N.04
Luglio/Agosto 1999

La donna consacrata e la cultura della vocazione

 

 

 

PREMESSA

 

Ci sono numerosi studi e inchieste che forniscono dati. Per un’interessante panoramica, dato il sempre più esiguo spazio di tempo che ci è concesso, può essere utile fare il punto sulla situazione della donna consacrata nella chiesa e nella società, con particolare attinenza agli aspetti storici e teologici del femminismo, attraverso gli interessanti studi del Convegno Internazionale e Interculturale promosso dalla Pontifica Facoltà di Scienze dell’Educazione Auxilium nel 1997. Gli Atti “Donna e umanizzazione della cultura alle soglie del Terzo millennio. La via dell’educazione” (LAS, Roma 1998), forniscono anche un’ampia ed aggiornata bibliografia.

Dal punto di vista più specificamente della Vita Consacrata nel dopo Sinodo utile testo di consultazione, che raggruppa e sistematizza la sintesi di diversi contributi, è il volume di Padre Bruno Secondin “Per una fedeltà creativa”(Paoline ’95); inoltre interessanti sono molti studi comparsi nel post-Sinodo sulla Rivista “Consacrazione e servizio” del Centro Studi USMI. Con questo rimando bibliografico vorrei chiarire subito i contorni del mio intervento che non può, per oggettivi limiti della mia preparazione e per inclinazione personale, muoversi su un campo di approfondimento dei contributi suddetti e di numerosi altri. Io posso solamente sottolineare, tra le pagine del vissuto, quelle parole che mi solleticano maggiormente la curiosità e che, anche, mi fanno soffrire per quella nostalgia di pienezza che ciascuno si porta dentro e per quell’incompiutezza che è il suggello di ogni nostro pensare. La riflessione si susseguirà in tre tempi, espressi in tre verbi che tratteggiano anche una modalità di approccio: situarsi-osservare-scegliere.  Il quarto, quello del dialogo, il più importante, lo scriveremo insieme.

 

 

 

SITUARSI

 

In ascolto dei giovani e delle donne

Fonte di riflessione può e deve essere l’esperienza di ciascuno di noi. Provo a raccontarvi due momenti di ascolto che ho avuto con gruppi diversi, proprio per preparare questo incontro con voi. Anzitutto un gruppo di universitari che quindicinalmente frequentano la casa in cui vivo.

Quanto mi hanno detto circa il loro modo di percepire la realtà della donna oggi assomiglia molto a quanto potete leggere in una inchiesta apparsa su Sette (il settimanale del Corriere della sera, nel n. 21 del ‘99). L’autore della ricerca, Giampaolo Fabris, che già vent’anni fa aveva condotto un’inchiesta simile, così sintetizza i risultati: “Poche volte mi è capitato di toccare con mano un mutamento così incisivo in un’area centrale come quella del rapporto lui-lei che vuol dire rapporto di coppia, quotidianità, casalinghità, rapporto coi figli…”. I giovani che parlavano con me non erano probabilmente consapevoli di lotte per l’emancipazione femminile… semplicemente accettavano il vissuto della reciprocità pur tenendoci a salvaguardare, i ragazzi, il loro essere “duri” e le ragazze, la loro voglia di essere coccolate… Ma quello di cui si sono dichiarati consapevoli è il non aver conquistato quello che loro è stato offerto su un piatto d’argento così da aver perso “la forza” per accoglierlo e farlo fruttare. Troppo bello, troppo tanto… e adesso?

Un secondo momento del dialogo si è focalizzato su quella “donna” che è la suora. Sintetizzo con un’immagine usata da loro il lungo parlare: “Le suore hanno solo gli ultimi dieci minuti della partita per giocare e non possono permettersi di sbagliare come può fare chi gioca novanta minuti!” Ciò significa una certa marginalità della presenza delle religiose (ma sorte non migliore tocca agli istituti secolari definiti “poliziotti in borghese”) perché, anche se la società apprezza il valore solidaristico della loro attività, rischia poi di “identificarle con quella marginalità di cui sono a servizio”. 

Non va meglio per la suora nella comunità ecclesiale in cui domina la figura del prete e che tutela ancor meno la presenza della religiosa che gioca solo gli scampoli di partita in ruoli non importanti per la vita della comunità. Da qui un certo sentimento di estraneità e quasi di paura avvertito dai giovani universitari nei confronti della suora, paura che nasce dalla non conoscenza: “Ma le suore dovrebbero cambiare modo di comunicare poiché bisogna proprio aver voglia di comunicare per capire che c’è ‘una persona’ dentro quella ‘suora’”. Eppure chiedono che, in una realtà che “ti inietta il soldo per endovena” le consacrate sappiano essere vicine rinnovandosi senza annacquarsi e senza togliere dai giovani le responsabilità che essi devono portare. Tradotto: sappiateci ascoltare con la semplice e quotidiana attenzione che viene dal vangelo vissuto.

