Quale rapporto c’è tra sacramento della riconciliazione e discernimento vocazionale?
Partirò da un fatto tutto mio, che suggella la storia che mi ha condotto fin qui. 19 agosto dell’anno scorso: da pochi minuti era passata la mezzanotte, quando ci chiamarono a casa per dirci che era morto don Mario e che c’era bisogno che io andassi ad aiutare a cercare nella sua stanza i documenti necessari per espletare tutte le pratiche. Bisognava far presto perché era morto fuori della provincia e in quella stessa mattina bisognava trattare con i vari uffici competenti. Non aveva parenti vicini che se ne potessero occupare; mi avevano chiamato sapendo l’intimo legame che ci legava.
Trovammo tutto in ordine. Mentre raccoglievamo le cose più importanti i miei occhi tornavano ripetutamente su quella stola che don Mario indossava per confessare, ripiegata sempre con cura sulla sua scrivania. Nel lasciare la stanza – con il consenso dei presenti – non resistetti a non prendere con me quella stola, perché in essa davvero ci vedevo tutto don Mario, il mio cammino con lui da quando ero piccolo bambino di prima Comunione, e il suo servizio sacerdotale per tutti, nei suoi 62 annidi sacerdozio.
In verità, di regali lui me ne aveva fatti molti, e anche preziosi, ma per me quella stola che indossava quando mi confessava era quello che desideravo di più: un po’ come se lì fosse racchiuso davvero tutto il suo ministero sacerdotale nei miei confronti, sia in quello che mi diceva che nel modo in cui me lo offriva, nel suo saper accogliere sempre e comunque la persona. Viveva uno stile di immedesimazione nel “penitente”, così che riusciva a farselo diventare un amico, senza mai confondersi con lui o sostituirsi a lui, uno stile di profondo rispetto e libertà (empatia, come si dice oggi). Un po’ fanciullescamente sentivo veramente che avere quella sua stola era come avere tutto lui stesso, e di più come se in quel pezzetto di stoffa fosse racchiuso buona parte del cammino di discernimento e di crescita nella vocazione che avevo condotto con lui… Tant’è il potere dei segni, vocazione religiosa e sacerdotale grazie al sacramento della Riconciliazione, devo “confessare” che il discernimento successivo alla prima intuizione, la maturazione poi e la cura della vocazione per me si sono verificati, e si stanno verificando tuttora, proprio attraverso questo sacramento, vissuto in un certo modo, con un confessore abituale. Sono convinto però che, al di là della mia esperienza, si può dire che c’è un collegamento in sé tra riconciliazione sacramentale e discernimento vocazionale (come del resto c’è tra sacramento e direzione spirituale).
Condivido con voi anzitutto una ragione teologica, che scaturisce dalla parola di Dio. Metterò giù solo alcuni riferimenti “veloci”, che non sono certo gli unici per il nostro argomento e che evochiamo più per suscitare qualche spunto che non una trattazione articolata.
Gli inni cristologici nelle lettere agli Efesini e Colossesi e l’incipit del cap. 3 della prima lettera di Giovanni ci permettono di sapere con certezza che la vocazione originaria e eterna dell’uomo è quella di essere santo e immacolato nell’amore davanti a Dio Padre, plasmato dallo Spirito in modo conforme all’immagine del Figlio eterno. Lì, nell’intimità della Trinità, quando anche noi saremo rivolti come Lui verso il Padre (kaì o lògos èn pròs tòn theòn: cfr Gv 1,1b) saremo simili a Lui perché lo vedremo così come Egli è.
Per istigazione e invidia del Diavolo il peccato e la morte sono stati iniettati come un virus per impedire e distruggere questa elezione, a tal punto che l’uomo ha dimenticato questa sua radice e questa sua meta, per cui non sa più valutare e discernere (dokimàzein) chi è. Addirittura ritenendosi sapiente è divenuto così stolto che quando si rivolge a Dio, confonde la gloria dell’incorruttibile Dio con le sembianze di un uomo corruttibile, o di volatili, quadrupedi, serpenti (Rm 1,22-23).
Il Figlio eterno, Gesù Cristo, è venuto a togliere il peccato e la morte, a distruggere il potere di satana e a ristabilire tutti noi nella nostra vocazione, permettendoci di conoscerla, apprezzarla e di sceglierla. Ci ha liberato dal peccato perché possiamo realizzarla, e ha lasciato questo potere divino, impensabile per gli uomini (Mt 9,8) proprio agli uomini, la sera di Pasqua: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”, disse Gesù, e alitando sugli Apostoli continuò: “Ricevete lo Spirito Santo a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”.
