N.03
Maggio/Giugno 1999

 “…sono venuto per servire”: la spiritualità della diaconia

La comprensione dell’identità biblica ed ecclesiale del ministero diaconale, aiuta a definire i tratti salienti della spiritualità del diacono. In genere c’è accordo, tra quanti si occupano della formazione spirituale dei diaconi, nell’individuare nella diaconia della Parola, nella dispensazione dell’Eucaristia e nel servizio dei poveri, l’asse portante di una vita conformata dallo Spirito alla diaconia ministeriale. Si tratta di vedere come queste tre realtà si accordano nell’unità di un’esistenza cristiana che, mediante la grazia sacramentale, rende testimonianza al servizio compiuto da Cristo, rivelando così la natura ministeriale della Chiesa. I diaconi, infatti, secondo l’intenzione profonda del Concilio, devono congiungere nelle loro vite diaconia liturgica e impegno caritativo, Eucaristia e servizio ai poveri. Spiritualmente questo non si deve tradurre, come purtroppo spesso è dato di vedere, in una sorta di dosaggio dell’uno e dell’altro servizio, magari secondo espedienti pastorali contingenti, volti più a risolvere i bisogni organizzativi delle chiese che non generati dalla contemplazione dell’essere di Cristo. Per evitare questa deriva prassistica della diaconia e della sua spiritualità, è bene riconsiderare il fondamento biblico e la tradizione ecclesiale che uniscono Eucaristia e poveri alla diaconia ordinata.

 

 

1. Il fondamento biblico

Certamente tra i segni che caratterizzano tutta la vicenda storico-salvifica d’Israele, la sua nascita e il suo divenire, fino a costituire il tratto distintivo della sua identità da tutte le altre religioni, è l’esperienza della povertà. Come sottolinea con forza la tradizione deuteronomista, la povertà è per Israele costitutiva della sua storia, perché fonda la sua stessa, originaria relazione con Dio e il suo abbandono fiducioso. Il popolo eletto, fin da principio, ha provato lo spaesamento e la provvisorietà dell’essere straniero ed errante, ha sofferto l’umiliazione della schiavitù in Egitto (Es 5, 6-23), ha sofferto nel deserto fame (Es 16) e sete (Es 15, 22ss) e ha patito nel viaggio privazioni e stenti (Dt 8, 1-5). La memoria di questa povertà, originaria e non occasionale, anche nella terra promessa, deve accompagnare il popolo di Dio nel suo cammino storico, per preservarlo da ogni tentazione di autosufficienza (Dt 8, 12-16) e per testimoniare, davanti a tutte le genti, le opere meravigliose di Dio che ha scelto un “non popolo” per rivelare a tutti la fedeltà misericordiosa del suo “sconcertante” amore (Dt 4, 34; 7, 7ss).

Anche nella nuova economia di salvezza, rivelata con parole e opere dal “Figlio dell’uomo”, il valore fondante della povertà è riaffermato e portato a pienezza di senso e di realizzazione. Cristo, mite ed umile di cuore (Mt 11, 29), nato povero e vissuto poveramente fino a non avere dove posare il capo (Mt 8, 20), ha scelto i poveri come soggetti privilegiati per l’annuncio del Regno (Mt 11, 5), per rivelare che, proprio in essi, è sigillato e custodito il volto più vero e nascosto di quel Dio che da primo si è fatto ultimo e da ricco si è fatto povero (2Cor 8, 9). Nel Nuovo Testamento dunque non si esalta la povertà come stato virtuoso o come moralità da conquistare con impegno ascetico, ma come verità che rivela in Cristo il volto di Dio, come luogo storico-salvifico dove il discepolo deve continuamente guardare per conoscere e vivere il mistero di annientamento di Dio, la sua kénosi scandalosa che il mondo, con tutta la sua sapienza, non può né accettare né comprendere (1Cor 1, 18ss).

La Chiesa, che da questo esinanirsi di Dio in Cristo riceve esistenza ed identità, deve celebrare nel mistero e portare impresso nel suo corpo, questa conformazione di generoso altruismo che la orienta e la dispone verso gli ultimi e i poveri, a imitazione di colui che è venuto non per essere servito ma per servire (Mc 10, 45). La diaconia è allora per ogni comunità cristiana, non una semplice accentuazione esemplificativa o carismatica della sua diversa eticità, ma l’effetto di quel segno sacramentale che la costituisce a immagine del suo sposo e signore per continuarne, nel tempo degli uomini, la misericordiosa azione di salvezza. La Chiesa, generata dal mistero pasquale dell’Eucaristia, dovrebbe riconoscere nel diacono, nel suo servizio all’altare e ai poveri, il punto concreto e irrinunciabile di raccordo tra l’azione liturgico-eucaristica, fonte di ogni diaconia, e la testimonianza concreta del suo essere di Cristo. L’unità dell’azione liturgica e caritativa nel ministero del diacono, serve a rivelare la specificità della diaconia cristiana che congiunge in modo inseparabile il servizio reso a Dio con il servizio reso ai fratelli e a tutti gli uomini, a partire dai più poveri in cui il Maestro ha detto di nascondere la sua presenza misteriosa (Mt 25, 37ss).