Altro momento interessante la condivisione con un piccolo gruppo di giovani donne (legate al Centro Italiano Femminile) che da una decina di anni si ritrovano per riflettere su politica, maternità, educazione, pace, famiglia, vangelo… In questi anni esse hanno maturato consapevolezze e si portano dentro alcune sofferenze che si situano all’interno di quel percorso globale del femminismo che conosciamo[1].

 

Consapevolezze

il valore della differenza: i soggetti del vivere e del sapere sono due e non uno che sottintende l’altra; la differenza di genere è originaria, non si tratta di una differenza tra le altre perché nessuno può percepirsi come persona indipendentemente dalla propria identità di genere.

2° messa in discussione della falsa neutralità del linguaggio: la differenza va riconosciuta e nominata

3° discussione del concetto di uguaglianza (rischio di omologazione): l’uguaglianza significa pari dignità e pari valore, riconoscimento degli stessi diritti. Non significa che bisogna essere tutti uguali e tanto meno che le donne devono diventare uguali agli uomini per sentirsi riconosciute nel loro valore.

4° concetto di reciprocità diverso da complementarietà: la complementarietà dice incompletezza della persona e dice differenze statiche che si incastrano tra di loro. Il concetto di reciprocità dice scambio dinamico ed arricchente di competenze, di risorse… Dice che le persone non sono incomplete, ma sono fatte per la relazione, che è dimensione costitutiva dell’essere umano. Reciprocità dice rapporto che cresce continuamente accettando il cambiamento ed il conflitto e nasce dall’idea della persona come mistero e realtà aperta alla trascendenza, quindi sempre tesa ad andare oltre se stessa.

 

Sofferenze

anzitutto date dall’atteggiamento maschile di condivisione solo apparente, di adattamento nostalgico ai cambiamenti; inoltre la scarsa consapevolezza delle donne stesse su questi temi (le giovanissime soprattutto non ne paiono toccate) che vengono giudicati marginali. In ambito specificamente ecclesiale è soprattutto la relazione con i presbiteri a far problema, la rigidità nel concepire ruoli ed ambiti (il sapere teologico e liturgico non è riconosciuto al laicato in genere e soprattutto alla donna); inoltre si preferisce rimuovere il conflitto nei luoghi di confronto (Consigli pastorali) e sfugge il “dove” avvengano le decisioni. Altra sofferenza è causata dalla necessità di rifarsi a riferimenti maschili (teologi, direttori spirituali, presidenti del culto, parroci, responsabili di attività pastorali…): gli uomini fanno da filtro all’esperienza religiosa delle donne e questo, per alcune, è divenuto difficile da accettare. In tutto ciò la estraneità delle religiose da questo confronto-ricerca è patente; la loro assenza come figure di riferimento nel cammino spirituale, altrettanto!

 

Tra le provocazioni della cultura

Nel giugno del ‘98 la CEI promosse una giornata di studio sul progetto culturale. Intervenne il prof. Alici con una interessante lettera immaginaria scritta a lui, credente, dalla sorella Sofia, impegnata in gruppi di sinistra.  “Il mio attuale compagno – scrive Sofia – ripete spesso che si deve andare dove porta il cuore. Me lo ripete anche mia figlia, che ho voluto per poter sperimentare il lato materno della mia vita di donna, ma che ormai è andata a vivere da sola e che consuma esperienze e compagni con la stessa frenesia nervosa con cui io consumo un pacchetto di sigarette. È vero che lei ripete gli slogan che erano un tempo sulla mia bocca, ma nella nostra generazione in quelle parole vibrava una forza dirompente di protesta che ora non ha più e poi c’era una famiglia e una società che compensavano, facendo da contrappeso, le nostre fughe in avanti. Ora sulla bocca di mia figlia quelle parole assumono un suono gretto e individualistico ed io non sono (e non saprei essere) per lei quello che mia madre è stata per me”. 

Queste battute evidenziano un certo disorientamento della cultura dominante, almeno per chi ne aveva vissuti i risvolti epici in gioventù, dovuti alla caduta di un muro di no che, tuttavia proteggeva da quella nuvola di banalità che oggi ci ha contagiati. E qui anche la chiesa, come vivente in questa società, è coinvolta.  Dalla constatazione di questo stato di cose emerge anche la curiosità: “Non so bene cosa sia questo vostro progetto culturale; nella mia vita incasinata, da quando la passione politica è calata e l’orizzonte dei miei interessi vitali si è ristretto al cerchio degli affetti, del lavoro e delle amiche, mi sono ridotta ad annusare problemi e notizie e ti confesso che non ne ho mai sentito parlare. Non credo che nella chiesa siano così ingenui da immaginare una nuova strategia egemonica: il Medioevo è finito da un pezzo e anche a noi Gramsci ormai appare sempre più lontano e sfuocato. D’altra parte devo confessare che oggi non so nemmeno cosa significhi cultura: a volte essa mi appare come un reticolo friabile di addensamenti simbolici che riempiono gli interstizi del tempo libero, dove attingere un compenso emozionale che ci allontana dalla conflittualità violenta dilagante nel mondo della conflittualità e del lavoro. Che cosa vuol dire un progetto culturale per la chiesa?… Per voi cattolici, oggi più di ieri, può essere l’ossigeno di cui avete bisogno se non volete ridurre la fede ad un nobile diversivo spirituale. È vero che la fede non è un sapere, non è un’etica, non è un’economia, non è una cultura, ma poi come riuscirete a far capire che cosa è se vi tagliate alle spalle tutti i ponti per dialogare con chi non viene al vostro gruppo?”