Grazie a questo dono inaspettato e inimmaginabile siamo così in grado di realizzare la nostra vocazione, e ancor prima di conoscerla, ma siamo anche in grado di discernerla in mezzo ai pericoli e alle prove, resi capaci di non farci più ingannare. “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio… non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12, 1-2).
Possiamo affermare con sicurezza pertanto che la libertà dal peccato è dunque essenziale per la realizzazione e ancor prima per il discernimento accurato della vocazione e per la sua realizzazione, e questa realizzazione richiede un discernimento continuo. Del resto, fin dall’inizio la Rivelazione ci ammaestra facendoci notare come la prima grande tentazione e il primo grande peccato fanno perdere proprio il discernimento fondamentale di cui erano capaci Adamo e Eva. Dinanzi all’albero del bene e del male satana è abilissimo nel far confondere la mente e il cuore stravolgendo la vocazione originaria ricevuta da Dio: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che, quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gn 3, 45). Solo allora la donna vide che…: cioè, cambio il suo discernimento, la sua capacità di valutare, o meglio, l’ha perduta. Satana non tentò in modo banale, perché in effetti Adamo ed Eva erano chiamati a diventare proprio come Dio: il tentatore propose loro un modo diverso per diventarlo, più immediato, autonomo. Mise dinanzi alla creatura la possibilità di divenire come Dio al di fuori di Dio, o meglio contro di Lui, per un’altra strada, quasi che Dio fosse geloso e invidioso.
La stessa tecnica di stravolgere il discernimento sulla volontà/vocazione di Dio, la si nota nelle tentazioni che satana porta contro Gesù, nel deserto. Lo tenta a non compiere semplicemente fenomeni da baraccone, ma a realizzare la sua vocazione di messia in un modo diverso da quello pensato e voluto dal Padre e dal Figlio nello Spirito, l’unico modo giusto. Fin dall’inizio, dunque, satana, come conferma Gesù nei suoi insegnamenti, è mentitore, ma lo è perché vuole la morte dell’uomo, mentre l’Incarnazione mette fine a questo meccanismo perverso, in quanto la libertà dal peccato e dalle sue seduzioni permette la realizzazione della possibilità di mettere gli uomini di fronte alla verità contro la falsità. Si tratta dunque di un discernimento anzitutto, come ci dice S. Paolo nella sua seconda lettera ai Corinzi (2 Cor 4,2.5b-6): “Rifiutando le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunziando apertamente la verità, ci presentiamo davanti a ogni coscienza, al cospetto di Dio… Siamo i vostri servitori per amore di Gesù. E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo”.
Non c’è scoperta e realizzazione della vocazione senza libertà e non c’è libertà senza distruzione del peccato, e non perdura la distruzione del peccato senza l’esercizio della carità e senza un continuo discernimento del bene. Questo il succo della rivelazione e della tradizione teologica, spirituale e pastorale della Chiesa.
Mi preme a questo punto far riferimento a due testi del magistero recente. Il primo è il Rituale della Penitenza del 1974. Al numero 7 delle Premesse è detto a proposito della confessione dei peccati veniali: “Coloro che commettono peccati veniali, e fanno così la quotidiana esperienza della loro debolezza, con la ripetuta celebrazione della penitenza riprendono forza e vigore per proseguire il cammino verso la piena libertà dei figli di Dio… Anche per i peccati veniali è molto utile il ricorso assiduo e frequente a questo sacramento. Non si tratta infatti di una semplice ripetizione rituale né una sorta di esercizio psicologico: è invece un costante e rinnovato impegno di affinare la grazia del Battesimo, perché mentre portiamo nel nostro corpo la mortificazione di Cristo Gesù, sempre più si manifesti in noi la sua vita[1]. In queste confessioni, l’accusa dei peccati veniali deve essere per i penitenti occasione e stimolo a conformarsi più intimamente a Cristo, e a rendersi sempre più docili alla voce dello Spirito. E con tanta maggior verità questo sacramento di salvezza influirà efficacemente sui fedeli, quanto più allargherà la sua azione a tutta la loro vita e li spingerà a essere sempre più generosi nel servizio di Dio e dei fratelli”[2].
Il secondo testo del magistero è di Giovanni Paolo II. In un’allocuzione agli officiali della Penitenzieria Apostolica e ai padri penitenzieri delle quattro basiliche patriarcali di Roma si sofferma sulla confessione come strumento di santità.