 

 

2. La tradizione ecclesiale

Questa lettura biblica della ministerialtà ordinata aiuta a cogliere il filo rosso che, nella grande tradizione ecclesiale, in ogni tempo ha collegato Eucaristia, poveri e diaconia. Questo nesso in verità non sempre è stato evidente e significativo, ma quando la Chiesa riscopre nell’Eucaristia la fons e il culmen della sua vita, la verità della sua origine e il punto orientativo del suo peregrinare allora, insieme alla sua identità, riscopre anche il senso più profondo della sua natura sacramentale “di segno e strumento” di salvezza per tutti gli uomini, a partire dai poveri che di questo mistero di annientamento divino sono la cifra storica e il punto concreto di ogni considerazione teologale sulla kénosi del Figlio (Fil 2, 7). Ecco perché ogni qual volta la Chiesa, con la centralità dell’Eucaristia, riscopre il primato dei poveri, com’è avvenuto nel Vaticano II, allora è anche portata a riconsiderare il senso della sua diaconia sacramentale, ed è perciò come indotta a riscoprire nel servizio dei diaconi quella funzione permanente che collega la mensa del corpo di Cristo alla mensa dei poveri. Eucaristia, poveri e diaconia sacramentale sono perciò la misura storica del cammino di santità della Chiesa e il segno della sua conversione e conformazione a Colui che si è fatto servo. Realtà inseparabile che i santi, in ogni tempo, hanno conosciuto e praticato coniugando splendidamente, scrupoloso rispetto per il corpo di Cristo e servizievole amore per i poveri, adorazione e servizio, diaconia e carità.

Riprendere le pagine dell’ultimo Concilio sulla povertà è illuminante; per tutto il popolo di Dio, prendere atto che la Chiesa pellegrina e bisognosa di perdono, proprio davanti ai poveri, confessa il suo peccato perché si riconosce infedele all’esempio normativo del suo sposo e Signore (Lumen Gentium, n. 8), sarebbe un’occasione forte per ripensare il senso della propria sequela. La povertà per la Chiesa, non è una modalità ascetica, ma grazia per una più piena conformazione a Cristo. E come la povertà radicale del Crocifisso è il luogo che nello Spirito rivela al discepolo il mistero di comunione della relazione filiale, così la povertà della Chiesa e il suo servizio ai poveri è il segno che rivela al mondo la sua partecipazione concreta al mistero di annientamento del Figlio. Si può dire che quando questo nesso viene a smarrirsi, la vita di una chiesa ne viene a soffrire. Dimenticare i poveri per una comunità cristiana, significa perdere il senso della diaconia ordinata che lo Spirito ha suscitato perché la celebrazione eucaristica sia veramente il centro della sua vita. L’appannamento o la riduzione del ruolo dei diaconi, infatti, storicamente ha comportato un offuscamento della diaconia sacramentale, vista sempre più come impegno personale di santificazione che come segno storico e oggettivo che dichiara i discepoli di Cristo davanti al mondo.

C’è ancora un altro tratto distintivo della dimensione cristologica ed eucaristica della spiritualità diaconale. Condividere l’abbassamento di Cristo, signore e servo, significa aver parte anche alla sua gloria, partecipando alla sua regalità: per il discepolo, infatti, servire è regnare. Al diacono è chiesto di vivere quel paradosso, tipico del ministero cristiano, che vede nel prescelto e consacrato da Dio il candidato al servizio dei fratelli, perché gli è conferito il diritto di essere ultimo, gli è dato il potere di servire. Se questa sconcertante verità del Vangelo diventa carne della nostra carne, e non si limita ad essere un raffinato gioco verbale, tutta la Chiesa si ritrova a vivere in quell’atteggiamento di disponibilità e di servizio che caratterizzava le comunità degli inizi. Spetta proprio al diacono testimoniare in modo esemplare la trasparenza sacramentale di questa paradossale opera della grazia, che lo ha prescelto per un incarico di servizio da rendere a Dio e agli uomini, al vescovo e ai presbiteri, come anche alla Chiesa e al mondo, perché il culto reso a Dio coincida con la condotta “scandalosa” di chi, imitando il Figlio, non considerò una conquista gelosa la sua diaconia ministeriale, ma la svuotò da ogni vanto della carne, assumendo veramente la condizione di servo (Fil 2,6-8). Servire i fratelli nella diaconia liturgica e lavare materialmente i loro piedi, soccorrendoli nelle loro necessità, non sono aspetti separabili del ministero, ma elementi dell’unica realtà sacramentale che nascono dalla celebrazione eucaristica e a questa riconducono.