E prosegue, dopo aver tratteggiato la società italiana in caduta libera nella tensione ideale, affannosamente alla ricerca di riforme senza riferimento ai valori: “Ho il sospetto che in questo scorcio di millennio, in cui sembra che la chiesa abbia ritrovato il feeling con i media e con le piazze, voi vi stiate allontanando sempre più dalla società reale, dai luoghi in cui si decide il futuro della gente”. Conclude così: “Se Dio esiste e se parla davvero il linguaggio dell’amore e della misericordia, non può essere imprigionato in un girotondo di parole logore… tra gli spazi interiori della coscienza e quelli pubblici della storia deve allora circolare un medesimo progetto di vita socialmente significativo ma non fanatico, umanamente contagioso, ma non invadente. Questo pensiero dovrebbe togliervi il sonno…!”.

Questa lunga citazione, mi ha offerto l’opportunità di riassumere sia il punto di vista di chi sta fuori, sia di scegliere un linguaggio dialogico “femminile” (anche se scritto da un filosofo!), sia di completare il quadro problematico esperienziale che ho raccontato all’inizio.

 

Accogliendo le sollecitazioni della Parola e del Magistero

Accogliere le sollecitazioni della Parola vorrebbe dire, a questo punto, fare una relazione solo su quello. E non è consentito dallo scopo di queste riflessioni. Tuttavia è essenziale, (se queste note vogliono costituire soprattutto un itinerario per abbozzare provocazioni al e nel progetto culturale in chiave vocazionale) che la Parola sia spada a doppio taglio che ci consenta di operare il necessario discernimento. Se potessi farlo non seguirei i testi classici del Genesi, ma leggerei con voi la vicenda di Giuditta, come ho fatto in questo anno con vari gruppi di religiose e alla scuola intercongregazionale delle novizie della regione Emilia Romagna. Ed evidenzierei cinque piste possibili: quella della speranza, quella della preghiera, quella del coraggio, quella della fedeltà e quella della bellezza. Giuditta è simbolo della comunità prostrata e forte, comunità che celebra il suo Dio nella bellezza e nella libertà. Giuditta è comunità che va, senza farsi costringere dalla sindrome della cittadella assediata, per intercettare ogni strada, anche quella di Achior l’ammonita…

Giovanni XXIII ha riconosciuto nella nuova autocoscienza femminile un segno dei tempi. Nella Pacem in terris saluta positivamente l’ingresso della donna nella vita pubblica e tale accoglienza verrà poi consegnata ai padri del Concilio che nel messaggio finale scriveranno: “Donne, voi sapete rendere la verità dolce, tenera, accessibile, impegnatevi a far penetrare lo spirito di questo Concilio nelle istituzioni, nelle scuole, nei focolari, nella vita quotidiana”. Parole che anticipano quello che costituisce il filo rosso delle riflessioni di Giovanni Paolo II sul “genio femminile” tratteggiato nella Mulieris dignitatem.

Due esortazioni post- sinodali vanno sottolineate:

– la Christifideles laici afferma: “La ragione fondamentale che esige e spiega la compresenza degli uomini e delle donne non è solo la maggior significatività ed efficacia dell’azione pastorale della chiesa; né tanto meno il semplice dato sociologico di una convivenza umana che è naturalmente fatta di uomini e di donne. È, piuttosto, il disegno originario del Creatore che ‘dal principio’ ha voluto l’essere umano come ‘unità dei due’, ha voluto l’uomo e la donna come prima comunità di persone, radice di ogni altra comunità e, nello stesso tempo, come ‘segno’ di quella comunione interpersonale d’amore che costituisce la misteriosa vita intima di Dio uno e Trino” (n. 52).

 Vita consecrata, dopo avere nei numeri 57 e 58 ribadito la dignità e il ruolo della donna e la sua vocazione ad essere segno della tenerezza di Dio verso ogni uomo, chiede che: “sia promosso dalla gerarchia un dialogo aperto e limpido con le donne consacrate e laiche” in vista di affidare loro uffici e responsabilità rispondenti alle loro capacità. 

Ancora un accenno all’evoluzione del magistero del Papa nelle due lettere del 1995, quella del Giovedì santo ai sacerdoti e la lettera alle donne riunitesi a Pechino.  “La prima – commenta la Militello[2] – singolare nei suoi destinatari, rompe il circolo obbligato della relazionalità verginale/materna per aprirsi alla dimensione ‘sororale’. Non è poca cosa offrire il paradigma della sororità, accanto e oltre quello della maternità. Né sfugge il fatto che la sororità sia una sorta di manifesto, di parola chiave della cultura femminista. Assumere la donna come sorella vuol dire aprire alla donna e al prete ambiti di collaborazione sin qui, se non negati, certo avvertiti in tutta la loro difficoltà. C’è ovviamente la preoccupazione di depotenziare la donna dalla sua carica sessuale. Sorella è il termine più gratuito e gratificante nella rete dei rapporti familiari”. 

