N.03
Maggio/Giugno 1999

Il magistero del Concilio sul ministero diaconale

La teologia del ministero diaconale per un certo verso è tanto semplice quanto complessa è la sua verifica nel vissuto della chiesa. La definizione che ne dà LG 29, nella sua elaborata costruzione, è molto limpida: i diaconi “sono al servizio del popolo di Dio” nella triplice “diaconia della liturgia, della parola e della carità”, sostenuti dalla grazia del sacramento e “in comunione col vescovo e il suo presbiterio”. Il concetto di servizio è scritto nel verbo principale della frase, come quello che dice la logica d’insieme, che tutto riporta a unità. Proprio questo tema del servizio fonda l’agilità quasi imprendibile del ministero diaconale, e rende difficile inquadrarlo in schemi razionalistici, in funzioni rigide. Un servo non può imporre schemi preconcetti al proprio servire, ma è chiamato a permanente vigilanza (lo ricordano molte parabole del vangelo) per cogliere le necessità e il “tempo opportuno” della propria operosa disponibilità.

Certo il diacono è servo qualificato: servo del Signore per gli uomini, non è a disposizione di qualsiasi necessità o compito buono, meno che meno di ogni capriccio, ma è destinato alla triplice diaconia ecclesiale. La grazia del sacramento gli dà non solo fortezza e fedeltà, ma l’intelligenza cristiana delle opere del regno, la capacità non di sostituire ma di animare, di condurre a comunione nel Signore e nella Chiesa le diaconie che sono proprie di ogni cristiano secondo la vocazione di ognuno. Secondo la logica che è propria del sacramento dell’ordine in ogni suo grado, il diacono è infatti ministro nella e per la comunione ecclesiale; proprio per questo lo è “in comunione col vescovo e il suo presbiterio”, così che il popolo di Dio non abbia diversi centri di unità, ma uno solo, cioè il Signore Gesù, accolto nell’unità della fede, nel mistero dell’unico pane e dell’unico calice, riconosciuto in ogni uomo, testimoniato nella fraternità “perché il mondo creda”.

 

 

Identità ministeriale e identità vocazionale

Altra cosa è però definire in generale il senso del diaconato nella Chiesa, altra disegnare nell’insieme la figura personale, vocazionale del diacono. La sua stessa disappropriazione per il servizio della Chiesa non toglie, anzi fonda l’esigenza di un’unità spirituale forte. La questione dell’unità spirituale riguarda ogni vocazione in ogni momento della sua storia. Certo essa prende evidenza in relazione al conferimento del diaconato a uomini sposati, ma la riflessione su questa esperienza si ripercuote sulla spiritualità diaconale di uomini celibi, che continua a essere proposta significativa nella Chiesa non solo per i candidati a una successiva ordinazione presbiterale, né solo per i candidati al diaconato “giovani”. Il Vaticano II ha infatti deciso che nella Chiesa latina si possano ordinare diaconi giovani solo se celibi, ma non certo celibi solo se giovani. Che cosa significhi oggi in Occidente la soglia canonica dei 35 anni in termini di maturità, è questione da porre con attenzione. In ogni caso la vocazione diaconale in età più matura emerge significativamente non solo in uomini sposati ma anche in celibi.

L’osservazione necessaria è che il celibato qui supposto non è né può essere, né per i più giovani né per i meno giovani, quello indeterminato del tempo più o meno lungo della vita che precede la decisione vocazionale per il matrimonio o per un celibato scelto. La Chiesa non ordina chi non abbia chiarito e deciso il proprio stato di vita; e proprio per questo, mentre accetta di ordinare uomini sposati, esclude il matrimonio di ministri ordinati. Vale a dire che la vocazione al diaconato matura sempre con e dentro a uno stato di vita assunto in pienezza, sia esso matrimoniale o celibe per il regno. Ma né nell’una né nell’altra ipotesi il diaconato è vocazione subordinata, quasi da collocare negli spazi lasciati liberi dalla prima. Tutto infatti è libero e niente è libero, nel matrimonio come nel celibato per il regno, anche se non è chi non veda quanto la famiglia prenda tempo, energie, attenzioni… e lo stesso accade in un celibato che non abbia la forma del disimpegno. Un esempio, oggi normale, lo vediamo per il fatto che in genere il diacono ha una professione civile a cui deve dedicarsi con cristiana coscienziosità.

