La vita consacrata come vita riconciliata e a servizio della conversione
Il bisogno di interpretare la dinamica della vita cristiana attraverso immagini sintetiche capaci di offrirne adeguatamente un profilo non può fare a meno di considerare la “conversione” come tratto qualificante una profonda adesione all’evangelo da parte del singolo come della più ampia comunità dei credenti. L’imperativo che sorregge l’inizio della predicazione di Gesù resta così, nella sua stringatezza e nella sua perentorietà, una chiave imprescindibile di accesso allo sviluppo della vita spirituale del cristiano. Lo scopo di questo contributo è quello di cogliere nella prospettiva unificante della conversione alcuni dei molteplici modi di intendere e di declinare questo invito capace di descrivere la novità e la qualità di vita che si apre al credente chiamato a seguire i passi del Maestro nella concretezza della propria esistenza e nella percezione dell’unicità del cammino della vita nel quale questa parola risuona come appello persistente ad una decisione profonda sul senso della propria vita. L’evidente sinteticità non potrà che condizionare la natura allusiva delle molteplici figure di conversione presenti nella storia della spiritualità cristiana e particolarmente all’interno della vita consacrata, vista come originale forma di esistenza a servizio della conversione dell’intero popolo di Dio.
L’“uomo convertito” del monachesimo antico
All’interno di una prima ampia affermazione della fede dopo il tempo della persecuzione e dell’emergente rischio di una omologazione del cristianesimo con la cultura vigente e, dunque, di una caduta della tensione propria del radicalismo cristiano, la nascita del monachesimo può essere compresa come slancio di ripresa della purezza evangelica che porta a delineare nel “monaco” la figura del cristiano perfetto, capace di raccogliere nella propria vita la provocazione della conversione e di farne oggetto di una ricerca che, dall’emendazione esterna delle opere materiali, conduca ad un scavo della propria interiorità per una più totale e libera adesione al Cristo. In questo contesto troviamo la figura di Basilio di Cesarea (329 ca.-379) con le sue opere ascetiche dedicate alla formazione del monaco e in modo più estensivo del cristiano[1].
L’appello alla conversione risuona nei suoi scritti in modo nitido attraverso il richiamo esplicito alla Parola, senza mediazioni, con la forza della sua evidenza che si impone come contestazione di una preoccupazione tesa alla cura di sé e alla sicurezza di vita. “Colui che è posseduto dal desiderio ardente di seguire Cristo, non può far caso a nulla di ciò che attiene a questa vita”, così scrive nelle Regole ampie[2] uno dei suoi scritti ascetici, delineando il tragitto della vita cristiana a partire proprio da questa separazione dal mondo che sgorga dal desiderio della sequela evangelica. Eco del proprio itinerario di conversione è la Lettera 22[3] nella quale Basilio tratteggia la propria vocazione: “Quanto a me, avevo sciupato molto tempo in vanità… Un giorno, risvegliato come da un profondo sonno aprii gli occhi all’ammirabile luce della verità evangelica…; piangendo amaramente la mia deplorevole vita, pregai che mi fosse data una regola di condotta per entrare nelle vie della pietà”3. Così nelle sue Morali, una vera e propria “regola di vita” cristiana basata sulle Scritture, pone sotto il giudizio della Parola la conformazione del desiderio umano al volere di Dio, attraverso un itinerario di purificazione che, dalla mutazione dei costumi, spinga la persona ad una più decisiva conversione del cuore e della propria interiorità. “Quelli che credono nel Signore prima di tutto devono fare penitenza, secondo la predicazione di Giovanni e dello stesso Signore Gesù Cristo: quelli, infatti, che non fanno penitenza adesso, subiscono più grave condanna di coloro che sono stati condannati prima del vangelo. Il tempo presente è il tempo della penitenza e della remissione dei peccati: nel secolo futuro, invece, vi sarà il giusto giudizio di retribuzione. Coloro che fanno penitenza devono piangere amaramente ed esprimere dal cuore quant’altro ancora è proprio della penitenza”[4]. Così si esprime la “Regola I” delle Morali basiliane, accostando a queste lapidarie sentenze semplicemente alcuni versetti della Scrittura a cominciare proprio da Mt 4,17: “Fate penitenza. È vicino, infatti, il regno dei cieli”.