 

 

3. Accompagnare alla diaconia

Ora però è sotto gli occhi di tutti che questa vocazione alla diaconia, forse per la babele di linguaggi in cui viviamo, forse per il tempo di penuria vocazionale che attraversiamo, forse ancora per la diffusa scarsità di anziani nella fede, troppo spesso è misconosciuta e il discernimento vocazionale avviene nell’inerzia di una semplificata prassi pastorale, a volte ingenua a volte anche pasticciona, incapace di affrontare con perseverante vigilanza l’arduo cammino della conoscenza del cuore di Dio e del proprio cuore. Il riconoscimento di una vocazione diaconale deve essere considerato un’opera della grazia ma costituisce anche un avvenimento ecclesiale che di fatto coinvolge, o dovrebbe coinvolgere, a vario titolo, molti protagonisti: dalla comunità di origine, allo stesso candidato; dal responsabile della comunità ai delegati, dai diversi formatori preposti allo stesso vescovo. Non è quindi una scelta affidata solo ai buoni sentimenti o lasciata all’intenzione personale dei singoli, ma una scelta ecclesiale vera e propria che, sapendo riconoscere i doni di Dio, opportunamente li utilizza per la crescita della comunità. Un corretto cammino di discernimento, premessa indispensabile per ogni fruttuosa ordinazione ministeriale, coinvolge dunque, più soggetti: la comunità, il candidato e il vescovo con i suoi delegati.

Questo discernimento, ordinariamente, si configura come un riconoscimento di diaconie già di fatto esercitate e riconosciute nella concreta edificazione della comunità, e consiste in una serena ed equilibrata ricognizione del già esistente. Questa è la via ordinaria, quella indicata dalla sapienza della Chiesa. Nelle comunità aggregate dalla Parola e strutturate dall’Eucaristia, e identificabili pertanto non dai confini territoriali per l’amministrazione del sacro; in una Chiesa che nella preghiera insistente presenta la sua fiduciosa richiesta a Colui che dispensa ogni dono, il discernimento potrebbe manifestarsi come vera designazione. Viene però da chiedersi: questo percorso vocazionale, ancorché biblicamente fondato e attestato dall’antica tradizione (At 15, 8 e 6, 3), in quante delle nostre parrocchie è, oggi, concretamente praticabile? L’originalità di questa proposta sta tutta in quel “sentire ecclesiale”, così poco diffuso, che potrebbe consentire lo sviluppo di un vero accompagnamento vocazionale. Il contesto più idoneo per una diaconia vocazionale è la realtà ecclesiale: la Chiesa è il luogo storico – pneumatologico della vocazione, perché in essa ogni chiamata al servizio prende consistenza e riceve la sua conformazione ministeriale in ordine a Cristo. Il discernimento vocazionale deve tener conto della concreta articolazione di questi elementi, senza cercare espedienti per soluzioni di compromesso e per equilibri ispirati ad un pragmatismo utilitaristico che privilegia le cosiddette “esigenze pastorali” a scapito della verità teologica del servizio ordinato, mortificando l’operato della grazia e contribuendo a produrre quei frutti penosi che tutti, a parole, continuano a lamentare.

Al di fuori di questa prospettiva ecclesiale, non c’è servizio ministeriale vero che il diacono possa offrire per aiutare il cammino diaconale dei candidati al ministero; il suo impegno si qualificherebbe in senso solo soggettivo e personale. Si può dire che le tante e lodevoli iniziative vocazionali, siano tutte radicate biblicamente e corroborate dalla sapienza della sana tradizione di imitazione-sequela del Signore? Il fondamento biblico, l’accompagnamento dell’anziano e la conferma della comunità ecclesiale, sono solo una litania di santi propositi, di buone intenzioni da considerare nel novero delle tante cose belle e inutili, o realtà da promuovere? E ancora, questo forte sentire ecclesiale, deve ritenersi valido solo per i candidati al diaconato permanente? Il cammino vocazionale verso il presbiterato, può ancora essere consegnato dentro l’ottica privata del desiderio del candidato, senza alcun effettivo riscontro ecclesiale che non si risolva in mera cornice formale? In questo caso, fatte salve le debite differenze, si avrebbero due misure diverse di giudizio per l’unico sacramento dell’ordine e, soprattutto, si pretenderebbe uno stile teologico più esigente ed elevato per la funzione inferiore del ministero ordinato. Ritengo che da una Chiesa veramente “tutta ministeriale”, deriverebbe un diverso orientamento spirituale, in grado di dare nuove luci e di fornire indicazioni preziose per un rinnovamento sapienziale, e non estrinseco, della prassi vocazionale delle nostre chiese. Realizzando così l’intendimento garbato, e non privo di autoironia, dei nostri vescovi che, proprio dalla benedizione delle vocazioni al diaconato permanente, si auguravano potesse derivare una vivente memoria di conversione per tutto l’ordine sacerdotale (Orientamenti e Norme, n. 7).