La vita fraterna di una comunità religiosa è lievito di fraternità nella comunità cristiana e oltre…
Il titolo del presente approfondimento mi pone un po’ di difficoltà. È uno di quei contributi che dovrebbero fornirci i già arrivati, quelli che stanno già in Cielo, nel seno del Padre, gli unici ad avere un’autorità e un’esperienza inconfutabile. Non è però impossibile a noi riconoscere quello che si dovrebbe fare per stimolarci a farlo, anche perché in questo stato di già e non ancora la perfezione consiste nel movimento continuo verso la gloria di Dio, nella tensione continua sempre più limpida e gratuita verso di Lui, dal quale tutto riceve esistenza energia e vita. E di questa tensione noi ne siamo capaci, aiutati dalla grazia di Dio.
Bisognerebbe prima di tutto poter stabilire in che cosa consiste la vita fraterna di una comunità cristiana e quali siano quelle caratteristiche di questa vita che permettono agli esterni di riconoscere una comunità come cristiana. Già l’autore della lettera a Diogneto (siamo nel II secolo d.C.) diceva che i cristiani non differivano dagli altri per questioni di cibi, o per vestiti particolari, o perché tutti se ne andavano ad abitare in un unico centro: stavano in mezzo al mondo. Era il loro stile di vita che li faceva vedere diversi.
Qualche dato evangelico
Nel Nuovo Testamento ci sono alcune indicazioni di notevole chiarezza, tanto che a mio avviso in Atti 2,42-47 è stampata come la carta d’identità del cristiano, carta di identità da fornire a ogni posto di blocco. Il cristiano è uno che partecipa assiduamente alle istruzioni degli Apostoli, alla koinonia (vita comune: non è così facile da tradurre, possiamo azzardare così: essere solidali e fraterni in tutto quello che è necessario e utile per condividere assieme il peso e le gioie della vita nelle “faccende” di ogni giorno, fino al punto di mettere ogni cosa in comune), allo spezzare del pane, alle preghiere (comuni). Al di là di quella che era la vita “segreta”, intima, privata di ciascuno di loro, la gente li riconosceva a prima vista per questi connotati. Permettetemi di riscontrare una quinta caratteristica, nascosta in queste quattro. Sappiamo sempre dagli Atti (1,14) che gli Apostoli “attendevano costantemente con un cuor solo alla preghiera, con le donne e Maria, la Madre di Gesù, e con i fratelli di Lui, in attesa dello Spirito Santo” non ancora effuso. Il prosieguo degli Atti mostra chiaramente che alla preghiera con un cuor solo attendevano anche dopo il dono dello Spirito. Comunque, quello che mi preme rilevare qui è che nella prima Comunità Cristiana è presente Maria, perché è la Madre di Gesù, umile nella sua presenza, sicura e rassicurante: conosciuta da chi la vedeva come la Madre di Gesù, la Madre del Risorto, Figlio del Padre, Madre che sotto la Croce aveva ricevuto in adozione un figlio, il discepolo che Suo Figlio amava. Queste sono dunque le caratteristiche visibili, comunitarie, espressione del cuore intimo dei primi credenti.
Ma che cosa facevano? Tutti conosciamo come continua il testo degli Atti, ma tutti sappiamo anche quel che dicono i testi dei primi cristiani a noi pervenuti. È la preoccupazione di tutti i primi Padri della Chiesa, obbligati a dare conto della Speranza riposta in loro (cioè della vita di Cristo nascosta in loro secondo Col 3,4) quella di fornire spesso l’elenco dei loro comportamenti pratici, visibili e condivisibili, per i quali erano anche perseguitati. Elenco che lo stesso san Paolo ci fa più di una volta, dipingendoci anche la fatica che grava sulle sue spalle per portare a tutti questo nuovo stile di vita (per esempio in 2 Cor 4,7; 11,23-32). Ma questi elenchi risalgono tutti a un’altra fonte perché in essa trovano la loro scaturigine: il discorso della Montagna dei capitoli 5-7 di san Matteo. Quello lì è lo stile del cristiano, uno stile del profondo del cuore, che solo Dio scruta, uno stile della vita di ciascuno, che è però inevitabilmente comunitario. Gesù lo mostra chiaramente, nella sua persona, con le sue parole, con i suoi comportamenti. Non c’è nulla di quello che l’uomo faccia o pensi che non abbia necessariamente risvolto comunitario, e non c’è nulla di quello che accade nella società delle persone che non abbia risonanza e implicazione nell’intimo di ogni singolo cuore.