La ricerca della conversione si comprende, secondo Basilio, al di là della materialità dell’agire contro ogni preoccupazione mondana, come custodia del proprio cuore per non perdere la viva memoria di Dio dentro di sé. Per questo è necessaria una disposizione intima dello spirito, quella che Basilio chiama diàthesis, che abilita il cristiano ad agire correttamente per indirizzarsi sull’itinerario della propria perfezione, spingendolo a valutare il peso rilevante che le passioni dell’anima possono avere per rallentare l’itinerario di conformazione evangelica. Così la proposta basiliana si presenta come un appello a tutti i credenti, a considerare seriamente i tratti caratteristici della sequela evangelica. Non si dà possibilità di vita cristiana, secondo l’insegnamento del Cappadoce, “al di fuori dell’ubbidienza alla Scrittura”, ma “allo stesso modo, la santità cristiana non può definirsi che in rapporto ai sacramenti: generata da questi, essa consiste essenzialmente nel viverli fino in fondo realizzandone le estreme conseguenze. Ogni rinuncia, infatti, ogni ascesi non è che attuazione del patto battesimale e frutto del mistero che, separandoci radicalmente dal mondo, ci ha crocifissi con Cristo; e l’amore di chi consacra a lui tutta la propria vita non è che la realizzazione del significato del memoriale eucaristico, e frutto del dono di Colui che per noi è morto e risorto”[5]. Bastano questi accenni per configurare la proposta di Basilio come un itinerario di qualificazione personale della propria fede, generato da un approfondimento progressivo della conversione, quale spinta iniziale al distacco, e come dimensione permanente dell’esistenza per una corretta valutazione delle proprie azioni e soprattutto dei propri pensieri e delle proprie intenzioni.
Anche nella tradizione monastica occidentale troviamo una costante attenzione al tema della conversione di cui un’eco significativa può essere riscontrata nella Regola di Benedetto[6]. Già nel Prologo la vita monastica viene proposta come un correre verso la meta nel tempo della pazienza di Dio e della risposta obbediente dell’uomo: “Il Signore aspetta che noi ogni giorno rispondiamo con i fatti ai suoi santi ammonimenti. È appunto per darci agio di emendarci dalla nostra cattiva condotta che ci sono concessi, come una proroga, i giorni della presente vita”[7]. Con una spiccata attenzione concreta all’uomo, poi, Benedetto nota la difficoltà dei primi passi, che portano ad un confronto del proprio passato dal quale progressivamente allontanarsi: “Tu, sopraffatto dal timore, non fuggire subito lontano dalla via della salvezza. È naturale infatti che, agli inizi, la via sia stretta e faticosa, ma poi, avanzando nel cammino di conversione e di fede, si corre con cuore dilatato e con ineffabile dolcezza di amore sulla via dei divini comandamenti”[8]. Attraverso il progresso nei vari gradi dell’umiltà si matura quel profondo senso di obbedienza, con il quale Benedetto sostanzia i passi della conversione cristiana, attraverso l’ascolto intenso della Parola e la forma di vita ordinata del cenobio, sotto la guida dell’abate. Nell’umiltà, così, quanto poteva sembrare faticoso e capace di intimorire il monaco diverrà la strada della virtù e dell’amore per il Cristo: “Ascesi dunque tutti questi gradi di umiltà, il monaco perverrà a quell’amore di Dio, che, essendo perfetto, scaccia il timore. Grazie a questo amore, ciò che prima faceva sotto lo stimolo della paura, comincerà a compierlo senza alcuno sforzo, quasi spontaneamente, spinto dalla buona consuetudine. Allora non agirà più per timore dell’inferno, ma per amore del Cristo e per l’abitudine al bene e la dolcezza che deriva dalla pratica delle virtù”[9]. In questa luce l’ascesi di Benedetto si esprime anche come quotidiano impegno nella preghiera a chiedere perdono dei mali passati in vista della propria correzione (cfr. cap. 4, 