Ma, aggiunge Cettina Militello, la novità più significativa giunge nella lettera scritta in occasione della conferenza di Pechino che evidenzia l’aprirsi alla soggettualità culturale delle donne poiché il Papa sottolinea come, sia all’uomo che alla donna, sia stato affidato dal Creatore il compito di riempire la terra e soggiogarla. “Qui la donna è stata delegata ad umanizzare la cultura a partire dalla maternità. In fondo restavano così divaricati il compito del maschio e della femmina, al primo l’estroversione, il pubblico, il politico; all’altra l’introversione e il privato.  Ma – ed è la tesi di Giovanni Paolo II – sin qui l’umanità è apparsa povera, menomata, ferita per l’estromissione della soggettività femminile, allora il problema è eminentemente culturale”. 

 

Vorrei terminare questo volo d’uccello sottolineando come nella Chiesa, per la logica della comunione che spinge ad oltrepassare gli steccati, senza minimizzare i problemi per la presenza di concettualizzazioni maschili, la saggezza evangelica conduca la vita oltre i limiti e dilati gli spazi della libertà oltre ogni immaginazione.

 

 

 

OSSERVARE

 

Situazione, perplessità, aperture della e per la donna consacrata in Italia

Anche qui procediamo per brevi cenni. Le fonti sono principalmente la relazione quinquennale di madre Lilia Capretti all’Assemblea elettiva USMI del 1998; l’intervento della nuova presidente nazionale madre Simionato e di padre Rupnik all’ultima assemblea di aprile. Poi, uno sguardo alla mia personale esperienza. (Mi scuso ma non ho dati per le altre forme di vita consacrata ordo virginum, congregazioni diocesane, consacrati nei movimenti…).

Parlando alle oltre 500 superiore maggiori italiane riunite a Roma, la Presidente ha anzitutto evidenziato lo sforzo di attenzione a captare i segni e le res novae nella linea di promuovere la comunione tra i vari Istituti, compito da sempre sentito come prioritario dall’Unione e di cui così parla Vita consecrata: “Questi organismi hanno lo scopo principale di promozione della vita consacrata inserita nella compagine della missione ecclesiale” (VC 53). Anche per queste motivazioni è stato rivisto lo Statuto, con uno sforzo notevole di coinvolgimento di tutte le religiose, che ha portato all’attuale stesura, organizzata per aree[3], ma che… è carente di persone disponibili ad occuparne i quadri… Madre Capretti sottolinea come tutte le iniziative in Italia siano sempre state prese secondo gli orientamenti CEI, coscienti dell’importanza dell’incarnazione nel proprio territorio. La collaborazione con la CEI si esprime soprattutto attraverso la Commissione Mista Vescovi e Vita Consacrata e si attua nella partecipazione agli Uffici pastorali ai diversi livelli.

Nell’ottobre ‘93 ci fu un’assemblea dei Vescovi italiani “I carismi della vita consacrata nella comunione ecclesiale in Italia” cui contribuì notevolmente sia l’USMI che la CISM. Altro momento forte il Convegno ecclesiale di Palermo del novembre 1995. Le suore hanno partecipato inserendosi nelle varie commissioni, a seconda della loro preparazione personale. “Ed ora la nostra attenzione è posta sul conseguente progetto culturale. L’apporto della vita religiosa femminile presente in Italia deve, con fede e coraggio farsi carico di ogni evento ecclesiale, darvi il proprio apporto con competenza e professionalità”. Uno dei settori di attenzione prioritaria, in collaborazione con Caritas e la Migrantes, è stato quello relativo “alla tratta di esseri umani a scopo di abuso sessuale” e, purtroppo, ultimamente il dramma dei profughi.

A livello europeo si partecipa alla Unione delle Conferenze Europee dei Superiori Maggiori (UCESM) e ciò per favorire l’attuarsi di una comunità europea che sia prima una comunione di persone e di valori che di monete. Anche la partecipazione e la collaborazione al Convegno europeo sulle vocazioni del ‘97 va collocato in questa logica. Attualmente intenso è il contributo offerto alla preparazione del Grande Giubileo. Esistono poi nuove strutture di coordinamento per i servizi socio-educativi; attenzione particolare alla Scuola cattolica “tanta buona volontà, ma non sappiamo cosa accadrà”! Il motivo di questa esclamazione lo possiamo dedurre dalle cifre: facendo un raffronto dal ‘95 al ‘98 le religiose sono diminuite di 8.300 unità. Una trasformazione dirompente per gli istituti apostolici è data dal cambiamento del rapporto con “le opere” dell’Istituto, che vanno chiudendosi, e dal conseguente modificarsi dei servizi sociali e pastorali assunti dalle religiose. Quale forma di comunità esigono?

