Uno solo è il Padre, uno lo Spirito, noi siamo tutti fratelli
Se è vero, come è vero, che il presente di ciascuno di noi è segnato dalle esperienze vissute, dagli incontri che ci sono capitati, dagli ambienti che abbiamo attraversato; se è vero che, in qualche modo, tutti siamo segnati da una collana di eventi legati sul filo del nostro passato, al punto che qualcuno sostiene di non potersi dire, a proposito di se stessi, “Io”, ma che sia più corretto dire di ognuno “Noi”, perché ogni persona è come la composizione di ciò che genitori, educatori, conoscenze, hanno depositato nel suo vissuto; se è vero che spesso rincorriamo situazioni e luoghi dell’infanzia e della adolescenza, per tornare a viverne le piacevoli sensazioni; se è vero, infine, che le tracce del passato ci accompagnano, caratterizzandoci in modo inevitabile e come permanente, è altrettanto vero che stesso effetto ha su di noi il futuro. Sì, insospettabilmente e misteriosamente, anche il futuro ha il suo peso nell’esperienza quotidiana, esercitando su di noi il suo influsso e orientandoci nei nostri comportamenti. E qui l’astrologia non c’entra!
Tra memoria e profezia
È come se avessimo già memoria di ciò che saremo, non proprio all’indomani, ma più in là nel tempo, in un futuro più sostanzioso della nostra immaginazione, più corporeo della nostra fantasia. Sono la voglia di bene, la gioia nel dare (cfr. At 20,35), il piacere di stare insieme, di fare festa, che rincorriamo pure a dispetto di ogni precedente esperienza fallita, di ogni ammonimento o sentenza del tipo “vita communis, maxima poenitentia”. È la ricerca continua dell’uomo, non solo del credente, che porta nel profondo il senso della maledizione biblica sulla solitudine (cfr. Mt 25,31-46), quella presuntuosa ed egoistica (cfr. Gn 2,18; Tb 8,6; Qo 4,10) non quella eremitica, e il senso della benedizione della Gerusalemme celeste (da Ap 21,10) l’esito finale della esistenza umana appare inscritto in una realtà comunitaria e ordinata: la città santa. Essa è libera (Gal 4,26), celeste (Eb 12,22), nuova (Ap 21,2); non opera di uomini, ma… possibile a Dio (Mt 19,26).
Quasi un codice genetico
È ciò per cui siamo stati creati, e di conseguenza orienta il nostro comportamento. È dentro di noi come un’attrazione discreta, che sottende alle nostre scelte, soprattutto quelle vitali. Quel piano di Dio che ci portiamo dentro, come un DNA non genetico ma salvifico, impresso nel profondo, che, per il credente cristiano, si perfeziona “con” e “in” una vita sacramentale curata. Il futuro di cui qui parliamo non dice relazione col tempo o con lo spazio; si riferisce, piuttosto, ad uno status e attiene a quella “famiglia” che vedrà l’unico eterno Padre con i suoi figli, in festa intorno alla mensa escatologica (cfr. Is 25,6).
È una realtà spirituale, intimamente connessa all’esito glorioso e definitivo della creazione, che già ora risuona nel cuore dell’uomo. La vocazione che, in tutti i luoghi e tutti i tempi, si esprime nella gioia per i momenti di festa, nei benefici del vivere comunitario e nella nostalgia di qualcosa di bello, per sé e per chi è caro.
Vocazione che l’uomo palesa magnificamente, di là da schemi religiosi, nella “compassione” per l’altro, perché l’altro è per lui come un centro di gravità. Il bisognoso, infatti, lo appella nell’intimo; il solo in qualche modo gli appartiene; lo straniero o forestiero non gli è totalmente estraneo; del freddo dell’ignudo avverte le fitte; l’affamato e l’assetato non si allontanano da lui senza partecipare alla sua mensa o alla sua fonte (cfr. Mt 25,31-46). Il giudizio finale, infatti, secondo il Vangelo del Signore Gesù, non verterà su delle pratiche, in odore di fariseismo, tranquillanti della coscienza, che, pur religiose e comandate, non impegnano il cuore; sarà, invece, su quelle opere che non hanno bisogno di precettistica e il cui fondamento Dio ha posto nel centro dell’uomo facendolo sentire in maniera insonne fratello universale.
Prima di tutto perché questa è la verità all’interno della Trinità, dove l’“Altro” è il centro; il Figlio è il centro delle attenzioni del Padre e il Padre è il centro dell’amore del Figlio e lo Spirito spinge l’Uno all’Altro in una tensione permanente e dinamica. Reciprocità più libera, più profonda, più creativa e più volitiva di quanto possano sperimentare gli sposi nell’intimità coniugale o due soci nel conseguimento dei fini dell’impresa o due amici nel ritrovarsi.
La vita trinitaria ci viene incontro e si muove, come in una gestazione, nell’uomo di terra animato dal ruah divino. Questa vocazione ad essere “concittadini dei santi e familiari di Dio” (Ef 2,19) ha risonanze esistenziali nell’uomo, ontologiche; non esteriori, destinate a citazioni solo liturgiche o, peggio ancora, ritualistiche. Anzi, proprio perché la vita comunitaria è vocazione nativa, ontologica, ha anche risonanze liturgiche.
