Non è bene che l’uomo sia solo… Il rischio dell’altro
Il centro delle cose e della preoccupazione è la coesistenza dei volti, è il primato, dopo tanto asservimento, dell’altro, dell’amore del prossimo. Basta con lo sterile e violento primato della conoscenza, al centro deve tornare l’etica, liberata da ogni interesse politico e religioso, dell’esistere per gli altri, il fare al posto del conoscere e del dire. È questa la grande e prospettica lezione di Lévinas[1].
E – prosegue Borsato nella sua presentazione del grande pensatore recentemente scomparso – la domanda sul futuro è quella legata alla comunione dei volti, a cosa ci sia da fare e da patire nel vivere faccia a faccia con il volto degli altri. Eppure questo patire nello stare di fronte all’altro, questo esodo da sé è via privilegiata per dar nuovo fiato a questa società.
Con le brevissime annotazioni consentite dallo spazio di un articolo, provocati dalle sollecitazioni del pensatore ebreo, riandremo ad alcuni brani della Parola per lasciarci destabilizzare. Sempre con Lévinas potremmo dire che è necessario giungere al “dis-inter-esse”, cioè a vivere la relazione tra i volti (inter) in modo da deporre il nostro io che tende ad imporsi (dis+esse).
Vocazione al “dis-inter-esse”: un’altra sfumatura nel nostro porci alla sequela di Colui che “non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio” (Fil 2,6).
La città con la torre
Non soffermiamoci sul brano di Gn 2,18-25. Teniamo solo davanti a noi la stimolante verità che questo testo afferma: l’uomo è veramente se stesso quando ha di fronte a sé un “altro da sé”. L’Adamo può percorrere il cammino per diventare quello che Dio ha pensato per lui unicamente accettando l’alterità. Essa comporterà sempre una conflittualità: l’altro ci farà sempre paura (e l’alterità uomo-donna è la manifestazione più radicale di questa alterità).
Eppure, narra l’antica sapienza, è meglio essere in due che uno solo perché: “Guai a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi” (Qo 4,10). La fatica di accettare l’altro, quindi, è comunque benedizione.
Non analizzeremo, dunque, la radicale alterità scritta nel corpo stesso dell’uomo e della donna, ma vedremo piuttosto un brano che ne evidenzia un’altra dimensione, quella storica, culturale, relazionale: ci riferiamo al brano della torre di Babele che si legge in Gn 11,1-9.
In Gn 2 lo stupore di Adamo si esplicita nel trovarsi di fronte un “aiuto che gli sta davanti” simile e dissimile ad un tempo. Eppure, nel capitolo successivo, il testo sacro ci mostra come questa alterità, in forza della sopraffazione del più forte, voglia essere cancellata: la passione spingerà la donna ad assoggettarsi alla potenza dell’uomo. Questo movimento di prevaricazione dell’uno sull’altra è lo stesso movimento che il libro della Genesi ripropone nel testo della torre di Babele.
Per comprendere l’episodio è necessario rifarci al capitolo decimo, a quella “Tavola dei popoli” in cui si legge: “Etiopia generò Nimrod: costui cominciò ad essere potente sulla terra. Egli era valente nella caccia davanti al Signore, perciò si dice: Come Nimrod, valente cacciatore davanti al Signore. L’inizio del suo regno fu Babele” (Gn 10,8-10)[2].
Dunque la città di Babele era nata da un capostipite particolarmente “potente”: è la parola-spia che ci conduce a comprendere la vicenda della grande città. Il racconto della torre è posto, come dicevamo, dopo la tavola dei popoli, vera epifania della benedizione scaturita dalla potenza di Dio che ha perdonato i peccati degli uomini concedendo un’arca a Noè e numerosa posterità ai suoi figli Sem, Cam, Jafet. Si legge nel capitolo 10: “Da costoro derivarono le nazioni disperse per le isole nei loro territori, ciascuno secondo la propria lingua e secondo le loro famiglie nelle loro nazioni. Questi furono i figli di Sem secondo le loro famiglie e le loro lingue nei loro territori, secondo i loro popoli” (Gn 10,5.20.31).
Una pluralità, quindi, segno della multiforme azione dello Spirito di Dio che, aleggiando sulle acque e vedendole avviluppate in una massa informe, iniziò a separare per dar forma alla terra asciutta e ai mari, ai campi e ai monti, alle piante e agli animali… Separare per far esistere: ecco l’azione dello Spirito. Anche se ciò può apparire contraddittorio con quanto spesso affermiamo, cioè l’azione unificante dello Spirito, cerchiamo di cogliere la portata di queste provocazioni che ci riconducono alla misteriosa azione di Dio. Egli stesso, è, in se stesso, misteriosa comunione che si “oppone” nella perfetta diversità delle Persone, ma riposa nella quiete della comunione.