Tale interrogativo è risuonato anche nella Assemblea tenutasi l’aprile scorso con la nuova presidente Teresa Simionato la quale ha ribadito la necessità di vivere l’attuale kairòs con “il coraggio di riconoscere che alcune espressioni e segni della vita religiosa oggi sono muti, che alcuni modelli e stili di vita, di servizio sono ormai di facciata, non per un’incoerenza interna, ma perché lo Spirito soffia altrove”. Parole d’ordine, quindi: ridimensionamento, ristrutturazione, distacco, cambio di mentalità e di gestione, presenze nuove, apertura all’inedito. Madre Simionato ha evidenziato come il nostro sia tempo di chiamata alla libertà, poiché solo riconoscendo che non è nostra la terra che abitiamo saremo aperte ad uscire e ad avviarci verso la terra della promessa.

 E invece: “Si comincia a far di tutto per avere vocazioni e per mantenere le opere, perché secondo noi sia l’una che l’altra cosa sono indispensabili”. Così si esprimeva Padre Marco Rupnik nella relazione alla medesima assemblea, dopo aver ribadito i dati: il numero delle novizie italiane è calato in sei anni del 60% (986 nel ‘92 e 443 nel ‘98) e l’età media delle religiose italiane in dieci anni è passata dai 60 ai 70 anni. Eppure noi non siamo chiamati a salvare le nostre Congregazioni, evidenziava Rupnik, poiché questo è contraddittorio con il motivo stesso per cui sono nate. Esse sono state fondate per Dio, per la sua gloria, per l’imitazione di Cristo e Cristo ci ha salvato non salvando se stesso: “La crocifissione, scenario di morte e di crimine, è stato il luogo in cui Dio, nel suo Figlio, ha detto tutto di sé e ha toccato la nostra notte, la nostra morte con il suo amore”. Ed è precisamente questa l’esperienza di cui hanno bisogno novizie e giovani suore, quella di essere redente e liberate dalla schiavitù del peccato, altrimenti: “Come faranno a svincolarsi da questa ferrea logica del mantenimento di tutto ciò che si ha, strappandosi da tutte le parti senza aver assaporato quella consolazione del Paraclito che accompagna i servi fedeli ma inutili perché figli amati?”.

Se ciascuno di noi provasse a raccontare la propria esperienza molte delle affermazioni fatte verrebbero contraddette, altre evidenziate, altre ancora aggiunte. Per quanto mi riguarda, vorrei solo ribadire che temo le fughe nello spiritualismo, ma credo nel primato dello Spirito; che mi fa paura l’escatologismo, ma attendo con tutto il cuore il ritorno del mio Signore e vedo in questo la missione principale affidata alla vita consacrata; che ho paura sia di una corporativizzazione della chiesa che di una omologazione dei diversi, a scapito della autentica comunione. Voglio dire che la laicità è componente di ogni vocazione. Quindi non si può relegare la vita religiosa nell’escaton, poiché l’anticipazione del Regno si attua compromettendosi con la storia. La vita religiosa è piuttosto una punta profetica posta nel cuore della comunità credente che si sforza di rispondere alle provocazioni di una società in continua evoluzione. Anche il carisma si storicizza in istituzione.

Nella chiesa, potremmo dire, per rispondere alle provocazioni che le giungono dalla città degli uomini, la vita religiosa ha sempre costituito una diaconia concreta, una forma di ministerialità che via via andava discernendo i bisogni della chiesa stessa e delle culture in cui la chiesa si è incarnata. Ora urgente è la domanda di senso, la ricerca di spiritualità. Bene: noi siamo debitrici alla cultura di oggi di questa anima.  Per la mia esperienza le opere (scuole, ospedali…) sono in crisi per la conduzione manageriale che esigono e perché la società ha maturato nuove consapevolezze dei propri doveri. Noi vi resteremo come seme, come piccole esperienze di pungolo. È tempo di strutture leggere. D’altra parte la scarsità delle vocazioni di questo tipo è linguaggio inequivocabile.

La ministerialità della vita religiosa si è espressa in molteplici forme (intra ed extra ecclesiali) come servizio alla parola, alla preghiera, alla pastorale, agli ultimi, quello che deve assumere è un colore ecclesiale più marcato, cioè una connotazione comunionale nel pensare-progettare-agire. (Questo lo dico anche per ogni vocazione nella chiesa: è tempo di pensare-verificare insieme la fedeltà alla vocazione di ciascuno come responsabilità di tutti).

Se anni fa lo slogan del Centro Nazionale Vocazioni era: compresenza, complementarietà, corresponsabilità, oggi potremmo rieditarlo sostituendo alla complementarietà la reciprocità. Ciò significa però una conversione di tutte le componenti della comunità credente. Deve nascere un pensiero di comunione, per cui l’attesa del Regno deve costituire il debito mio nei confronti dei fratelli laici restando con loro, nella fatica del quotidiano, a inventare nuove vie di spiritualità per una città secolarizzata. E poi c’è da liberare l’amore… la verginità come “ecologia del cuore”? 