Dalla vita alla preghiera e viceversa
Alcuni gesti liturgici, in particolare quelli che preparano o esprimono la comunione eucaristica, come lo scambio del segno di pace, la colletta di offerte in denaro, la preghiera del Padre Nostro, l’atto penitenziale (si noti, ad es., la coscienza comunitaria del peccato, espressa nelle parole dell’“Agnello di Dio”: esse si arrestano sul “noi” come su ultimi responsabili del peccato del mondo), danno l’impressione, talvolta, di essere semplici gesti di passaggio per arrivare alla comunione sacramentale, su cui si è puntata una certa spiritualità, non comunitaria e festosa come dovrebbe essere, ma intimistica ed individuale.
La liturgia anticipa il Regno di Dio a mo’ di “rudimento”. Attraverso la liturgia siamo in un rapporto da uovo a gallina (absit iniuria verbis!) con la vita del Cielo; ma, proprio qualche primitiva voluttà ritualistica, gioca anche ai cristiani il brutto tiro di farli contentare dei riti, celebrandoli per se stessi e non per quello che annunciano e producono nella loro vita. Certe celebrazioni festive, anche domenicali, che dovrebbero dare respiro ai nostri sforzi e anticipare la festa finale, rischiano il più delle volte di concludersi in se stesse, di ripiegarsi narcisisticamente, in una congerie di attenzioni ritualistiche, catechetiche, pastorali e quant’altro, senza compiere appieno l’effetto cui il Signore le ha destinate.
Un’efficace pastorale vocazionale
Insieme alla liturgia ci sono altre realtà sacramentali, come la vita coniugale, la vita comunitaria, la vita del presbiterio, che hanno un forte potenziale di profezia, poiché rivelano la sponsalità e la fraternità finale del Regno, eppure quanti sposi e quanti religiosi e religiose, o quanti presbiteri sono consapevoli di mancare all’annuncio del Regno tutte le volte che si lamentano dell’altra parte o di una delle parti del proprio “corpo”, che è vera e propria Chiesa? Troppo alla leggera si arriva a parlar male, rispettivamente, del coniuge, del confratello o consorella, senza avvertire in sé l’interruzione di una gestazione in corso: quella della creatura nuova, dei cieli nuovi e terra nuova; un aborto che, se è mortale per la vita fisica, è altrettanto scellerato per la vita spirituale.
Nelle forme di vita comune c’è una profezia del sacramento (per le nozze) o del segno (per il convento, per il presbiterio), il cui ri-appropriarsi costituirebbe vera e propria Pastorale Vocazionale. Come sono diversi i sogni del candidato in fase di formazione, dell’innamorato sulla vita del matrimonio, dalla realtà della vita di comunità o della vita coniugale. In quanti casi, quello che doveva essere il fine dell’opera diventa la fine dell’opera. Bisogna proprio rassegnarsi a questa discrasia fra prima e dopo, fra attesa e realtà, fra ciò che il cuore cerca e ciò che nella realtà si compie? Non si può dar partita vinta a colui che passa tutto il giorno a spezzare le aspirazioni più belle, a rovinare la festa con reciproci e falsi addebiti; quell’accusatore dei fratelli (cfr. Ap 12,10), che persegue un vero e proprio progetto di separazione che nessuno gli ha mai affidato. Non si può solo rimandare alla consumazione dei tempi la vittoria annunciata sull’avversario della nostra gioia, invece, possiamo fin da ora schierarci, allearci, con Colui che tutto può e vuole ed avere già al presente i segni della Vita Nuova, quella inscritta in noi dall’eternità del progetto del Padre e manifestata nella vita umano-divina del Figlio e Signore Gesù.
Perché continuiamo a riempirci la bocca con parole solenni come “Nuova ed Eterna Alleanza” nell’Eucaristia e non ci alleiamo con Lui? Alla nostra umanità-divinità Battesimale, rassegnata in un durevole letargo, quando daremo la primavera? E, dopo trent’anni di Riforma Liturgica, non è Riconciliazione con il Padre e i fratelli, il nuovo nome della vecchia e cara Confessione, o è solo poco più del dilemma: ora si fa con grata o senza grata? Dobbiamo riconoscere, alla fine, che solo un’accurata vita sacramentale, leale e consapevole, ci potrà restituire alla verità, e la Verità è che uno è il Padre, uno lo Spirito, e noi siamo tutti fratelli (cfr. Mt 23,1-12). Nella speciale consacrazione, nella vita coniugale, nel presbiterio diocesano la vita trinitaria che ci portiamo dentro, che vede nell’Altro il centro, è ora che passi da semplice “potenza” a “stato”.
In vista del Giubileo. Conclusioni
Per il terzo anno di preparazione al Grande Giubileo, l’anno dedicato al Padre, anno di vera conversione, questo progetto non sarebbe poco. L’Altro, che tante volte passa come una traversia nella nostra vita, si cambierebbe presto in una preziosa opportunità. E per festeggiare spiritualmente i 2000 anni dalla nascita del Redentore, la cosa più urgente ed efficace sarebbe compiacersi per la nascita dell’Altro dentro di noi (cfr. 1Gv 1,4-20). Con l’aiuto della Vergine Maria.