57-58). L’itinerario della vita monastica diventa, così, presa di coscienza, nel tempo della vita, della necessità della conversione che, a partire dall’atto di ammissione nella forma di vita comunitaria, deve guidare al discernimento di sé, sotto la guida del proprio padre spirituale e con una costante attenzione alla qualità del rapporto quotidiano con i propri fratelli. Come fa notare acutamente P. Visentin, pur mancando in Benedetto tratti particolarmente rigoristici, come presso altre tradizioni monastiche, tuttavia è evidente che nel cammino spirituale benedettino “non c’è nulla di più impegnativo e rigoroso, per l’abnegazione e l’oblio di sé, che vivere sempre in umile e silenzioso ascolto della Parola di Dio, aprirsi sino in fondo per accogliere e aderire totalmente al dono di Dio infinitamente più grande di noi, uscire da noi stessi per guardare a Lui e lodare Lui, pronti a convertirci ogni momento, passando dai nostri criteri e valutazioni personali alle sue vedute e disposizioni, dove si trova la vera sapienza e il nostro vero bene”[10]. Il processo di conversione così avviene all’interno di quella percezione per cui il cammino verso di Dio non è tracciato dalle forze umane, ma è possibile solo in ragione del suo amore, rivelato in Cristo, che nella traccia della sua Parola, su cui pazientemente ritorna il monaco nella lectio, e nel dono battesimale ed eucaristico, si fa incontro all’uomo. Il monaco chiede di essere accolto sulla strada di questo amore ed in esso sviluppa il proprio itinerario di continuo perfezionamento, pronto anche ad accogliere e ad aiutare su questo stesso cammino quanti a lui si rivolgono per ottenere sostegno e conforto per la propria vita spirituale[11].
La “vita penitenziale” nel Medioevo
Nel quadro dello sviluppo della disciplina penitenziale, fin dagli inizi del Medioevo, si apre anche al mondo laicale la prospettiva del cammino di conversione con la creazione attorno ai monasteri di gruppi di fedeli dediti alla penitenza e alla preghiera sotto la guida del vescovo o dell’abate. La formazione così di un ordo o status paenitentium appare in conseguenza sia dell’espiazione personale di gravi peccati, come imposto nella penitenza canonica, ma anche come ricerca di un processo volontario di conversione raccogliendo l’invito evangelico dell’urgenza del tempo escatologico. Tale prassi è attestata già nei secoli VII-VIII[12], sostenuta da una specifica letteratura che insisterà, anche nei periodi successivi, sull’ideale della vita cristiana, come vita di lotta. Una traccia di questa concezione può essere riscontrata, per esempio, nelle opere di Isidoro di Siviglia secondo cui: “il giusto si giudica da sé in questa vita, per non esser poi giudicato da Dio e averne una condanna eterna. Ogni uomo fa il giudizio di se stesso quando condanna le sue cattive opere facendo penitenza”[13]. Si tratta di una linea interpretativa che si approfondirà nei secoli successivi fino ad una sua particolare efflorescenza nei secoli XII-XIII[14], quando, nello sviluppo della spiritualità degli ordini mendicanti, si evidenzierà sempre più un ulteriore senso proprio della vita religiosa, non solo come vita di penitenza e di conversione, ma anche a servizio, attraverso il sorgere di ordini laicali, affiancati a quelli regolari, del cammino penitenziale e di perfezione del cristiano. La conversione verso cui ci si predispone in questa prospettiva non acquista solo una prospettiva di preparazione alla venuta del Regno di Dio, ma di costruzione anticipata di questo Regno attraverso l’adesione, esteriore ed interiore, ad una forma di vita evangelica. La ricerca di unità tra la disposizione interiore e gli atti esterni porterà ad uno sviluppo anche di una prassi visibilizzata delle opere penitenziali nelle quali esprimere, accanto alla celebrazione della grandezza di Dio, la viva consapevolezza del limite e del peccato dell’uomo.
