N.06
Novembre/Dicembre 1998

La fraternità dei preti: tempo tolto alla pastorale o sua risorsa straordinaria?

“Sicuramente è tutto tempo tolto alla pastorale”. Con quest’espressione si chiudeva un colloquio con un nostro amico sacerdote. Tra il serio e il faceto ci aveva presentato il computo di tutto il tempo che sprecavamo dietro alle incombenze domestiche. Col fare la spesa, lavare i piatti, cucinare, ecc., secondo lui, stavamo rubando tempo prezioso all’aggiornamento e alla pastorale. Pur vivendo insieme, sosteneva, sarebbe stato sufficiente organizzarsi con dei collaboratori per non gravare il sacerdote dei compiti che non gli spettano. Una convivenza, insomma, al servizio della pastorale. Nel senso che meno convivenza si può fare più tempo per la pastorale resta. Quindi si sta da soli, che è senz’altro meglio.

Quest’approccio alla vita comune è perdente in partenza; le varie esperienze di comunità presbiterali lo dimostrano: sono quasi tutte fallite. La carità pastorale “ad extra” è la conseguenza di una carità “ad intra” che deve avere i suoi spazi e i suoi modi di rendersi concreta. La riflessione pastorale è giunta solo dopo parecchio tempo a dedicare uno sguardo interessato ed acritico alle varie esperienze di vita comune tra presbiteri. Certamente a ciò ha contribuito la crescita del laicato e il dialogo sempre più profondo tra i presbiteri e le nuove proposte di spiritualità comunitarie. Anche per quanto riguarda la piccola storia della nostra comunità presbiterale dobbiamo mettere alla base di tutto una spiritualità comunitaria.

Siamo in tre, chi scrive ha trentadue anni e gli altre due sono sui cinquanta. Tutti e tre parroci nella stessa forania (vicaria) copriamo un territorio di circa novemila abitanti organizzati in quattro parrocchie. Inoltre ciascuno dirige un ufficio diocesano: il Centro Vocazioni, il Centro Famiglia e il Servizio di Pastorale Giovanile. Si aggiungono vari impegni nell’insegnamento. La nostra casa è allo stesso tempo il centro di un’unità pastorale e lo snodo di una bella fetta della pastorale diocesana. Proprio qui sta il rischio. Le attività possono soffocare lo svolgersi necessario della vita comune e diventare la sola “colla” che ci tiene insieme col pericolo che quella che dovrebbe essere una comunità potrebbe diventare un centro servizi, o peggio, un centro di potere.

Per salvaguardare la nostra comunità cerchiamo di ritagliarci degli spazi che si rivelano vitali: un giorno fisso di ritiro la settimana, che è aperto anche ad altri sacerdoti che condividono la nostra esperienza, dei tempi per la preghiera comunitaria, i pasti comuni per quanto è possibile, i servizi domestici che si rivelano indispensabili per poter essere una famiglia. Inoltre attuiamo la comunione dei beni con una cassa comune, distinguendo nettamente tra la nostra economia e quella delle parrocchie e dei servizi affidatici.

Vivendo insieme viene spontaneo comunicarsi gioie e dolori, condividere le difficoltà, incoraggiarsi nei momenti bui, pur sapendo che, alla fine, la croce va riconosciuta e portata da soli. Il fratello mi può aiutare a decidermi nel pronunciare quel sì che da solo sono chiamato a dire. Quando ci facciamo prendere troppo dalle “cose da fare” (e sono tante) suonano i campanelli d’allarme: poco dialogo, faccia scura, fretta, impazienza, ecc. Ci si aiuta, così, a crescere insieme correggendosi a vicenda, ma cercando che la verità sia detta nei momenti giusti “ricoprendola” di carità. La fraternità fra sacerdoti è già di per sé un segno che parla a tutti: i laici colgono la preziosità di tale esperienza, la rispettano e la incoraggiano. Talvolta, ad esempio, ci precedono, quasi senza preavviso, nella preparazione del pranzo, portandocelo a casa.

Potremmo raccontare mille episodi che caratterizzano la vita comune rendendola difficile, esigente, ma anche piena e gioiosa. Sì gioiosa perché ci capita anche di ridere. Potrebbe sembrare una cosa strana, ma, per noi sacerdoti, talvolta, fa bene sdrammatizzare, “sgonfiare” certe situazioni che potrebbero rendere angosciosa la vita. La solitudine nasce proprio dall’impossibilità, che spesso noi abbiamo, di comunicare il vissuto. Ed è bene che un sacerdote parli di se stesso, in profondità, con un altro sacerdote. Chi è sacerdote lo sa.

Dopo tutto ciò viene la pastorale. O meglio, speriamo, ci auguriamo che la nostra stessa vita possa essere una testimonianza vera dell’amore di Dio. Questo, però, non ci esime dall’organizzare, dal programmare, dal condurre un’azione pastorale articolata. Cerchiamo di non disperdere le forze e di lavorare in modo unitario. Ci aiuta enormemente l’aver fatto precedere le azioni da un rapporto vero e profondo: la collaborazione non si può solo costruire “sul campo”, ma ha bisogno di presupposti di stima reciproca, di capacità di accogliere, comprendere, rinunciare, ecc. Tutto questo ci sembra abbia un nome: carità. Concludendo vorremmo dire due parole sui nostri genitori. Il sacerdote ha sempre un rapporto privilegiato con la famiglia d’origine. Anche noi teniamo stretti contatti con le famiglie e bisogna dire che sono sempre un punto imprescindibile di riferimento. Col tempo i nostri parenti hanno cominciato a capire la bellezza e l’importanza della vita comune. Hanno dovuto accettare che anche noi siamo una famiglia e ciò ha aiutato anche noi nell’operare quel distacco psicologico che in tanti confratelli si è reso più difficile, se non impossibile.

La nostra piccola comunità non è un’isola e nemmeno un’oasi. È solo un piccolo segno, debole e inadeguato, di quella famiglia che a Nazareth ha vissuto col Signore presente in mezzo ad essa.