Dalla conversione alla vocazione. Al di là del vocabolario.
Il peggio che può capitare è inciampare nelle parole, bisticciare col vocabolario: fuor di metafora, pretendere più di quanto il lessico può dare. Tutto sommato, però, il gioco vale la candela. Per capire il problema del peccato e della relativa conversione, anche il dizionario può servire, almeno in parte. Si potrebbero consultare i professionisti della lingua parlata. Né sarebbe male ricorrere a strumenti statistici, per vedere come la gente affronta nella vita quotidiana argomenti intricati e profondi come quello della colpa o della coscienza. Ciliegina sulla torta sarebbe uno studio ricavato in presa diretta dal gergo giovanile, teso a captare le voci dei teenagers e le parole con cui trattano un mistero: quello della responsabilità personale, della scelta tra il bene e il male, del delitto e del castigo.
Gli strumenti per queste analisi sono quanto mai collaudati, e hanno già prodotto studi rigorosi, che non staremo qui a citare, né tanto meno a rivangare. Lasciamo che gli ingegneri della lingua facciano il loro lavoro. Pur partendo dal vocabolario, qui ci preme puntare in un’altra direzione, per vedere se c’è un problema in questo linguaggio, e se questo problema ha una radice. Il lettore ci dispenserà dunque da un percorso scientifico, e soprattutto dalle citazioni più o meno dotte, più o meno ortodosse. Ci interessa piuttosto spulciare qua e là tra alcune parole di uso quotidiano, per vedere in che modo denunciano una mentalità.
A partire dalla propria misura
Pensiamo alla vasta area semantica della conversione, e mettiamo in sottofondo la colonna sonora del linguaggio di ogni giorno. A chi non salta in mente, almeno per un attimo, l’accostamento alla parola “riconversione”? Ed è poi tanto lungo il salto tra questa e “rottamazione”, “riciclaggio”, “recupero”? Le parole stanno lì, indifferenti e apparentemente inoffensive. Ma l’uso frequente che ne facciamo, che a sua volta riflette abitudini e stili di vita, mette almeno in guardia da un rischio: che cioè anche la conversione sia operazione ecologica, giusto per una pulizia di routine. Una sorta di nuovo look che non cambia la sostanza delle cose. Una trasmigrazione del peccato sotto mentite spoglie e verso sempre nuovi lidi.
Entriamo poi per un attimo in un tribunale. Una parola per tutte, pentimento, con il “grappolo” che automaticamente tira con sé (pentiti, pentitismo, collaboratori di giustizia ecc.). In che modo l’uso – spesso inflazionato – che se n’è fatto rivela o finisce col condizionare una mentalità sempre più diffusa, per cui ci si può anche pentire ma per denunciare altri, ci si può auto-accusare ma per ricavarne qualche interesse? E le parole “amnistia”, “indulto”, “condono” non finiscono col favorire un’idea più o meno ipocrita della legge, eclissando il concetto di responsabilità personale? In altre parole: se la giustizia chiude un occhio, non solo sei fortunato, ma anche indenne da critiche. Quindi “pulito”.
Dal foro esterno a quello interno: che cosa è oggi il senso di colpa, se non ciò che fa arrossire, facendo perdere l’onore agli occhi altrui? Tutto è consumato tra le anguste pareti della propria anima, lì ci si assolve e ci si giustifica (altro verbo martoriato e bistrattato), salvo poi far scattare il senso di colpa di fronte ad un rimprovero, ad un dito accusatore. Quante volte al giorno sentiamo parlare del caro, vecchio esame di coscienza? E se qualcuno si azzarda a tirare fuori questi cadaveri dall’armadio, non deve rassegnarsi all’accusa di moralista e di nostalgico inguaribile? E soprattutto: se proprio “esame di coscienza” deve essere, non si corre il rischio di trasformarlo anche esso in un monologo?