“Il sacramento della Penitenza, per quanto comporta il salutare esercizio dell’umiltà e della sincerità, per la fede che professa ‘in actu exercito’ nella mediazione della Chiesa, per la speranza che include, per l’attenta analisi della coscienza che esige, è non solo strumento diretto a distruggere il peccato – momento negativo -, ma prezioso esercizio della virtù, espiazione esso stesso, scuola insostituibile di spiritualità, lavorio altamente positivo di rigenerazione nelle anime del ‘vir perfectus’, ‘in mensuram aetatis plenitudinis Christi’ (Ef 4,13). In tal senso, la Confessione bene istituita è già di per se stessa una forma altissima di direzione spirituale. Appunto per tali ragioni l’ambito del sacramento della Riconciliazione non può ridursi alla sola ipotesi del peccato grave: a parte le considerazioni di ordine dogmatico che si potrebbero fare a questo riguardo, ricordiamo che la Confessione periodicamente rinnovata, cosiddetta ‘di devozione’, ha accompagnato sempre nella Chiesa l’ascesa alla santità”[3].
È certo che questi due testi che ho citato fanno riferimento alla direzione spirituale, tuttavia nessuno potrebbe dire che nel rapporto di direzione spirituale tra due persone sia assente il lavoro di discernimento vocazionale, un discernimento volto a scoprire la vocazione fondamentale della persona o a coltivare la vocazione già trovata. Semplificando un po’ le cose, potremo dire che la confessione abituale e frequente libera sempre più dai peccati e dall’influsso negativo dei difetti morali congeniti o acquisiti, che inducono al peccato, e si apre da sé alla direzione spirituale. Questa a sua volta permette di comprendere le esigenze sempre più radicali dell’amore di Cristo e conduce a discernere le circostanze della vita per compiere sempre solo ciò che Gesù Cristo vuole.
Pare necessario fare comunque alcune precisazioni. Il sacramento della riconciliazione è e rimane sempre costituito dalla confessione delle colpe e dalla assoluzione delle stesse, e in tal senso è stato istituito ad instar actus iudicialis[4], così che o si ricostituisca la persona in grazia o la si alimenti nella stessa. Questo è il frutto primo e fondamentale. Da questo frutto il penitente, stante il suo impegno continuo di conversione, può – e deve – raggiungere gli altri frutti, su cui il brano del Rituale e dell’allocuzione del Sommo Pontefice ci hanno illuminato. Non si potrebbe parlare certo di sacramento – e nemmeno il sacerdote potrebbe impartire l’assoluzione – se il penitente chiedesse di celebrare il sacramento solo per cercare conforto spirituale e psicologico o soltanto per ricevere consigli, per quanto spirituali, o per trattare unicamente di problemi di indole spirituale. Perché ci sia il sacramento di riconciliazione è necessario che ci siano peccati da assolvere. Invece, come già detto ripetutamente, nel momento in cui il sacramento venisse celebrato dalla persona con assiduità ecco che dal primo e fondamentale e necessario frutto si salirebbe più in alto lungo la scala che conduce a scoprire il vero senso dell’essere senza peccati. Dobbiamo sempre ricordarci che a Dio non interessa che l’uomo, del quale è innamorato follemente, come dice S. Caterina da Siena, sia semplicemente senza peccati, ma che entri consapevolmente e amorevolmente nella Sua stessa gloria: che risponda cioè alla vocazione eterna e originaria. E questo può farlo soltanto quando, libero dalla schiavitù del male morale e spirituale, scopre di essere intimamente legato a Dio, di far parte del Suo mistero. Ecco allora che, grazie al primo frutto proprio e indispensabile, il sacramento della riconciliazione può divenire uno dei luoghi privilegiati per il discernimento della propria vocazione.
In effetti questo è incluso nella logica delle cose. Quando parliamo di libertà dal peccato dobbiamo intendere ovviamente libertà da quegli atti, da quelle azioni cattive ben precise e consapevoli che l’uomo ha commesso. Ma dobbiamo anche intendere libertà dagli atteggiamenti peccaminosi che sono ancora più radicati e duri delle singole azioni; quindi, libertà dai vizi, che sono ancora più evidenti degli atteggiamenti, e delle tendenze, spesso istintive o almeno con una buona parte di inconsapevolezza, e libertà graduale da quelle debolezze che o sono congenite o sono come diventate una seconda natura, che spingono a comportamenti compulsivi, ma che a seguito di un sapiente lavorio, illuminato dalla grazia di Dio possono venire via via meno, o possono rientrare nel controllo della volontà amante di Dio.