La nostra cultura deve decisamente convertirsi all’accoglienza dell’altro (proviamo a pensare al dramma dei localismi e delle pulizie etniche) e solo un cuore vergine è così povero da essere capace di valorizzazione autentica della differenza. In questa logica leggerei anche il problema delle vocazioni “non-italiane”. Anche la società in Italia, fa notare l’ultima ricerca Istat appena pubblicata, presenta un saldo negativo di 44mila unità, compensato dall’immigrazione. In un’Italia sempre più multietnica potrebbe essere in questo momento un compito della vita religiosa quello di farsi laboratorio di una nuova cultura[4].

Non nascondo il pericolo di neo-proselitismo o la strategia di sopravvivenza che può nascondersi dietro questa realtà. Personalmente ho sperimentato quanto sia difficile vivere in comunità che accolgono diverse nazionalità. Eppure è una delle sfide e questa profezia della società multiculturale è avvincente.

 

 

 

SCEGLIERE

Chiediamoci ora, a partire dalle attese di significato che trapelano dalle parole delle persone intervistate, dalle riflessioni di Sofia e dalla lettura della situazione della donna consacrata, come il progetto culturale della chiesa italiana possa divenire strumento di “cultura” vitale per noi e per le nuove generazioni credenti. Ce lo chiediamo, quindi, in ottica vocazionale. E la definizione di progetto che troviamo nei documenti si situa appunto in questa prospettiva:

– ricerca, risposta, comunicazione, proposta; questi i tempi e la circolarità. Il campo semantico “vocazionale” non ha bisogno di ulteriori chiarificazioni;

– in uno stile di animazione e stimolo che faccia sorgere luoghi di confronto in cui si creino convergenze che non annullino le identità.

 

Cercare la Verità

Situato in questo contesto il progetto culturale non appare come una ricerca di ulteriori codificazioni concettuali e astratte di una verità da trasmettere, ma come un intreccio di relazioni da costruire. Si tratta di riappropriarsi della certezza espressa da Gesù “Io sono la verità” e così instaurare con lui una relazione sempre più amante e libera. La via per costruire un progetto culturale appare quella di mettersi “nella Via” per giungere a Colui che è la Verità privilegiando la dimensione di compagnia. Qui, mi pare si collochi l’apporto più tipico della vita consacrata femminile.

Accogliendo in dimensione personalista la dialettica maschile-femminile[5] (presente anche con rigidezze nella comunità cristiana) è molto utile privilegiare la categoria della “ricerca” (che sarebbe più femminile di quella del possesso dogmatico…) come fa per altro il progetto culturale.  “La categoria della ricerca non salvaguarda forse, la distanza ineliminabile tra chiesa e Cristo-Verità nel momento stesso in cui assicura il coinvolgimento di quella con questo? Le riduzioni dottrinali, giuridiche della verità cristiana, possibili in contesti in cui la verità era vista come possesso, non hanno invece capovolto l’eccedenza della verità rispetto alla chiesa nel suo contrario? Una certa sottovalutazione della dimensione pneumatologica della chiesa non ha forse favorito in Occidente la dimenticanza della dimensione escatologica della verità? Cioè del non ancora della verità rispetto al già?”[6]. Faccio volentieri mie queste incalzanti domande del priore di Bose, Bianchi, perché possono ulteriormente aprire al “femminile” sia nella ricerca teologica che nel vissuto ecclesiale, poiché la dimensione pneumatica e quella escatologica sono universalmente riconosciute come importantissime.

Ancora Bianchi rimprovera ad una chiesa troppo preoccupata della verità come possesso e non come ricerca, l’interpretazione della verità stessa alla luce della categoria dell’unità demonizzando la differenza. “Differenza” altro tema caro al femminismo e da recuperare nel pensare la fede proprio come luogo in cui si po’ attuare un dialogo fecondo. Giovanni Paolo II ebbe a dire che una fede che non si fa cultura non è interamente pensata né fedelmente vissuta. Un altro passaggio può essere proprio quello del coinvolgimento pratico che la verità esige, poiché la Verità che è Cristo si fa vera nell’accogliere e compiere la volontà del Padre. Si tratta di recuperare nella dimensione dell’amore l’habitat della verità. Così la ricerca conduce alla croce in cui la Verità si fa manifesta come silenzio che si affida, come mistero già iniziato e non ancora compiuto.

 

Veritas cruci affixa

E siamo ancora solo alla cornice entro la quale vorrei porre i primi lineamenti di un quadro che inizi a far intravedere forme non troppo confuse. E una prima constatazione si impone: sempre, per vie diverse, il nostro argomentare ci ha condotto a fissare la rivelazione crocifissa dell’Amore. La chiave di lettura del mio riflettere sulla vocazione della donna trova lì il suo habitat ecclesiale, cioè ai piedi del Crocifisso-Risorto. La missione della chiesa (e in essa la sottolineatura femminile), infatti, è kenotica come si esprimeva il numero 8 della Lumen gentium: “La chiesa prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio annunziando la passione e la morte del suo Signore fino a che Egli venga. Dalla virtù del Signore risuscitato trova forza per vincere con pazienza e amore le sue interne ed esterne afflizioni e difficoltà, e per svelare al mondo, con fedeltà anche se non perfettamente, il mistero di Lui fino a che alla fine dei tempi sarà manifestato nella pienezza della sua luce”. 