Questo Volto tripersonale di Dio si riflette nella pluralità dei volti degli uomini, nelle loro lingue, nelle loro consuetudini, nel loro far famiglia in modo spesso così dissimile. Ma la diversità non implica necessariamente subordinazione, incapsulando in una gerarchia che, ponendo sempre la propria cultura al centro, vede necessariamente nell’altra un’inferiorità. L’essere pluralità di popoli e pluralità di lingue è epifania della fecondità della benedizione di Dio.
“Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole” (Gn 11,1). Questo inizio alza il sipario su un grande dramma. Significa che Nimrod era riuscito ad estendere ovunque la sua potenza, ad assoggettare tutti, a livellare le differenze.
Nimrod e i suoi detengono le chiavi della cultura e, con esse, anche quelle della potenza tecnica. Si possono permettere di far costruire mattoni a quanti sono schiavizzati nel lavoro, come avvenne agli ebrei in Egitto: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo” (Gn 11,4). Dio stesso deve venir spodestato nella sua radicale alterità. Anche il cielo deve essere posseduto.
Gli uomini di Babele hanno perso l’orientamento: “Emigrando dall’oriente” dice il versetto 2, con una notazione più teologica che geografica. Non sono più “orientati” gli uomini. La loro potenza li ha accecati e si allontanano da Colui che è la loro esistenziale certezza. Dis-orientati i figli di Nimrod vogliono innalzare la propria potenza e farsi un nome, sostituendo il proprio all’unico “Nome” che salva.
La terra, nel disegno di Dio, doveva essere un giardino affidato alla cura dei figli dell’uomo, ma essi hanno preferito farne un luogo di prevaricazione e di predominio. Eppure Dio, come sempre, non si arrende. Egli scende a parlare coi figli di Nimrod come era sceso a parlare con Adamo. Scende e “confonde” le lingue per riportarle alla verità del dialogo. Non si dialoga con chi è omologato, appiattito… Solo la differenza, accolta e valorizzata, è sorgente di comunione.
Nella “tavola dei popoli” settanta erano le culture e le lingue. Una totalità di linguaggi per render possibile una sinfonia di fraternità. La misericordia di Dio ristabilisce le differenze: questa misericordia è il castigo inflitto da Dio! Dio disperde gli uomini affinché non credano di avere un linguaggio, una parola, cioè un possesso della realtà Così onnicomprensivo da renderli “come Dio”. La verità della propria grandezza e della propria debolezza insieme, sta nel comprendere che “non è bene che l’uomo sia solo”. Rivelazione della indigenza esistenziale, del limite scritto in ogni creatura.
Verrebbe spontaneo chiedersi: “E allora, l’anti-Babele che è il miracolo della Pentecoste?”. Luca non dice che gli apostoli parlassero le lingue di tutti i convenuti a Gerusalemme: parti, medi, elamiti… Dice piuttosto che questi “li udivano parlare nella propria lingua”. Noi oggi diremmo “inculturazione della fede, necessità che in ogni lingua della terra sia annunciato l’Evangelo”. Solo lo Spirito può essere protagonista di tale prodigio.
L’alterità luogo della rivelazione di Gesù
Diceva Lévinas: “Incontrare un uomo significa essere tenuti svegli da un enigma”. Se questo è vero per ogni uomo, a maggior ragione possiamo dirlo per il Signore Gesù. Se possiamo affermare, ancora con il grande filosofo, che la dimensione del divino si apre a partire da ogni volto umano, cosa dire del Volto di Gesù: “immagine del Dio invisibile”?
La vocazione alla fraternità che passa attraverso la sfida dell’alterità, come l’abbiamo letta nelle pagine della Genesi, è stata vissuta e riproposta anche nell’esperienza terrena del figlio di Giuseppe: Uomo tra gli uomini. Non soffermiamoci sulla sua azione tra i dodici per renderli comunità di discepoli. Fermiamoci piuttosto su di Lui.
È Gesù stesso quella parola, così divina e così umana, che rende possibile il dialogo tra uomo e uomo, tra uomo e Dio. Eppure lui stesso, Figlio di Dio, ha accettato di parlare una lingua sola, diversa dalle altre, meno nobile del greco e del latino, meno potente… Si è fatto uomo, ed ebreo, il Signore Gesù! Seguire lui significa anche accettare il limite che è la nostra cultura, la nostra lingua, il nostro tempo. L’evangelo da annunciare oggi deve farsi carico della complessità (intra ed extra ecclesiale) ponendosi alla scuola dell’alterità come grande maestra di fraternità.
Ripercorriamo alcuni brani dell’evangelo di Giovanni per scoprire come la rivelazione della personalità di Gesù passi, di frequente, attraverso incontri fatti con persone a lui estranee. Il conoscere “tutto” di lui, che è il figlio di Giuseppe e i cui fratelli e sorelle sono tra noi, può rendere difficile lo stupore di fronte alla sua totale novità. La fraternità non dà mai niente per scontato; la fraternità è stupore di fronte alla novità assoluta dell’altro che ci provoca a condividere spazi nascosti della nostra stessa persona.
