N.06
Novembre/Dicembre 1998

Vita fraterna, tra realismo e utopia

Vita fraterna: verso dove stiamo andando? Potrebbe essere questo L’interrogativo di fondo che dà senso a qualche annotazione proposta in queste pagine. Ci sono preoccupazioni non infondate: si va verso la dissoluzione di un’esperienza che la tradizione cristiana ritiene indispensabile per quanti intendono testimoniare nel qui e ora la pienezza del regno di Dio? A parte gli allarmismi, sempre da evitare, ci sono alcune ragioni che vanno prese in seria considerazione. Esse rappresentano un segnale di crisi con esiti contrapposti, positivi quando creano nuove energie e nuove prospettive, negativi quando suscitano disaffezioni e rigetti. Nessuno può negare che verso tutto ciò che è comunione, comunità, vita comune e fraterna un certo grado di disaffezione esista. Avviene nella Chiesa, dove le comunità parrocchiali assomigliano talora ad un arcipelago di mondi isolati fra loro; capita nella vita consacrata e nei presbitèri dove non è difficile trovare più divisioni che comunione; a modo loro le giovani generazioni hanno già cambiato musica, diciamo così, esaltando nei loro canti l’io con tonalità esasperate. È raro sentir cantare “Quanto è buono, quanto è soave che i fratelli vivano insieme!” (Sal 132,1), al di fuori di momenti liturgici o di particolari occasioni.

 

La stagione della complessità

Alla ricerca delle ragioni che stanno alla base di uno stentato rapporto tra comunione, comunità e vita comune, nella logica della fraternità, ritengo che occorra riflettere sul senso e sull’estensione di un termine assai usato: complessità. Non si intende qualcosa di complicato né si allude soltanto all’esistenza di una varietà di aspetti che, in definitiva, non è mai mancata nelle civiltà del passato. Piuttosto ci si riferisce al fatto che la varietà è così frastagliata e frammentata da escludere una sua convergenza in un principio unitario. In altre parole, l’unità del molteplice non interessa, anzi appare assurda, comunque non pertinente. Al posto della comunione, l’interesse è per la diversità, la differenziazione e l’identità propria senza collante con altre. Il concetto di alterità ha una sua coltivazione sia in ambiti istituzionali sia nella mente e nei cuori dei singoli. “Ridefinendo le proprie convinzioni in rapporto a esigenze individuali, si finisce per sminuzzarle in un bricolage dove convivono, spesso senza una reale sintesi, idee, atteggiamenti e comportamenti di diversa provenienza”[1]. Ecco il punto di crisi: carenza, latitanza, incapacità di sintesi. La stessa vita quotidiana, al di là delle concezioni o dei sistemi di pensiero, è diventata complessa: infinite possibilità di scelte (si pensi ai consumi e agli stessi canali televisivi) portano di solito a enfatizzare le diversità con effetti a volte di frammentazione a volte di incomunicabilità. La polverizzazione dei concetti, dei comportamenti e degli stili di vita rischiano di compromettere quelle fondamentali comunione e coesione necessarie per l’esistenza. Non si può vivere in positivo come se l’altro non esistesse oppure come se l’altro fosse il nemico da abbattere o l’ostacolo da eliminare.

In questa sommaria e troppo rapida visione di un fatto culturale oggi esistente, con enfasi superiore al necessario, ossia! la teoria e la prassi della soggettività senza reciprocità, è possibile intravedere l’ambivalenza di un processo umano che viene da lontano. Da un lato, si riconosce la valenza basilare del soggetto umano, dell’io (che nella visione cristiana volentieri chiamiamo persona). Senza una sana soggettività non avremmo avuto la stagione dei diritti umani e, forse, esisterebbero ancora forme di vita comune più simili a gabbie che non a esperienza di comunione. D’altra parte si corrono rischi quando la soggettività è intesa come autonomia assoluta, come esigenza di autenticità privata di ogni responsabilità e della norma razionale, come differenza senza reciprocità. A suo tempo F. Ebner ammoniva a “trovare la giusta relazione” verso Dio, verso se stessi, verso gli altri e verso la realtà storica che non sempre dipende dalla volontà umana. L’ambivalenza può diventare ambiguità, generatrice di disastro come avvenne all’inizio dell’umanità con la sconsideratezza di Adamo. Giova qui rammentare che Dio ama l’individualità (chiama ognuno per nome), la differenza (tra sé e l’uomo, tra l’uomo e la donna, tra la persona e il popolo), l’alterità (Dio stesso è Padre, “altro” dal Figlio e dallo Spirito Santo). Ma in Dio tutto trova significato e positività perché tutto tende alla comunione. La complessità, oggi dominante lo si voglia o non lo si voglia, favorisce o ostacola la comunione con le sue espressioni di comunità e di vita comune. Molto dipende, anzi è determinante un cammino di formazione che chiama in causa molteplici soggetti: la persona stessa, la famiglia, la scuola, la società, la comunità ecclesiale. Radicalmente poi tutto dipende da una “visione primordiale” della realtà – compresa quella trascendente – senza la quale non si dà autentica cultura. Confesso qualche timore di fronte all’enfasi di emozioni, nel nome del “cuore”, oggi qua e là dominanti in ambiti che vorrebbero essere formativi; l’esito è la continua e permanente critica della vita fraterna ché si ritiene insopportabile.

