropologia che metta a fuoco le caratteristiche imprescindibili e i dinamismi che agiscono sulla libertà e sui processi decisionali, anche vocazionali.

Occorre dunque ricuperare l’unità costitutiva di spirito, anima e corpo, evitando riduzionismi e parzialità dall’alto e dal basso che porterebbero a discernimenti altrettanto riduttivi e parziali. A loro volta sarebbero incapaci di attivare pienamente la fede, la libertà, il desiderio, gli appelli alla realtà, dimensioni che sostengono la risposta umana alla chiamata di Dio.

In questo itinerario la mediazione e il ruolo della G. Sp. sono decisivi sia perché il rapporto tra il chiamato e la risposta, tra polo oggettivo e polo soggettivo, resti equilibrato, sia perché vengano conosciute, riconosciute e rispettate le dimensioni costitutive della persona umana. Perciò è necessario far emergere il vero sé tramite un’opera di liberazione e di integrazione della mente, della volontà, del cuore e delle forze personali.

 

 

 

 

Note

[1] Cfr. SOVERNIGO GIUSEPPE, Educare alla fede, come elaborare un progetto, EDB Bologna 1995 i cc. II. Una concezione adeguata dell’educazione alla fede; pp. 29-52; e III. Formazione spirituale ed educazione all’“ortopatia”, pp. 53-83; Cfr. GARRIDO JAVIER, Educare la persona, l’arte di personalizzare l’educazione, Emp Padova 1995, pp. 17-32. Cfr. CAZZANIGA ANGELO, Educazione alla vita spirituale: scelta di fede e cammino vocazionale, in Educare i giovani alla fede, Ancora Milano 1990, pp. 165-185; Cfr. CORNATI DARIO, Per un approfondimento della categoria di “appropriazione”, in Il seme e la terra buona, giovani e fede: per un cammino di appropriazione, Ancora Milano 1993, pp. 55-70.

[2] Cfr. CENCINI A., MANENTI A., Psicologia e formazione, strutture e dinamismi, EDB Bologna 1985 pp. 111-152; RAVAGLIOGLI ALESSANDRO, Psicologia, Piemme Alessandria 1992, pp. 205-221.

[3] Cfr. CENCINI A., MANENTI A., Psicologia…, pp. 205-213.

[4] RULLA LUIGI, Struttura psicologica e vocazione, motivazioni di entrata e di abbandono, Marietti 1977, pp. 39-41. KERNBERG OTTO, Teoria delle relazioni oggettuali e pratica psicanalitica, Boringhieri Torino 1980, pp. 118 – 119.

[5] CENCINI A, MANENTI A., Psicologia…, pp. 127-128.

[6] Cfr. CENCINI AMEDEO, Liberazione dell’io, in Testimoni 6 ( 1997), p. 6. 

[7] CENCINI A,  MANENTI A., Psicologia… o.c., pp. 129-131.

[8] Cfr. CHARRON JEAN MARC, Da Narciso a Gesù, la ricerca dell’identità in Francesco d’Assisi, Emp Padova 1995, pp. 135-150. Cfr. VAN KAAM ADRIAN, Religione e personalità, La scuola Brescia 1972, pp. 133-205; Cfr. GODIN ANDRÈ, Psicologia delle esperienze religiose, il desiderio e la realtà, Queriniana Brescia 1983, pp. 181-227.

[9] Cfr. CENCINI AMEDEO, Alla scoperta dell’io, in Testimoni 4 (1997), pp. 3-5.