Si comprende, allora, la singolare esperienza di Francesco d’Assisi e l’interpretazione che egli seppe dare di essa sulla scia di questo ampio movimento di ricerca di autenticità cristiana, in un tempo in cui la fede rischiava di perdere la propria originalità nel contesto di una cristianità stabilita. Un itinerario che solo alla fine della propria vita lo porterà alla costituzione di un movimento (ordine) religioso istituzionalizzato, ma che nella propria percezione resterà come un cammino personale di vita penitente. Testimonianza singolare di questa interpretazione dell’esistenza da parte di Francesco e della misura personale ed unica del suo cammino di conformazione e di adesione sempre più profonda all’umiltà di Cristo è l’apertura del Testamento dell’Assisiate che ne fissa il primo decisivo passo: “Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo”[15]. Il radicalismo evangelico appare così come un movimento progressivo che ha un significativo punto di partenza nella conversione a vedere nel lebbroso la figura del fratello da amare, superando, così, ciò che creava ostacolo per l’incontro pieno di Francesco col Cristo. Solo attraverso l’abbattimento di questa separazione si apre per lui l’itinerario della pratica dell’Evangelo sine glossa. Ciò che sarà lo stupefacente itinerario della via francescana si muove da questa conversione, da questa comprensione dell’umiltà di Cristo che si identifica con il fratello lebbroso da amare. Da questo passaggio, forse solo attraverso di esso, la vita di conversione sarà, in realtà, più che la fiera opposizione della volontà al vizio e al peccato, una comprensione sempre più profonda del Cristo verso cui indirizzare il proprio amore e da far amare da parte degli uomini. In questa prospettiva può essere recepito il testo della Regola che fissa l’esortazione e la lode che può sostanziare la parola del frate ad ogni categoria di uomini perché si mettano anch’essi sulla via della penitenza: “Fate penitenza, fate frutti degni di penitenza, perché presto moriremo (…) Beati quelli che muoiono nella penitenza, poiché saranno nel regno dei cieli”[16]. Sulla scia di Francesco, anche Chiara dirà di se stessa nella sua Regola per le sorelle: “Dopo che l’altissimo Padre celeste si degnò illuminare l’anima mia mediante la sua grazia perché, seguendo l’esempio e gli insegnamenti del beatissimo padre nostro Francesco, io facessi penitenza, poco tempo dopo la conversione di lui, liberamente, insieme con le mie sorelle, gli promisi obbedienza”[17]. Questa viva percezione del recupero evangelico della vita darà frutti anche presso gli altri ordini mendicanti e il movimento laicale ad essi connesso, come più ampiamente in tutto il Medioevo, anche se non è possibile percorrere in dettaglio gli ulteriori passaggi[18].
La conversione come introduzione alla “vita devota” nell’età moderna
Il complesso dei secoli XVI-XIX presenta, non diversamente dagli altri periodi, l’evidente impossibilità di una classificazione precisa. Sembra però imporsi, in riferimento alla crisi del tempo delle Riforme, una ulteriore caratterizzazione del tema della conversione in connessione con lo sviluppo di un impegno pastorale di formazione e cura spirituale capillarmente diffuso nelle comunità cristiane. L’imporsi, davanti alla cronica recensione dell’ignoranza religiosa e della tiepidezza nella pratica sacramentale da parte della popolazione, di forme straordinarie di evangelizzazione delle masse attraverso i cicli di predicazione quaresimale, le missioni popolari, gli esercizi spirituali, rappresenta un dato all’interno del quale pare mutare il senso della conversione. In particolare la nascita di nuovi ordini religiosi, specificamente dediti alla formazione e alla predicazione, a cominciare dai gesuiti e successivamente coi cappuccini, i lazzaristi, i passionisti, i redentoristi, gli oblati, porta ad un’intensa azione di cura pastorale e di servizio al cammino di riconciliazione del cristiano nel contesto del proprio ambiente di vita e principalmente della parrocchia. Abbandonata la concettualistica barocca, generatrice di ridondanti metafore immaginifiche e di retorica dello stupore, la predicazione si fa attenta a cogliere due registri fondamentali: quello di una catechesi popolare sulla fede, sulla vita sacramentale e particolarmente sui costumi, e quello di un incitamento alla penitenza in vista di una regolarizzazione della pietà personale. Particolare attenzione allora verrà posta alla confessione generale dei peccati proposta ai fedeli e colta non solo nell’ottica del rinnovamento interiore, ma anche nella ricerca della pacificazione delle contese di cui il mondo rurale era spesso eccitatore. Il ravvedimento dei costumi punta a trovare nella “vita devota” e nel “compimento dei doveri del proprio stato” un punto di equilibrio e di stabilità: “Si tendeva – ha fatto notare in modo pertinente T. Goffi – alla conversione dei singoli ma in modo da suscitare una moralizzazione del contesto pubblico, così da restituire il volto cristiano alla società”[19]. Dopo la temperie illuminista e la contestazione radicale alla fede cristiana, inoltre, si fa strada nella stessa predicazione, accanto all’emendamento dei costumi, un’attenzione più costante a sviluppare un’apologetica popolare del cristianesimo per combattere l’incredulità e la sua diffusione nei ceti popolari. Anche in questa accezione la conversione si precisa come un richiamo ai fondamenti della stessa fede, minacciati da un imperante indifferentismo.