 

Sacramento della risurrezione, segno della pace

Può tornare utile un rapido pro-memoria di passaggi necessari nel processo formativo di persone che, con modalità diverse, tendono tutte a testimoniare, anzi a ri-presentare, il mistero di Dio-comunione. Senza un solido supporto di motivazioni non si avrà mai una comunità di vita con un alto grado di intensità[2].

1. Al di là delle molteplici e differenti definizioni di comunità, è pensiero comune che una forma fraterna di vita non esiste senza una convergenza di interessi, un esercizio quotidiano di relazioni, una riscoperta sia pure progressiva di affinità che creano coesione, un apporto di comunicazione e di fiducia che consenta di sperimentare i valori positivi dell’alterità e della reciprocità.

2. Prima è la comunione, poi è la comunità e, in essa, le varie forme di vita comune e fraterna. Questo è un dato culturale ampiamente diffuso (M. Weber, F. Tönnies, E. Mounier, A. Olivetti distinguono tra società e comunità; questa ha bisogno di motivazioni e radici anche religiose). In ambito cristiano il concetto e la realtà esperienziale della comunione sono “l’incipit” della vita comune. La Chiesa stessa “si realizza essenzialmente nella comunità e quale comunità”[3].

3. La comunità e, in essa, le varie forme di vita comune servono la libertà delle singole persone. La libertà individuale è possibile solo in una comunità in cui vi sia una solida esperienza di unità, un certo consenso, un certo concetto di valori comuni. La comunità non elimina tensioni e conflitti, in un certo senso aspetti essenziali di una comunità dinamica, ma non li teorizza come parola ultima; questa è la comunione.

4. In senso tipicamente cristiano, la comunità nasce dall’esperienza di unione con Gesù: i suoi discepoli “vanno dietro di lui, rimangono in lui e vivono come lui” (cfr. 1Gv 2,6). Ma Gesù è  “uno” con il Padre e con i suoi.

La comunità cristiana, con le esperienze di essa, è in definitiva un segno, un “sacramento” di salvezza. Chi entra in contatto con una comunità autenticamente cristiana “viene deliberatamente afferrato da un movimento di fondo che porta dalla morte alla vita. Comincia a respirare, può levare alta la testa, la sua speranza si rafforza. Smette di sentirsi morto tra i vivi e di rotolare la pietra della rassegnazione davanti ai sogni e alle speranze della sua vita. La risurrezione avviene. Già ora”[4].

La comunità cristianamente vissuta è un segno quotidiano della risurrezione e “un vivere nella pace” (1Cor 7,15) in cui sta sostanzialmente il progetto salvifico. Tutto ciò non è possibile senza continua, progressiva conversione. Là dove la vita comune-fraterna si sgretola è perché non si coltiva la conversione personale e comunitaria.

 

 

 

 

Note

[1] G. SAVAGNONE, Evangelizzare nella post-modernità, Leumann 1997, p. 84.

[2] G. GIORIO, voce Comunità in Dizionario delle idee politiche, AVE, Roma, 1993, p. 81. 

[3] F. CLOSTERMANN, Chiesa, evento e istituzione, Assisi 1978. 

[4] P.M. ZULEHNER, voce Comunità, in Enciclopedia teologica, Brescia 1989, p. 128.