Qui non c’è da rimpiangere un bel niente: né i tempi che furono né ciò che avrebbe potuto essere. I problemi dei nostri giorni ci sovrastano immensamente tutti, ed è bravo chi individua una sicura via d’uscita. Più che una soluzione, il vocabolario ci offre delle tracce – come delle briciole per Pollicino – per non perderci. E le tracce sopra ricordate ci dicono di un minimo comune denominatore nel glossario con cui oggi si parla di peccato e di conversione: e questo denominatore si chiama individualismo. Anche qui non c’è da puntare il dito, né da segnalare ricette: c’è semplicemente da prenderne atto. Tutto viene giudicato a partire dai propri occhiali e dal loro colore, tutto è definito e tutto è ingurgitato a partire dalla propria misura. È questo il tarlo che rode la nostra storia, che ha fatto crollare le ideologie e attacca oggi la vita di fede.
Parlare oggi di conversione
Se di tarlo si tratta, va detto subito che ha molte facce. Come di ogni elemento caratterizzante un’epoca, anche dell’individualismo va detto che non è totalmente da buttare. Se la storia se ne lascia trainare, evidentemente c’è del positivo in questo stile di vita. Se fosse vero il contrario, crederemmo che il buon Dio stia perdendo il controllo su qualcosa che invece – lo sappiamo per fede – gli sta immensamente a cuore. In realtà la riscoperta dell’individuo favorisce il rispetto e la tolleranza, la ricerca di un certo tipo di spiritualità, l’autonomia interiore della persona, un’etica professionale ispirata alla responsabilità. Ciò non impedisce che sull’altro piatto della bilancia si trovi tutto ciò che giustifica la desinenza “-ismo”: vale a dire un’impermeabilità alle esigenze oggettive della fede o dell’etica, una comunicazione poco profonda, un progetto di vita non sempre ispirato alla continuità, una rivoluzione del valore “bene comune”.
I riflessi di tutto questo sul modo di accostare oggi il tema della conversione sono anch’essi ambivalenti, e fanno parte del nostro universo mentale, soprattutto di quello inconsapevole. Ne richiamiamo almeno tre.
Prendiamo il rapporto tra tempo e conversione. Nel nome di tutte le pedagogie, si è affermato un sacro rispetto per le scadenze interiori della persona, per i suoi ritmi di crescita, per le tappe su cui nessuno può sindacare e che nessuno può bruciare. Questo è un valore ormai condiviso da tutti, e – dal punto di vista soggettivo – è fuori discussione. Ma, a lungo andare, proprio nel corso della storia della persona, in che misura questo valore si coniuga con l’“adesso” della conversione? Questo avverbio non assume acriticamente una dimensione di relativo, di momentaneo, in attesa di una circostanza più propizia, dopo aver maturato le giuste conoscenze e i necessari presupposti? Non sempre si tiene conto del rovescio della medaglia, che cioè anche il peccato ha il suo salario (Rm 6,23) e che “chiunque commette il peccato è schiavo del peccato” (Gv 8,34). In altre parole: il tempo passa, le occasioni di peccato continuano a far capolino e magari ad attecchire. Se è sacro il rispetto per la persona, proprio in nome di questa sacralità bisogna ricordarle che il peccato accumula tossine, rende più problematico il rinsavire e arduo il perseverare.
Altra ambivalenza, il rapporto tra conversione e vita nuova. Giustamente in tutti questi anni si è sottolineato il valore dell’opzione fondamentale, che va al di là dei singoli atti in cui essa si esprime. È alla scelta di fondo che bisogna risalire per capire la maggiore o minore colpevolezza dei peccati. È l’amore verso Dio e verso il prossimo a essere ripetutamente chiamato in gioco, la scommessa che la persona è chiamata a operare scegliendo tra bene e male. Anche questo punto fermo della teologia morale ci sembra fuori discussione. Ma la prassi pastorale non ha finito, anche in questo caso, col dimenticare che l’opzione si fa chiara e si educa proprio nella concretezza dei semplici, parziali, “banali” atti di ogni giorno? Non sono anche le buone abitudini a costituire ancora oggi il miglior antidoto a quelle cattive? E queste abitudini non sono costituite proprio da ripetuti, apparentemente isolati, gesti di fedeltà quotidiana, anche da quelli compiuti a denti stretti e occhi chiusi? La conversione non rischia di perdersi nei meandri dell’astrattezza, trascurando la vigorosa spinta che le può venire proprio dalla ruspante concretezza degli atti?