Conclusione: tre luci dalla storia per il nostro presente
Il rapido sviluppo delle tre immagini con le quali è stato tratteggiato il senso della conversione, così come testimoniato nei secoli dalla vita consacrata, ci porta a riconoscere in ciascuna di esse una salutare provocazione anche per il nostro tempo. In riferimento al cammino del monachesimo antico appare importante l’evidenza della tensione che anima la vita consacrata: quella dell’urgenza dei beni del Regno per l’oggi della Chiesa e del mondo. In sé e per sé la vita consacrata appare il contesto in cui trasparentemente si annuncia la possibilità di una conversione e di una vita riconciliata. Così non è l’agire, ma l’essere della vita consacrata che sostanzia l’evidenza della conversione e la sua testimonianza come invito permanente offerto ad ogni generazione.
In riferimento allo sviluppo medievale di una vita penitente per il laicato all’ombra o nella sfera della stessa vita religiosa, appare urgente il servizio dei consacrati ad un accompagnamento spirituale dei fedeli laici per discernere la misura della propria conversione all’Evangelo all’interno di una cultura assuefatta all’indifferenza. La coltivazione dell’accoglienza da parte dei consacrati di quanti vogliono condividere, anche solo per un breve tratto della propria esistenza, un’esperienza di chiarificazione, di crescita nella fede, di risoluzione dei propri dubbi, così assume per l’oggi tutta la sua preziosità. Anche la nostalgia per un possibile e diverso modo di vita, testimoniato dalle comunità dei consacrati, potrà diventare, per il cristiano laico, non fonte di sradicamento dalla responsabilità maturata nella propria storia di vita, ma uno stimolo alla ricerca, dentro un quadro complesso e non di rado contraddittorio, di un ordine esteriore ed interiore necessario per vedere proprio nella vita quotidiana non un inevitabile dilapidazione delle proprie energie, ma il luogo in cui dare consistenza alla propria specifica vocazione.
Nell’ambito dell’annuncio esplicito della conversione, pur nei limiti propri dei secoli passati, su cui non è stato possibile soffermarci, la vita consacrata può reinvestire le proprie energie rinnovando creativamente una ricca tradizione di servizio alla crescita della santità del popolo di Dio aiutando le stesse parrocchie a vivere maggiormente, attraverso un più esplicito richiamo alla Parola di Dio e alla sua predicazione, l’impegno di fedeltà al confronto continuo con il messaggio della conversione, per evitare non solo cadute di tensione, rallentamenti e stanchezze, ma la stessa tendenza a ritenersi comunità soddisfatte e acquiescenti su quanto raggiunto nell’ambito della vita spirituale e nella costruzione di una solida comunione ecclesiale.