Neppure sarebbe però giusto immaginare la vocazione al diaconato come una vetta nella quale la vocazione matrimoniale trascenda se stessa; e lo stesso celibato dei ministri sacri avrebbe tutto da guadagnare a non essere inteso in alcun modo come “funzionale” al ministero, diaconale o presbiterale o episcopale che sia. La Chiesa ordina uomini che abbiano compiuto la propria scelta di stato di vita perché cerca ministri adulti, umanamente adatti – con la grazia che viene dall’alto – a sostenere le responsabilità del ministero loro affidato. Se il matrimonio, come la verginità per il regno, non fossero intrinsecamente capaci, ciascuno a modo suo, di ospitare in sé, senza strumentalizzarlo e senza esserne strumentalizzati, il ministero diaconale, ogni tentativo di cumulare in una persona la duplice vocazione avrebbe la forma del compromesso, sarebbe sorgente di continue insolubili tensioni. Parlo di ospitalità del ministero entro lo stato di vita, perché tra scelte totalizzanti la previa ospita la successiva, senza pregiudizio del rapporto che venga a instaurarsi tra le due.

 

 

Imparare vie e forme nuove

Tale rapporto si dà in forme molto diverse. La stessa convergenza, più semplice e in ogni caso assai più sperimentata, tra celibato e ministero, conosce nella storia forme molto varie: basti pensare al panorama, tutt’altro che piatto, che offre il sacerdozio dei religiosi, in relazione anche a quello del clero diocesano. L’esperienza orientale di ordinazione di uomini sposati potrebbe offrirci utili indicazioni, se non fosse in genere abbastanza inesperta del confronto con i contesti della modernità più smaliziata e “post-cristiana”. Non è possibile valutare il cammino ministeriale nei diversi stati di vita senza tenere conto del contesto culturale e delle esigenze pastorali che esso pone.

Il reciproco arricchimento dei doni dello Spirito è sempre di nuovo da imparare: affermarlo è anzitutto atto di fede, e solo una paziente amorosa esperienza lo può far diventare evidenza gradita, testimonianza illuminante. Se le persone e le comunità che lo vivono in prima persona fanno esperienza delle consolazioni dello Spirito ma insieme anche del mistero di cui sta scritto: “andando se ne va e piange…”, forse non c’è di che stupirsi.

I criteri della pastorale vocazionale e della formazione dovranno essere molto diversi da quelli tradizionali? Si impone una risposta positiva, che vada oltre le pigrizie dell’immaginazione; ma non perché il diaconato, conferito a uomini sposati, sia singolarmente diverso dalle altre vocazioni. Il suo apparire oggi nel panorama vocazionale della Chiesa di rito latino mette in evidenza l’originalità di tutte le vocazioni, segnalando come ingiustificate e contrastando analoghe pigrizie anche di fronte a ogni altra forma vocazionale.

Il riconoscimento e l’accompagnamento di vocazioni al diaconato di uomini di età più matura e sposati dà certo evidenza alla necessità di considerare e dar voce ai contesti familiari e ecclesiali, dà rilievo a tutto campo alla solidità delle virtù umane che sono anche virtù cristiane, chiede un vivo senso dell’essenzialità, senza la quale si accumulerebbero disordinatamente schegge impazzite di personalità pasticcione. In queste e altre maniere contrasta il clericalismo ancor sempre insidioso e per sua indole invadente. A superarlo non basta imporre le mani a persone sposate, che mantengono sé e la famiglia con una professione civile. È necessario invece raccogliere gli impulsi che questa esperienza offre per trasformarci tutti, diventando non più secolarizzati, ma semplicemente più cristiani.