Fedeli in una chiesa fedele
Come si può tradurre in buon italiano Christifideles. La parola è usata dai documenti del magistero della Chiesa per indicare i cristiani discepoli del Signore Gesù e, nello stesso tempo, membri della comunità dei discepoli ossia la Chiesa. La traduzione corrente che dice fedeli sembra lasciare in ombra l’appartenenza, la dedizione a Cristo, senza di cui non si è nemmeno appartenenti alla Chiesa. Dire cristiani, come alcuni preferiscono, lascia in ombra il legame con la Chiesa. Fedeli ha però un merito, quello di sottolineare che la struttura della personalità cristiana è quella di essere capaci di fedeltà. Anche la Chiesa, comunità dei cristiani, è costruita sul fondamento della fedeltà, anzi di una duplice fedeltà. Per meglio comprendere di quale fedeltà si tratti, giova porre la domanda: la Chiesa, nel suo vissuto quotidiano e nel coltivare la sua missione, da che parte sta?
Ponte fra cielo e terra
Il Vaticano II non ha nessun dubbio nel rispondere: poiché la Chiesa ha natura di sacramento cioè di segno e strumento, sta dalla parte di Dio e, nel contempo, dalla parte del mondo (ossia l’insieme delle persone umane, l’umanità, la storia umana e le cose). La Chiesa è segno e strumento dell’unione tra Dio e l’umanità e della comunione vigente tra gli esseri umani. La Chiesa non è soltanto di Cristo (e in lui della Santa Trinità), è anche degli uomini e delle donne viventi nella storia. Lo afferma un testo – fra altri – dei documenti conciliari:
La Chiesa, che è insieme società visibile e comunità spirituale, cammina con l’umanità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena; essa è come il fermento e quasi l’anima della società umana, destinata a rinnovarsi in Cristo e a trasformarsi in famiglia di Dio[1].
A loro volta i fedeli cristiani appartengono a Dio e al mondo, come un ponte fra cielo e terra (l’espressione è di Paolo VI), a cui è chiesto di coniugare nel vissuto della loro esperienza, la fedeltà a Dio e la fedeltà al mondo: la stessa della Chiesa nel cui grembo stanno come figli operosi e responsabili. La fedeltà, vista nel suo versante umano, come qualità e impegno delle persone (l’altro versante riguarda Dio, la sua alleanza, il suo non venire mai meno alla promessa e all’alleanza), non ha un riferimento a idee o a concetti astratti. Non è comprensibile pienamente nemmeno se viene considerata solo come virtù morale, la coerenza a quanto si è promesso e al proprio dovere. La fedeltà rende partecipi del mistero di Dio fedele, è risposta di impegno al Dio vivente, Dio che viene, che s’impegna e soffre con il suo popolo al punto di salvarlo in Gesù Cristo e nello Spirito Santo. Fedele è il credente che s’impegna per dare concretezza storica all’amore misericordioso del suo Dio e ne continua l’opera di giustizia e di pace. Nella fedeltà, vissuta e praticata da “fedeli”, si realizza una reciprocità tra obbedienza totale al Padre del Signore Gesù Cristo e misericordia operosa verso il prossimo.
Fedeli nel fare la volontà del Padre
Il rapido richiamo di concetti fondamentali, peraltro già noti alla maggior parte dei lettori, si è reso opportuno per meglio mettere a fuoco la risposta fedele che la Chiesa dà al suo Signore e quella dei membri della Chiesa stessa verso la loro madre e maestra. La Chiesa risponde con fedeltà a Dio e al suo mistero, presente nella storia in Gesù Cristo, con la fedeltà alla volontà del Padre, come Gesù ha praticato nella sua vita terrena.
Non è qui il caso di ripercorrere la dinamica di Gesù che dichiara di “fare sempre la volontà del Padre”, anche nei momenti decisivi della sua adolescenza, del suo battesimo, dell’angoscia nel Getsemani e sulla croce. L’importante è evitare di ridurre il volere del Signore a un patetico sentimentalismo o a un’astratta elucubrazione (come chi si crogiola nel domandarsi: che cosa vorrà Dio da me?). Nel vangelo di Gesù, nel suo fare e dire, è contenuto ciò che il Padre vuole che si compia “in cielo e sulla terra”. Con la sua sensibilità della grande tradizione ebraica Emmanuel Levinas osserva che
conosce veramente Dio (e ne compie fedelmente la volontà) solo chi accoglie il povero che viene dal basso con la sua miseria e che proprio in questa veste viene inviato dall’alto. Non possiamo vedere il volto di Dio, possiamo però sperimentarlo nel suo volgersi verso di noi[2].