Troviamo sul Golgota la sintesi che San Paolo invoca “Fare la verità nella carità” (Ef 4,15).  “È nella croce che si incontrano misericordia e verità. E la composizione delle due istanze situa la chiesa in posizione cruciale, di con-crocifissa”[7]. Per questi motivi, ed anche per dar spazio alla tradizione come radice di novità, vorrei soffermarmi sull’icona della passione come è rappresentata nella Cattedrale di Parma nella celebre deposizione dell’Antelami[8].

Fissiamo lo sguardo su Colui che sta al centro del bassorilievo e che taglia in mezzo la scena come divide la storia del mondo e di ciascuno. È morto il Signore, lo stanno staccando dalla croce, eppure tutto già parla di risurrezione. La croce, infatti è albero di vita: gemme stanno uscendo dal suo tronco e i piedi di Cristo poggiano su foglie che escono dalla parte inferiore del legno. La mano destra di Cristo è sorretta da sua Madre e da un angelo. Maria “accarezza” la mano del Figlio in gesto materno, ma anche sponsale, poiché sotto la croce essa è la Chiesa-Sposa. Insieme a lei Giovanni, il figlio invitato a prenderla nella propria casa, e le donne in orante e sofferto stupore. 

Nicodemo e Giuseppe di Arimatea staccano Gesù dalla croce. Il centurione romano indica Gesù con la mano destra e la scritta riporta le sue parole: “Vere hic Filius Dei erat”. Lo segue una folla che assiste silenziosa e pensosa. A questa scena si oppone quella dei soldati che si giocano la tunica. Grande è il movimento: un soldato vuole tagliarla con un coltello, un altro lo ferma, un terzo getta i dadi… e davanti a loro, scolpita con rara maestria, la tunica, quella tessuta tutta d’un pezzo, quella che non può essere divisa…

Ancora due figure femminili, più piccole, si notano a destra e a sinistra di Gesù: l’una è la chiesa. Vestita con abiti liturgici essa raccoglie con un calice il sangue di Lui che sgorga dal costato aperto, regge anche il vessillo, che sventola: Ecclesia exaltatur. A sinistra di Gesù un’altra donna, la sinagoga, il popolo ebraico, anch’essa in abiti liturgici. Un angelo le abbassa il capo (synagoga deponitur) è il disegno di Dio che si compie. Essa tiene un vessillo con l’asta spezzata. A sinistra e a destra sono scolpiti il sole e la luna: cornice cosmica poiché il cosmo stesso assiste alla crocifissione del proprio Creatore. Ma ancora, ribadiamo quanto detto all’inizio, tutto si inscrive nella dinamica della risurrezione poiché le rose della cornice (il “rosario”) e tutti i motivi vegetali dello sfondo sono quel giardino da cui si è manifestato il frutto della vita: i fiori sono germogliati dall’albero di morte.

Questa è ripresentazione medioevale dell’evento centrale della nostra fede. Ne faccio memoria per riequilibrare alcuni eccessi della teologia e della riflessione al femminile che ho tratteggiato poc’anzi e per ribadire la necessità di ripensare la fede in termini contemplativi e comunionali. Vorrei soffermarmi su questo intrecciarsi di personaggi maschili e femminili che non sono tratteggiati secondo attributi che potrebbero essere classificati come stereotipi del femminile o del maschile. 

Essi sono il dipanarsi della vicenda evangelica che coniuga l’unica vocazione dell’uomo/donna: l’amore. Stare presso la sofferenza e la morte, accoglierla, offrirla, aver pietà… Lo stare e il ricevere il sangue è sacerdotale? Eppure la rappresentazione iconica è al femminile… E il farsi carico del corpo martoriato del Crocifisso è proprio delle donne? Ma in azione sono Nicodemo e Giuseppe…

E ancora questa dolcissima Chiesa-sacerdotale che accoglie il sangue del suo Sposo non è forse icona di quell’alleanza di amore sponsale nella quale risuonano le parole del Signore ad Israele che egli si sceglie come suo possesso? “L’intero popolo messianico, la Chiesa intera viene eletta in ogni persona che il Signore sceglie in mezzo a questo popolo”[9]. E questa chiesa fa alleanza nel sangue del suo Signore, poiché: “Il sangue è il prezzo con cui Cristo comprò la Chiesa e l’adornò” (Giovanni Crisostomo).

Da questo guardare la scena evangelica che è divenuta narrazione della vocazione della chiesa mi pare di poter sostenere che si deve procedere oltre rigidi schematismi accogliendo varie istanze che stanno emergendo anche nella nostra cultura e che chiedono di cercare sempre di nuovo, facendo interagire ogni elemento. Ci viene affidato da questa contemplazione il compito di vivere come soggetti evangelicamente pensosi, aperti alla scoperta del mistero umano-divino nascosto nel cuore della nostra fede e nei solchi di ogni umano dolore.