Questa libertà al negativo ha un risvolto positivo: è apertura alla luce, alla verità, per cui non soltanto si conosce sempre più chiaramente Dio e la nostra relazione con Lui ma si vuole progredire in questa conoscenza amorosa e fattiva. Ne viene fuori un aumento sempre maggiore della capacità di agire nel bene e un forte desiderio insopprimibile di servire Dio. Ci si preoccupa di dare alla luce il positivo nascosto in noi, le qualità, esse stesse dono di Dio. È la conversione al positivo. Anzi, la conversione dal male, anche da quello più lieve, più innocuo, scaturisce proprio perché c’è questa attrazione della luce, del calore dell’amore di Dio. E se la ricerca della nostra conversione è sincera, non ammette ritardi, tentennamenti, o rimandi: è inevitabile allora che man mano che uno accusa il proprio peccato (in tutte quelle sfumature di cui sopra), dopo aver capito perché deve amare Dio, giunga a chiedersi e a chiedere al confessore cosa e come debba fare.
Il sacramento della penitenza comporta quindi, di suo, un affinamento della coscienza e una purificazione sempre maggiore dell’amore per Dio e per i fratelli. In questo modo scava nel cuore del penitente, lo scopre, e permette di mettere in luce il tesoro che lì è custodito. E, quando è necessario – e un po’ necessario lo è sempre – cambia il tesoro, perché cambia il cuore, che da cuore di pietra diviene cuore di carne. Questo cambiamento del cuore e del suo tesoro è il punto più profondo del discernimento, come è il punto sommo della vita penitente e della vita amante. Lì, nel cuore, il Signore ha deposto fin dal concepimento la vocazione della singola persona, vocazione alla quale lo stesso sacramento del Battesimo, prima porta di salvezza, dà la possibilità di svilupparsi.
Dal punto di vista più esperibile (sia per il confessore che perii penitente), una confessione celebrata con assiduità e profondità permette di verificare la serietà o la superficialità dell’impegno di conversione, perché permette di controllare l’effettivo impegno e la riuscita nei propositi pratici, che devono andare ben al di là della sola lotta alle tentazioni, in quanto devono far esercitare la persona nell’esercizio del bene (e il primo bene è costituito a un tempo dalla generosità spicciola e dalla crescita nel senso della preghiera). Bisogna capire, cioè, se la persona cerca consolazioni umane o desidera entrare nella consolazione che Dio vuole donare a tutti gli uomini.
Ancora, una confessione seria e frequente, proprio a partire dall’accusa dei peccati e dal modo di fare l’accusa, permette di cogliere anche se la persona cresce nella serenità di giudizio su di sé e sugli altri, sul suo equilibrio o meno, sul grado di libertà raggiunto nei confronti delle paure e condotte di per sé compulsive. Quindi, ci consente di valutare sulla delicatezza d’animo, distinguendola bene dalla scrupolosità. Il confronto tra i fallimenti e le riuscite e il modo di gestire questo confronto da parte della persona sono ben evidenti nel sacramento della riconciliazione.
In un “penitente impegnato”, poi, e soprattutto, emerge sempre più il valore della preghiera, sulla quale è fondamentale esaminarsi, perché si riconosca se è sempre più gratuita e disinteressata e diffusa nell’arco della propria giornata. La preghiera, nel suo “evolversi” permette di evidenziare le vere motivazioni che stanno dietro alle scelte della vita, da quelle giornaliere a quelle fondamentali, “primigenie”. Tutti questi sono, a ben vedere, anche quei requisiti basilari per la scoperta e lo sviluppo di una vocazione, sia al matrimonio che alla vita consacrata. E io credo che proprio in tutto questo spettro di elementi soprattutto il contenuto della preghiera permette di cogliere quale sia la fondamentale vocazione della persona, e quale sia il modo di coltivarla, una volta che sia già stata scoperta. Direi proprio che soprattutto nel confessare la propria preghiera ci sia il punto chiave del cammino nella propria vocazione.