Ancora un equivoco di questi nostri tempi, quello che nasce da un malinteso senso del rapporto col mondo. Il cammino post-conciliare ci ha insegnato a guardare con simpatia a questo mondo, a intravedere dovunque (nell’arte, nel commercio, nei sentimenti, nelle altre religioni) i semina Verbi. Abbiamo maturato l’atteggiamento di chi “non considera estraneo a se stesso tutto ciò che è umano” (Seneca). Ma se è vero che il “mondo” è anche sede di ambivalenza, luogo per cui Dio non ha esitato a farsi carne e nello stesso tempo realtà sottoposta alla triplice concupiscenza (1 Gv 2,16), è vero anche che questa ambiguità si riflette sulla connivenza col peccato. Simpatia col mondo vuol dire oggi fargli l’occhiolino, e – in ultima analisi – non saper rinunciare a niente di ciò che il mondo offre. Si è molto affermata la filosofia dell’et-et, presumendo che il vangelo possa convivere con tutto ciò che non è esplicitamente “male”. Si percorre la retta strada ma non si disdegnano sentieri complanari, paralleli, da imboccare qualora il traffico ingolfi la circolazione, salvo poi ritornare sulla strada maestra quando e se la si riscopre migliore. In che modo questa condotta di guida si concilia con la visione classica della conversione, intesa come strada unica e senza ritorno, all’insegna dell’aut-aut?
Le domande potrebbero continuare all’infinito, le risposte – lo dicevamo – fanno parte del travaglio della nostra epoca. E quando si faranno chiare, non cambierà di una virgola la situazione, la stessa che perdura da che mondo è mondo: il grano è sempre convissuto con la zizzania, il seme con la pula. Al cristiano il difficile compito di discernere e vigilare. Guardarsi dal peccato ma soprattutto ricordare la libertà che si gode nella casa del Padre.
Ritrovare l’essenziale
Cosa ha da dirci, di fronte a queste ambivalenze culturali, il senso autenticamente umano e cristiano della conversione? Mi sembra che una prima, grossa, angolare pietra d’inciampo per le ambiguità della nostra cultura è rappresentato dal Dio come semplicemente Altro. Dio va preso sul serio, non se ne possono addomesticare le parole e stiracchiare le esigenze, come sul letto di Procuste del nostro individualismo. Questo non significa dipingere il Padre con un volto eternamente corrucciato. Significa semplicemente non giocare al nascondino con lui e con noi stessi. Significa essere come un libro aperto al suo cospetto, lasciarsi lavorare dalla sua grazia. E se necessario, gridare aiuto.
Questa riscoperta del Dio “semplicemente Altro” vuol dire anche ritrovare l’essenziale della vita cristiana. Pensiamo per un attimo a una persona che cerchi sinceramente di imparare a pregare. Può succedere che spenda anni e anni nell’apprendere e sperimentare tutte le tecniche, ambientazioni e atteggiamenti possibili: dal raccoglimento al deserto, dalla “preghiera di Gesù” alla lectio divina, dallo sgabello da contorsionista alla moquette salvasilenzio. Può succedere anche che alla fine di tutte le peripezie questa persona si accorga di quanto il problema fosse molto più semplice: non doveva fare altro che tenere saldi nelle mani due bandoli della matassa, il proprio cuore da una parte e Dio come persona dall’altra. Più semplice, ma forse terribilmente esigente: perché le si chiedeva di consegnare il cuore ad un Altro.
L’esempio della preghiera può aiutarci a capire la vita morale. L’“Altro” in quanto tale esclude l’astrazione. Se accetto il “semplicemente Altro”, riconosco che egli abbia una libertà nei miei riguardi. Se poi ho a che fare con l’“assolutamente Altro”, accetto che Egli ponga le mani sul timone della mia esistenza. So che la mia vera forza non mi appartiene, viene da Lui. Mi affido e smetto di fare calcoli. Sono cose che al di fuori della logica dell’amore non hanno senso, ma chi ama sa.