Ma questa carta di identità è per tutti i cristiani. Che cosa può apportare di particolare una comunità religiosa di vita consacrata se “più di questo non si può”?
Prima di abbozzare una risposta può essere utile aggiungere qualche altro dato evangelico. C’è un comandamento nuovo che Gesù lascia alla fine della sua vita terrena. Un comandamento che riassume tutto quanto c’era di valido, di eterno nella legge mosaica (e in ogni legge umana) e che è l’esegesi di tutta la vita di Gesù, del suo cuore. Parafraso a modo mio: amatevi come io vi ho amato: e io vi ho amato come il Padre ha amato me. Lui e io vi amiamo così, come io vi ho mostrato. Voi amatevi così (cfr. Gv 15,915). Questo comandamento è strano! Si può comandare di amare!? Sembrerebbe dover essere una “cosa spontanea”, soprattutto nella società di oggi. Questo comandamento apre a una promessa e a qualcosa di più ancora: Così porterete frutto e il vostro frutto durerà. C’è dunque un riscontro, una prova del nove per sapere se il comandamento è custodito. Ma non solo, possiamo dire di più: Gesù affida ai suoi due mandati. Ricordiamo anzitutto il secondo: andare in tutto il mondo, predicare il Vangelo e battezzare tutte le genti perché siano salve (Mt 28,1820). Andare, predicare, battezzare. Prima ancora, però, sempre nel contesto dell’ultima cena Gesù prega il Padre così: “che tutti siano uno, Padre, come Tu in Me e Io in Te… in modo che il mondo creda che Tu mi hai mandato” (Gv 17,21). Prima ancora della predicazione e del battesimo sembra che Gesù ponga quest’altra missione, che è anche una condizione: se vi amate come il Padre e io “siamo uno solo” il mondo crederà. Missione e condizione queste che richiamano la prova del nove già ricordata.
Abbiamo posto alcuni dati per la nostra riflessione: ci ripetiamo ora la domanda, una comunità di vita consacrata può fare più di questo, può offrire più di questo al mondo? No: più di quello che “fanno” il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo non si può. Solo che la persona consacrata che vive in comunità assume in tutti i più piccoli risvolti e nelle più piccole sfumature quella che è stata la vita di Gesù insieme con i suoi discepoli, con il suo seguito più stretto di fedelissimi e fedelissime. C’è una radicalità assoluta che si esprime nei tre consigli evangelici vissuti, caratterizzati dalla vita in comune, radicalità inventata da Gesù. Ma questa radicalità non è un tesoro geloso, un titolo di merito personale: è un dono ricevuto e un compito verso tutti quelli che, invece, ricevono dal Signore la vocazione di essere il lievito inserito nel mondo che fa fermentare la santità, sì che tutto il creato giunga alla piena maturità di Cristo. E questi sono i laici. È una radicalità a servizio degli altri, è proprio una radice – per giocare sull’espressione radicalità – che permette alle piante le più varie di esprimere la vita di Dio. La radice che consente a tutti i più vari e veri carismi della vita laicale femminile e maschile e sacramentale (il matrimonio) di essere sempre in riferimento alla terra fertile, di essere sempre i tralci attaccati alle vite. La memoria, l’appello, la presenza e la preghiera perché ogni cristiano realizzi quei due mandati.