Alcuni suggerimenti pratici, se si possono chiamare così quelli che seguono, e che do in primo luogo a me. Con una ragazza o un ragazzo che desiderassero confessarsi abitualmente da me, e che sentono a poco a poco di dover discernere la loro vocazione, dovrei arrivare sempre più a impostare le confessioni sulla linea del rituale della Penitenza, celebrandole non in occasione delle “grandi file” di penitenti ma a parte, nei momenti tranquilli. La persona che viene da me “per appuntamento” vive questo cammino al sacramento come un pellegrinaggio, e io, sapendo che oggi viene da me, mi devo preparare proprio per lei, facendo un po’ di silenzio dentro di me, lasciando decantare tutte quelle che possono essere le mie preoccupazioni pastorali e non. Lei cammina verso di me e io la attendo e la accolgo.
Quindi, è necessario che la persona faccia l’esame di coscienza tenendo conto che quello che lei da sola si ricorda dei suoi peccati è solo un primo passo, come l’ingresso nella soglia del mondo infinito della misericordia di Dio. È poi il confronto regolare con la parola di Dio che porta ad una più piena consapevolezza dei peccati, e a un più profondo e disinteressato pentimento[5]. Ma deve abituarsi anche a confessare le grazie, le opere buone che ha ricevuto e che ha compiuto con la grazia di Dio. E sempre deve verificare l’andamento della sua preghiera. Confessare la propria preghiera permette di scendere sempre più in profondità nel cuore.
Vi è un altro fatto, che ritengo del tutto importante, anche se posso essere contraddetto, ed è importante sia dal punto di vista prettamente spirituale che anche da un punto di vista psicologico, di crescita nell’armonia interiore psichica di ogni persona. Chi si confessa – ogni cristiano – deve abituarsi a ringraziare, Dio e gli altri. In occasione dell’esame di coscienza è importante, alla luce poi della parola di Dio, scorgere i motivi per cui bisogna ringraziare la Santissima trinità. La gratitudine e la generosità forse si possono definire come la prerogativa di Dio (dell’amore che si dona) per cui, più la persona sa ringraziare veramente, più si apre, più si rende conto di non essere l’autore della propria vita, più si mette in atteggiamento di accoglienza e di umiltà. Aggiungo alcuni appunti soltanto per scrupolo di una certa completezza. Il sacramento della Riconciliazione, tanto più quando diviene luogo e occasione di direzione spirituale e di discernimento vocazionale, deve essere via via sempre più concreto e abituare entrambi, penitente e confessore, a mettere sempre al centro i dati oggettivi, incontrovertibili.
Non si può certo prolungare oltre misura la celebrazione del sacramento, per cui, una volta che si sono affrontati quegli aspetti vocazionali che possono avere attinenza diretta con la confessione, è preferibile riprendere il dialogo al termine, dopo l’assoluzione. In tal senso, a volte (o spesso) chi viene da noi è digiuno del tutto o quasi dei principi teologici e psicologici della vita spirituale. Non potremo però impiegare i nostri incontri per fare “scuola di teologia”. Dobbiamo consigliargli la lettura di alcuni buoni testi, con un buon commentario della Sacra Scrittura, e chiarire poi insieme quei punti che si ritiene di approfondire o chiarire meglio. Tenendo conto, poi, del bisogno che un po’ tutti, soprattutto oggi, abbiamo di avere qualcuno con cui dialogare e confidarci, e tenendo conto dell’amicizia che naturalmente sorge in un rapporto di confessione abituale e di direzione spirituale, mi pare necessario ricordare a me e poi a tutti, che questi incontri non dovranno mai cadere nel vaniloquio, nel parlare di cose frivole, inutili e magari anche stupide. Né la persona che viene da noi né noi stessi abbiamo tempo da perdere: il lavoro che ci attende insieme è molto.
Maria Santissima ci assista in questo cammino di accompagnatori e accompagnati, Lei, che più di ogni altra creatura ha saputo discernere i segni dello Spirito e che in qualche modo si può dire madre del sacramento della riconciliazione e dei suoi più vari frutti, dal momento che è la madre di Gesù, unico Sacerdote, Colui che scruta i pensieri di ogni cuore e vede e sa la vocazione di ogni uomo creato in Lui.
Note
[1] Cfr. 2 Cor 4,10.
[2] Rito della Penitenza, n. 7 (passim), 1974. Le sottolineature sono mie.
[3] L’Osservatore Romano, 31.1.1981. Le sottolineature sono mie.
[4] Concilio di Trento, Sess. XIV Doctrina de sacramento Poenitentiae, cap. 6; can. 9.
[5] Mi pare del tutto opportuno che la parola di Dio sulla quale esaminarsi regolarmente sia proprio quella della liturgia domenicale, o quella su cui si fa l’esercizio della meditazione quotidiana, alla quale bisogna certo portare il penitente abituale.