Per un cristiano, poi, questo “Altro” lascia ancora meno spazio a scappatoie. Se da una parte egli è sempre tentato di scegliere in base alla propria creatività o alla forza seducente degli idoli, Cristo gli chiede di diventare l’incontrastato Signore della sua vita. Se il mondo si diverte a mischiare ripetutamente le carte del bene e del male, Cristo prende posizione e chiama il discepolo a fare come lui. E se il destino sembra a volte qualcosa di insostenibile, Cristo ti propone di condividere il suo, nell’obbedienza. Cristo è l’“Altro” e contemporaneamente il fratello. Colui che detta legge e colui che la dimostra praticabile. Se lo si prende sul serio, non si potrà invocare altra grazia che seguirlo, accada quel che accada.
Questo ritrovato rapporto con l’“Altro” in Cristo dà anche una misura nuova al rapporto con le persone e con le cose. Quella mirabile fotografia del peccato che Gesù ci ha offerto nella parabola del figlio prodigo (o – se si vuole – del Padre misericordioso: Lc 15,11-32) non smette di essere attuale. La tristezza che il figlio si trova improvvisamente a patire, quando ha dissipato tutto ciò che aveva e soprattutto quando ripensa con nostalgia alla casa del Padre, è la stessa di chi – smaltita un’“esperienza” o consumato un oggetto – si ritrova punto e da capo con la sua sete insoddisfatta di amore. La festa è possibile quando la persona matura nelle relazioni. Le cose sono al servizio di quest’amore, quindi di questa festa. Credere il contrario significa consegnarsi alla delusione.
Ritengo che oggi queste delusioni siano il filo con cui tanti giovani tessono la trama delle loro giornate. Mille promesse di felicità attraversano il loro campo d’azione, e non sempre queste promesse conducono da qualche parte. Allo stesso modo questi ragazzi sono intelligenti quanto basta per capire che – sottraendosi al dolce giogo del Cristo – non per questo ci si sottrae ad altre schiavitù, ben più manipolatrici: si tratti di ideologia, della logica del branco o delle proprie stesse pulsioni. Se sulle loro delusioni non attecchisce il seme della nostalgia né sboccia il fiore della festa, è perché gli stessi giovani non hanno incontrato il cuore vero di Dio, un cuore in attesa perché misericordioso. Né sono stati aiutati a intravedere il senso di libertà che si respira nella sua casa.
La spirale e la tangente
Andrè Louf usa un’immagine molto efficace per descrivere le esigenze della vita spirituale. Parla di una sorta di vortice nel quale Dio ci attira, un vortice che tende sempre più al profondo. “Ma nella misura in cui la gioia ci fa entrare nella spirale della felicità, esiste anche il rischio di deviare e di smarrirsi nella ricerca di un’altra felicità. Sul sentiero della gioia incontriamo spesso dei bivi in cui ci è data la possibilità di imboccare la tangente verso una felicità ristretta e limitata, nella quale rischiamo, alla lunga, di invischiarci (…). L’unica ascesi che possa essere imposta alla gioia ne abbraccia il ritmo, è il movimento della spirale che abbandona progressivamente i cerchi esterni per flettersi verso il proprio centro più intimo”[1].
La spirale e la tangente: nel sacramento della Penitenza non c’è altra posta in gioco al di fuori di questa. Ad assecondare il cristiano in questo “flettersi verso il proprio centro più intimo” c’è lo Spirito Santo. E il suo aiuto è il più efficace antidoto contro ogni fuga. Ma è importante che questa “con-versione”, e il sacramento della Penitenza che la anima, rientrino in un progetto ancora più ampio di vita come vocazione. Anche qui, proprio come per il figlio prodigo, è decisivo fermarsi e rientrare in se stessi (Lc 15,17). Per eludere un uso compulsivo della confessione. Per capire in che misura la conversione chiama in causa il senso della vita. Per evitare di disperare.
In realtà la posta in gioco è molto più seria di quanto si possa pensare. Se il peccato offusca l’immagine di Dio nell’uomo, il peccatore rischia di non riconoscersi più, di fuggire lontano da quell’immagine: proprio perché sembra meno rispondente ai suoi canoni di felicità e di “senso”. Per fortuna Dio prende in contropiede l’uomo. Visto che questi fugge al suo sguardo, egli manda “il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato” (Rm 8,4) perché l’uomo lo incontri proprio lì dove preferisce nascondersi, crogiolandosi nella solitudine della trasgressione.