Al pozzo di Sicar la donna di Samaria si pone di fronte allo “straniero” con diffidenza, eppure il suo tentativo di evadere l’incontro, di nascondersi dietro le parole, conduce il Signore a rivelarsi con profondità inaudita: “(Il Messia) sono io, che ti parlo” (Gv 4,26).
Alla festa della capanne i “fratelli” invitano Gesù, quei fratelli che non credevano in lui (cfr. Gv 7,5). Eppure “quel tale” che non si sapeva se sarebbe venuto alla festa, quello che ingannava la gente al aire di molti, colui che era accusato di esser posseduto da un demonio, proprio lui si pone come sorgente inesauribile di vita, acqua zampillante (cfr. Gv 7,11-12.37).
L’episodio del cieco nato rivela una grande ostilità nei confronti di Cristo, ma proprio l’incalzare delle obiezioni, il persistere della chiusura conduce Gesù a manifestarsi come Figlio dell’uomo: “Tu l’hai visto – dice al cieco guarito – colui che parla con te è proprio lui” (Gv 9,36).
Nell’ultima pasqua di Gesù anche dei greci erano venuti per incontrarlo e, al loro desiderio di vederlo, il Signore ha risposto presentandosi come chicco che deve accettare il silenzio della terra, marcire e rinascere proprio in forza di quel consegnarsi al Padre che si sarebbe realizzato poco dopo. Una consegna che era significata anche nella consegna di Giuda. La rivelazione dall’amore supremo che passa attraverso l’incontro con gente di altra cultura, con un amico che tale ha cessato di essere (cfr. Gv 12,20ss).
E ancora l’interrogativo sibillino di Pilato sulla verità, posto sulle labbra più che nel cuore del potente romano, che riteneva di aver in pugno le sorti di quel malcapitato galileo… “Tu non avresti nessun potere…” (Gv 18,11). E il silenzio del Signore inquieta colui che dovrebbe pronunciare la parola decisiva…
Nei racconti della risurrezione gli occhi di Maria sono incapaci di vederlo: egli si cela nei panni del giardiniere. E a Pietro e Giovanni prepara il pesce, estraneo presso il lago… Sempre diverso il Signore, sempre inafferrabile (cfr. Gv 20,11 ss).
La nuova fraternità
Una fraternità che nasce dall’alterità. Scrive Enzo Bianchi, fondatore della comunità di Bose: “L’irrompere della diversità nella quotidianità delle nostre vite oggi ci turba, quasi incombesse come oscura minaccia della nostra identità. Ma non di minaccia si tratta, bensì di purificazione, di assunzione di consapevolezza: l’altro è colui che mi permette di capire chi sono, colui che per opposizione mi plasma, colui che rafforza la mia identità proprio mentre la contesta: il nemico è il migliore dei maestri che incontriamo nella vita”[3].
La via per ritrovare la fraternità passa, quindi attraverso il riconoscimento della diversità. Se Caino avesse accettato di essere “diverso” da Abele non lo avrebbe ucciso uccidendo così anche la propria possibilità di essere “fratello”.
Le nostre comunità cristiane vivono in modo sempre più ravvicinato la provocazione dell’altro: immigrati intra ed extracomunitari ci riversano addosso il loro carico di domande, di imprecazioni, di attese, di speranze. E lo fanno in altra lingua, in altra religione…
Siamo adeguati a cogliere queste domande e a vivere la nostra sequela di colui che era straniero nella terra di Samaria eppure ha saputo dialogare con la donna e farle desiderare l’acqua della verità? Le comunità religiose, per molti aspetti sono palestra di questa città futura, poiché la mondializzazione delle congregazioni genera fraternità pluriculturali. Ma la fatica è grande.
Ed ancora, alterità è la differenza di età, di condizione sociale, perfino di appartenenza ad aggregazioni ecclesiali… È necessario che ogni comunità ecclesiale, per non essere Babele, si lasci edificare da Dio. Bisogna che ciascuno sosti nella preghiera e si abiliti, nell’accettazione dell’altro, ad accogliere la fraternità nuova che scende dal cielo, vestita come sposa pronta per la grande festa di nozze tra Dio e l’umanità, un’umanità salvata da ogni tribù, lingua, popolo e nazione (cfr. Ap 21,1ss).
Note
[1] B. BORSATO, L’alterità come etica. Una lettura di Emmanuel Lévinas, EDB, Bologna 1995, p. 142.
[2] Per l’approfondimento confronta E. BIANCHI, Adamo dove sei?, Qiqaion, Bose 1990.
[3] E. BIANCHI, Da forestiero nella compagnia degli uomini. Piemme, 1995, p. 15.