Una riflessione: “guarda come si amano!”
In tutto il Nuovo Testamento è evidentissimo che la nuova vita fraterna dei discepoli di Gesù non è nata per simpatie umane, per accordi di coalizione, per condurre insieme un’attività lavorativa, o perché quei discepoli si siano innamorati tra di loro. Non si sono scelti loro, non si sono detti “proviamo a metterci insieme, e vediamo se ce la facciamo”. La vita fraterna del Nuovo Testamento è essenzialmente una vocazione, non sorge da un istinto di filantropia o da esigenze di solidarietà. È vocazione: Dio chiama in Gesù le persone a vivere insieme con il Suo Figlio e quindi tra loro, e dona per questo una capacità di amare che non è semplicemente frutto del cuore umano. La vita fraterna è una chiamata di Dio: questa è una delle più grandi certezze della comunità cristiana, e questa certezza e realtà si trasmettono ancora oggi al mondo in special modo attraverso la vita consacrata comunitaria. Anche oggi coloro che vivono in comunità non si mettono insieme perché ci sono tra loro delle affinità relative, ma solo perché Gesù li chiama. Credo che questa debba essere oggi la prima grande testimonianza che deve offrire una comunità religiosa. Lo esprimo con parole alla buona, a tre livelli: bisogna che la gente:
– sia contenta di vedere che i fratelli e le sorelle di una comunità religiosa stanno insieme, provi come una certa attrazione per la loro vita in comune;
– sia provocata continuamente da questa domanda “ma come fanno a stare insieme?”;
– desideri vederli stare insieme, per trasportare nella vita di ogni giorno, in famiglia, nel lavoro, nello svago, nella sofferenza questo nuovo tipo di fraternità.
Ecco dunque la prima grande certezza e la prima testimonianza: è il Signore che ci chiama a stare insieme, non la nostra simpatia, i nostri affetti.
Naturalmente non vuol dire che la comunità di vita consacrata trascura o nega gli affetti umani. Tutt’altro, li realizza al di là di quello che è solamente umano, troppo umano, e che finirebbe nel poco o nulla di umano. La vita fraterna in una comunità di vita consacrata afferma che c’è un significato della nostra personalità e affettività, della nostra intelligenza e volontà che va oltre l’immediato e che realizza proprio quest’altro tipo di fraternità umana. Tutta l’affettività umana, e la capacità di attrazione e tensione verso l’altro e di coinvolgimento nell’altro sono doni regalatici da Dio, la vita in comune del consacrato afferma che il bisogno di stare insieme insito nella nostra natura ci è stato donato per realizzare la chiamata della grazia, non per rimanere fine a se stesso.
Alcune constatazioni
Se tentiamo un’attualizzazione dei cinque connotati della carta d’identità di cui sopra, penso che da una fraternità consacrata si possa pretendere almeno quanto segue, perché sia fermento nella comunità dei fedeli.
L’assiduità all’insegnamento degli Apostoli
La predicazione, la catechesi che una comunità di vita consacrata svolge nel suo ministero deve senz’altro essere nutrita profondamente del magistero della Chiesa (oggi così ricco anche dal punto di vista personale, oltre che dottrinale e morale), tanto da avvicinare sempre più i fedeli ad avere contatto diretto con esso. Una catechesi armoniosa, ricca, ma semplice, alla portata di tutti. Fatta in modo comunitario: deve risuonare una catechesi fatta con un cuor solo e un’anima sola. Spesso incontriamo nel ministero fedeli tenuti alla larga dalla conoscenza diretta del magistero Apostolico e un po’ disorientati su questioni non marginali e non opinabili. Si tratta di portare la verità di Cristo con la carità di Cristo e di aiutare tutti ad attingere alla fonte.