Se l’uomo apre gli occhi su questa paradossale fantasia di Dio, avrà forse il coraggio di arrendersi al suo amore. Il suo sarà il coraggio che nasce dall’umiltà, se necessario dalla stessa umiliazione. Forse più che in altri tempi l’uomo di oggi – che ancora una volta si riflette nel figlio prodigo – corre il rischio di vivere “da dissoluto” e di sperimentare la carestia (Lc 15,13). Forse anche questo lo aiuterà a riscoprire l’Altro. Forse anche questo è scritto sull’itinerario lungo e non sempre decifrabile della nostra storia. E se questo coraggio-umiltà diventa anche atto di fede, c’è davvero da sperare che sfoci nella vocazione. A partire dal proprio limite e dalla propria inconsistenza, si comprenderà la bellezza di consegnare la vita a questo Altro. Si capirà che chi non raccoglie con Lui disperde (Mt 12,30). Si imparerà a imparare: in un discepolato attento alle parole del Maestro quanto guardingo per il rischio di uscire dalla tangente.
La “vita come vocazione” offre dunque senso e consistenza alla conversione. Proprio come questa, la vocazione è “ritorno a casa”[2], è “trovare quella pietra su cui è scritto il proprio nome o tornare alle sorgenti dell’io”[3]. In questo orizzonte di “vita come vocazione” è legittimo parlare di gradualità, perché si è intravisto un bene sicuro e ci si accorge che la vita non basta per esaurirne il mistero: i giorni sono dati per realizzare in pienezza quel bene e per “divenire perfetti come il Padre celeste” (Mt 5,48). È giusto parlare di aut-aut perché la seduzione delle strade parallele si ridimensiona di fronte all’unica cosa necessaria (Lc 10, 42). Nella “vita come vocazione” si vedrà infine un impegno all’insegna della concretezza: l’uomo ha infatti bisogno di legarsi con un altro o con un’altra, con la Chiesa, con una comunità, con una regola di vita, con dei superiori. Ne ha bisogno per rendere meno evanescente il suo sì. Ne ha bisogno perché ha capito che “non c’è amore più grande” (Gv 15,13), al di fuori di un corpo donato e di un sangue versato.
Nuovi orizzonti
Il rapporto tra conversione e vocazione – qui semplicemente accennato – apre un vasto campo di ricerca, tutto da arare, seminare e coltivare. “La messe è molta” (Mt 9,37) anche in questo senso. C’è bisogno, ad esempio, di tradurre in un linguaggio vicino a quello del nostro tempo il significato di “grazia”, questo “oggetto non meglio identificato” dalla catechesi e che il cristiano stenta a riconoscere, a sperimentare, ad alimentare nella sua vita quotidiana. Un altro campo di investigazione, soprattutto in vista dell’annuncio pastorale, è il rapporto tra felicità, peccato e santità: a quali condizioni si può essere felici, senza rinunciare a niente di ciò che è essenzialmente umano? Un terzo ambito si apre nella direzione della spiritualità: al di là dei suoi sottoprodotti oggi così a buon mercato e tutto sommato appetibili, l’ombra della croce continua ad avvolgere la storia. Come ricordare all’uomo di oggi che sulla croce c’è un Crocifisso e che il suo amore dà senso alla vita di oggi e apre il varco alla risurrezione?
Sono solo degli interrogativi, alcuni tra quelli che lo Spirito ha seminato nei solchi della nostra storia. Al di là dei lodevoli sforzi già fatti, è in gioco una rielaborazione di identità oltre che di cultura. E quando parliamo di “ricerca”, di “linguaggio” e di “investigazione”, non alludiamo a niente di accademico e di preconfezionato. C’è bisogno di persone che con la loro vita annuncino un modo di essere felici, testimonino l’esuberanza della grazia e il riverbero pasquale della croce. Anche per dare risposta a queste domande, c’è bisogno di “nuove” vocazioni. Uomini e donne capaci di raccontare in modo nuovo la storia di sempre. Una storia di peccato e di misericordia. La stessa storia che essi continuano a sperimentare ogni giorno sulla loro pelle.
Note
[1] LOUF A., Sotto la guida dello Spirito, Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano 1990, 121-122.
[2] Nuove vocazioni per una nuova Europa, 37.
[3] Ibidem.