È contemplazione ecclesiale quella fatta, contemplazione in cui la vocazione di ciascuno si lascia interpellare dalla propria povertà che diviene domanda (e infatti occorre offrire prospettive culturali capaci di intercettare le domande, dice il progetto culturale orientato in senso cristiano al n. 1). Non è percorso doloristico, poiché è dolore di parto: la donna non si ricorda di quanto ha sofferto per la gioia di vedere al mondo un uomo! Se possiamo riassumere con un atteggiamento, interiore ed esteriore, il percorso fatto potremmo dire: Sine aspectu et decore crucique affixa, adoranda est veritas (Senza splendore né bellezza e inchiodata alla croce, deve essere adorata la verità. Guigo I il Certosino 1083-1136).

 

 

 

Note

[1] Ritengo utile aprire, seppure in nota, una digressione sullo stato attuale del femminismo per contestualizzare anche le riflessioni proposte da questo gruppo di amiche. Tre grandi rivoluzioni vengono poste all’origine del femminismo moderno: quella francese, quella industriale e quella del sentimento. Tre sono le tipologie di femminismo che vengono tratteggiate: laico, cattolico, religioso.

* il femminismo laico può essere articolato in tre momenti:

1° caratterizzato dalla rivendicazione dell’uguaglianza contro la differenza-inferiorità della donna;

2° che afferma la diversità come risorsa;

3° inizia la ricerca sulla reciprocità con la valorizzazione della dimensione creativa del conflitto nel rapporto tra i sessi.

* Il femminismo cattolico parte da una denuncia dell’inferiorità della donna per affermare la sua diversità dall’uomo, evitando la omologazione tra i sessi, ma giungendo anche ad evidenziare la parità scaturita dalla fede e, quindi, la reciprocità nel pensare e vivere la fede.

* Il femminismo maturato nella vita consacrata femminile è un processo iniziato da alcuni decenni ed è divenuto coscienza collettiva soprattutto con la pubblicazione della Mulieris dignitatem. Sarebbe tuttavia interessante notare come la presenza della vita religiosa nella chiesa ha costituito una singolare esperienza di soggettività femminile (in certe epoche storiche coincideva con l’emancipazione della donna tout-court) particolarmente interessante se vista nella esperienza delle fondatrici delle congregazioni religiose moderne (pur con le involuzioni di “conventualizzazione” e di rigidità che dalla seconda metà dell’800 al Vaticano II si è instaurata).  “Attualmente – sostiene Sr. Marcella Farina nel Convegno succitato – i tre percorsi convergono in un arricchente confronto in quanto condividono molte istanze, obiettivi, finalità ed hanno peculiari caratteristiche: trasversalità (oltre le appartenenze socio-culturali e ideologiche), ecumenicità (oltre le appartenenze religiose), universalità (l’attenzione ai problemi mondiali). Il femminismo ha subito così un salto di qualità: da questione sociale è divenuto questione culturale, un cambiamento che ha sfidato le comunità cristiane e che, d’altra parte, è stato provocato da esse”.

[2] CETTINA MILITELLO, Giovanni Paolo II e le donne, in Consacrazione e servizio 12, 1998.

[3] Area formazione, comprendente anche il Centro studi; Area pastorale d’ambiente, famiglia, scuola e cultura, tempo libero, sport e turismo, problemi sociali e del lavoro, servizi sociali, migrantes, sanità; Area pastorale ordinaria, evangelizzazione, catechesi, ecumenismo, animazione vocazionale, animazione missionaria, animazione e formazione liturgica.

[4] E si potrebbe qui aprire una parentesi confrontando quando si dice nel sussidio del Servizio nazionale della CEI per il progetto culturale “Tre proposte per la ricerca”, circa il rapporto tra identità nazionale, locali e identità cristiana.

[5] Vorrei citare uno studio di padre Vanzan che cerca di riequilibrare gli estremismi di un femminismo che si oppone guerrescamente al maschilismo superandone alcune schematizzazioni in chiave personalista: “Per esempio il maschile sembrerebbe prevalere nell’istituzione, nel diritto, nella fabbrilità, nel pubblico, nell’ascetica, ecc. mentre il femminile sarebbe prevalente nella carismaticità, nella pietas, nell’ecologia, nel privato, nella mistica… qui sta il nocciolo della questione: nell’uguaglianza-differenza su cui è fondata la corretta reciprocità del principio maschile e del principio femminile che, rispettivamente, prevalgono nell’uomo e nella donna, ma sono tuttavia asimmetricamente presenti in entrambe gli esseri umani”. P. VANZAN, La donna religiosa oggi: quale ruolo nella transizione al post-moderno, in AA.VV. La donna religiosa in una chiesa comunione, Rogate 1990.

[6] E. BIANCHI, Quaerere veritatem, Qiqajon 1998. 

[7] E. BIANCHI, o.c

[8] La lastra marmorea (firmata da Benedetto Antelami e recante la data 1178 mense secundo) che attualmente è situata nel transetto della cattedrale di Parma, insieme ad altre due lastre, di cui una è scomparsa, costituiva l’ambone: lo si arguisce dal fatto che quattro rose, nella parte centrale in cui probabilmente era situato il leggio, sono state rifatte.

[9] Redemptionis donum n. 8.