Dobbiamo poi lasciarci interrogare da questo fatto: i fedeli delle prime comunità erano assidui e ascoltavano volentieri l’insegnamento degli apostoli, un insegnamento che parlava di Gesù e portava alla sua conoscenza profonda. Inoltre, l’unione degli apostoli attorno a Pietro nel loro ministero era senz’altro motivo trainante e coinvolgente e duraturo per i primi cristiani, soprattutto era la prova della origine divina del loro mandato e della loro vita nuova. La comunità di vita consacrata deve brillare dinanzi alla comunità per tutti questi intendimenti, sulle orme della fraternità itinerante missionaria di Gesù, che con i suoi discepoli e le sue discepole evangelizzava le genti della Palestina.
La vita comune
Difficile a tradursi con una sola parola quel termine koinonia, ma certamente più facile è farne l’esegesi con l’aiuto dello stesso testo degli Atti. Al cap. 4 (vv. 33ss.) e al capitolo 6 ci è offerta la descrizione di come la comunità apostolica veniva incontro alla preoccupazione per la vita di ogni giorno. Mettevano ogni cosa in comune, non c’era nessun bisognoso tra di loro; gli apostoli affidavano ad altre persone di “buona fama, piene di spirito e di sapienza” l’incarico di vigilare e stimolare la continua carità reciproca. Non solo elessero i diaconi, ma seppero ovunque suscitare e scoprire tra i fedeli la corresponsabilità e la collaborazione amorosa e radicale all’evangelizzazione.
La condivisione e il sostegno nella vita esigono che in una fraternità cristiana si individuino i carismi, i doni che consentono ai fedeli di collaborare all’opera apostolica e di darle un respiro sempre più ampio. Se infatti all’inizio della sua vita umana e cristiana una persona deve essere servita dalla Chiesa, man mano che cresce deve a sua volta servire nella Chiesa, donare la propria vita.
La comunità religiosa consacrata, proprio perché costituita da fratelli e sorelle che vivono insieme, che lavorano insieme per il Regno di Dio, deve con attenzione e lungimiranza cogliere e mettere a frutto la capacità di collaborazione dei fedeli, stimolarli e incentivarli alla comunione nell’apostolato e nella carità. In effetti, il consacrato è chiamato in modo del tutto specifico a vivere all’interno del proprio Istituto la collaborazione, l’avvicendamento, il sostegno reciproco, riconoscendo e stimolando e sostenendo i doni del confratello. Questo stesso stile deve essere travasato nella conduzione delle opere pastorali con i fedeli. Si lavora insieme per il Regno, al seguito di Gesù: per cui è necessaria una certa condivisione dei beni spirituali e materiali, a seconda delle circostanze, opportunità. Da una comunità di vita consacrata deve fluire nei fedeli una particolare spinta alla collaborazione e solidarietà soprannaturali.
Lo spezzare del pane. La preghiera comune
Indubbiamente, se la liturgia e l’azione somma che Gesù Cristo compie con la Sua Chiesa, che è il suo Corpo, essa per eccellenza deve manifestare l’unione dei cuori, la carità comunitaria. Una fraternità di vita consacrata dovrà esprimere l’origine divina della sua comunità nella celebrazione dei sacramenti, nella preghiera liturgica dell’Ufficio Divino e in tutti i momenti di preghiera comune, sollecitando iniziative in questo senso per mantenere sempre desta nei fedeli l’armonia tra la preghiera personale e quella comunitaria. Una comunità consacrata deve fare da traino nella cura dello studio e della venerazione per la Parola di Dio, nel modo di pregare insieme, nella suddivisione dei ministeri a servizio del culto divino, nella formazione liturgica dei fedeli, in modo che tutti, anche i frequentatori occasionali, si possano accorgere che lì si prega senza fretta con una comprensione sempre più piena del mistero divino, con la possibilità di cogliere sempre di più il senso dei segni e gesti liturgici, con un desiderio sempre maggiore di incontrare Gesù Cristo.