Note
[1] Ci rifacciamo alla traduzione italiana di M. B. ARTIOLI del Corpo Ascetico basiliano: BASILIO DI CESAREA, Opere ascetiche, a c. di U. NERI, UTET, Torino 1980. L’Opera è ripresa parzialmente in edizione più accessibile in BASILIO DI CESAREA, Regole morali. Catechesi evangelica della vita cristiana, “Spiritualità nei secoli, 53”, Città Nuova, Roma 1996. Su Basilio, con ulteriori indicazioni bibliografiche: L. BOUYER, La Spiritualità dei Padri (III-VI secolo), “Storia della Spiritualità, 3/B”, EDB, Bologna 1986, pp. 57-64; G. ANGELINI, Teologia morale fondamentale. Tradizione, Scrittura e teoria, “Lectio, 4”, Glossa, Milano 1999, pp. 111-116; J. GRIBOMONT, La sequela negli scritti ascetici di S. Basilio, “Parola, Spirito e vita. Quaderni di lettura biblica, 2”, EDB, Bologna 1985, pp. 216-230.
[2] ed. cit., p. 249.
[3] cit. in: L. BOUYER, La Spiritualità dei Padri (III-VI secolo), “Storia della Spiritualità, 3/B”, EDB, Bologna 1986, p. 58.
[4] Ibidem, pp. 105-106.
[5] U. NERI, Introduzione, in BASILIO DI CESAREA, Opere ascetiche, p. 43.
[6] Ci rifacciamo a: S. Benedetto: un maestro di tutti i tempi (Dialoghi e Regola), “Scritti Monastici – nuova serie, 3”, Edizioni Messaggero – Abbazia di Praglia, Padova 1981, con introduzione di P. Visentin e traduzione a cura del Monastero “Mater Ecclesiae”, Isola S. Giulio (Novara). Su Benedetto per una prima informazione e una sommaria bibliografia: L. BOUYER, La Spiritualità dei Padri (III-VI secolo), “Storia della Spiritualità, 3B”, EDB, Bologna 1986, pp. 260-271.
[7] Prologo, 35-36: ed. cit., p. 123.
[8] Prologo, 48-49: ed. cit., p. 124.
[9] Regola, 7, 67-69: ed. cit., p. 149-150. Vedi però tutto il cap. 7 per la descrizione dei vari gradi dell’umiltà.
[10] Introduzione in ed. cit., p. 22.
[11] Sulla vita monastica come “vita di conversione” possono essere accostate altre regole monastiche della tradizione occidentale. Per questo si può fare riferimento a: Regole monastiche d’Occidente, a c. di E. ARBORIO MELLA – C. FALCHINI, Qiqajon, Magliano (Bi) 1989. Sono raccolte le regole di Agostino, dei Quattro Padri (sec. V), di Benedetto, di Grandmont, le Consuetudini della Certosa, del Carmelo e di Francesco.
[12] Cfr. J. LECLERCQ, La Spiritualità del Medioevo (VI-XII secolo), “Storia della Spiritualità, 4/A”, EDB, Bologna 1986, pp. 99-101.
[13] cit. in J. LECLERCQ, La Spiritualità del Medioevo (VI-X11 secolo), “Storia della Spiritualità, 4/A”, EDB, Bologna 1986, p. 113.
[14] Cfr. A. VAUCHEZ, Pénitents, DS XII, coll.1010-1023; G. G. MEERSSEMAN, Ordo fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel medioevo, Roma 1977; AA.VV., Il movimento francescano della penitenza nella società medievale, Roma 1980.
[15] Si cita da Fonti Francescane – editio minor, Editrici Francescane, Padova-Assisi, n. [110], p. 66.
[16] Regola non bollata, cap. 21: ed. cit. n. [55], p. 46.
[17] Regola di Chiara d’Assisi, cap. 6: ed. cit. n. [2787], p. 1162.
[18] Cfr. per questo, oltre al già citato articolo del DS: F. VANDENBROUCKE, La Spiritualità del Medioevo (XII-XVI secolo), “Storia della Spiritualità 4/B”, EDB, Bologna 1991.
[19] P. ZOVATTO – T. GOFFI, La spiritualità del Settecento, “Storia della Spiritualità, 6”, EDB, Bologna 1990, pp. 113-114.