La fedeltà dei cristiani alla Chiesa, come espressione concreta della propria vocazione, segue la medesima strada; non bastano le dichiarazioni o professioni (magari ripetute) di fedeltà, non è sufficiente un’adesione ortodossa (anche se è necessaria); occorre operare secondo la missione della Chiesa verso coloro che Gesù chiama “prossimi”: tutte le persone che legittimamente si fidano di noi perché hanno bisogni, attese e esigenze che solo la carità riesce a soddisfare. Fedeltà e carità si chiamano a vicenda. Malinconicamente viene da pensare a chi, portatore o portatrice di una vocazione di speciale consacrazione, si estenua nel dichiarare la propria fedeltà senza viverla con lo stile del Signore Gesù: accettare la propria missione (anche se faticosa), portare la croce, lottare contro la tentazione di abbandonare, rendere lode al Padre dicendogli: “Tutto è compiuto” (Gv 19,30). L’infedeltà alla Chiesa passa attraverso il rifiuto dell’amore come Gesù ci ha amati. La fedeltà matura nella misericordia praticata e amata. Chi si dedica con amore al prossimo non ha tempo di rimuginare le proprie insoddisfazioni.
Purificare la memoria
Torna qui un tema agro, a volte doloroso, quello del venir meno alla fedeltà dichiarata nel momento in cui una vocazione trova il suo compimento nella Chiesa attraverso la celebrazione. Capita che la promessa sia offesa, in una varietà di modi che sono ben conosciuti. Il linguaggio popolare è espressivo: saltare il muro, gettare via la tonaca, “tornare dalla mamma” lasciando la casa costruita in due, ecc. Con realismo, nella sede solenne del Concilio, si è detto e scritto:
Benché la Chiesa sia rimasta la sposa fedele del suo Signore… non ignora affatto che tra i suoi membri, sia chierici che laici, nel corso della sua lunga storia, non sono mancati di quelli che non furono fedeli allo Spirito di Dio. E anche ai nostri giorni sa bene la Chiesa quanto distanti siano fra loro il messaggio che essa reca e l’umana debolezza di coloro a cui è affidato il Vangelo… La Chiesa sa bene quanto essa debba continuamente maturare imparando dall’esperienza dei secoli[3].
Paolo VI ha dichiarato “dottore della Chiesa” due grandi donne che furono promotrici di riforme: Teresa d’Avila e Caterina da Siena. Esse osarono contestare, con tenero e forte amore per la Chiesa, abusi e infedeltà persino di vescovi e istituzioni ecclesiali. Giovanni Paolo II, con tenacia ammirevole, porta la comunità ecclesiale alla purificazione della memoria: un atto di coraggio e di umiltà nel riconoscere le mancanze, le infedeltà compiute da quanti hanno portato e portano il nome di cristiani.
La Chiesa, forte della santità che riceve dal suo Signore, si inginocchi dinanzi a Dio e implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli[4].
Infedeltà nell’infedeltà è quella di membri della comunità ecclesiale che ne deturpano la missione con atti di chiusura, di narcisismo e di presa di distanza. Sono più clamorosi i gesti di presbiteri, religiosi e religiose ma non meno esiziali sono le infedeltà quotidiane di uomini e donne nella testimonianza del Vangelo, nella santità del matrimonio e nella sacralità della vita, nella dedizione di se stessi al bene comune. Torna qui l’alto insegnamento del Vaticano II:
La Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori, è santa e insieme sempre bisognosa di purificazione[5].
Il suo è un cammino di penitenza e rinnovamento e la sua fedeltà non è mai perfetta e mai da dare come scontata. Fedeltà è anche sapiente misura della propria finitudine che porta a vivere proclamando: tutto è grazia!
Note
[1] Gaudium et spes, 40.
[2] Citato dal compianto padre B. HÄRING, in Nuovo dizionario di spiritualità, voce Profeti, Paoline, Roma 1979, p. 1274; la parentesi è nostra.
[3] Gaudium et spes, 43.
[4] Incarnationis myterium, 11.
[5] Lumen gentium, 8.