Soprattutto una comunità di vita fraterna non deve mai dimenticare che la catechesi più profonda e ampia sorge sempre nell’ambito di una liturgia vissuta pienamente (come ce lo testimoniano le comunità apostoliche), e che anche la spinta alla sollecitudine nella carità per le esigenze dei bisognosi scaturisce dal confronto con il mistero di Gesù, nel quale siamo iniziati sempre più nelle celebrazioni liturgiche. La carità soprannaturale, che non può essere solo filantropia, è radicata nel mistero di Gesù, non tanto nella compassione umana comunque radicata nel cuore di ogni uomo.
Aspetto Mariano
Maria è madre della comunità cristiana, consiglio, rifugio, stimolo alla vita comune, via all’unione con Cristo, esegesi di Cristo. L’importanza di una mamma in una famiglia la comprende soltanto chi ne è rimasto orfano. Una comunità di vita consacrata dove non si respiri l’affetto filiale per Maria, l’affidamento a Lei di ogni opera è una comunità priva della radice, della fonte umana dalla quale è scaturita per noi tutti la vita divina. Senza questa Madre non è possibile la vita fraterna. E con un’espressione da fanciulli, potremmo dire: qual è il bambino che non parla agli altri della sua mamma? Se accade, vuol dire che c’è qualche serio problema. Non è possibile che una comunità di vita fraterna non esprima il suo affetto per Maria e non coinvolga i fedeli in questo amore.
I consigli evangelici
Lascio da parte tutte le riflessioni – peraltro importantissime – che ci permettono di fare le scienze umane. Guardiamo Gesù, casto povero e obbediente: ci rendiamo conto che la castità, la povertà e l’obbedienza assumono un valore particolare per tutti i cristiani; non sono soltanto mezzi per santificarsi, ma molto di più, e non sono limiti. Sono le qualità profonde con cui Gesù ha realizzato la Sua vocazione di perfetta Immagine del Padre nello Spirito e di Redentore degli uomini; qualità dunque con le quali ha realizzato perfettamente le sue profonde capacità umane (l’intelligenza, la volontà, il corpo, la sua sessualità, la memoria, l’immaginazione), le sue passioni, gli affetti, i sentimenti. Il modo in cui Gesù ha vissuto la Sua vita umana realizza pienamente tutte le capacità e tutti i desideri più veri della natura di un uomo. Con un linguaggio moderno si direbbe che Egli è l’uomo perfettamente integrato con se stesso e con gli altri.
Per Lui, dunque, non esercitare la sessualità nel modo coniugale, non possedere nulla di proprio, obbedire all’amore (volontà) del Padre, compiere il progetto ricevuto da Lui non ha costituito motivo di alienazione, di insoddisfazione (guardiamolo nel momento della morte: non muore insoddisfatto; tutt’altro, muore con la consapevolezza che ha compiuto tutto, perdona ai suoi uccisori e mette nelle mani del Padre lo Spirito). Questo vuol dire che è possibile vivere casti poveri e obbedienti e con ciò stesso realizzare pienamente sé e gli altri. Una comunità di vita consacrata deve trasmettere questa certezza, e cioè che la castità, la povertà e l’obbedienza vissute in riferimento a Dio sono la realizzazione di ogni uomo.
Mi soffermo sull’amore verginale. Pur rivestendo anch’esso i limiti di una creatura, di per sé è il segno completo di come la Chiesa già qui in terra è inserita nell’eternità e risponde in pienezza all’amore totale, indissolubile, radicale, eterno di Cristo. E poiché tutti coloro che sono chiamati in questo spazio dell’esistenza terrena alla vita coniugale nella consumazione del regno dei Cieli vivranno secondo questo amore verginale (cfr. Mt 22,30) e ad esso si preparano fin d’ora, guardando a chi vive con serenità e gioia lo stato dei consigli evangelici devono provare come una certa attrazione verso il Cristo casto povero e obbediente.