N.05
Settembre/Ottobre 1999

I valori vocazionali in gioco nella celebrazione giubilare

Il passaggio da un secolo all’altro ha sempre comportato per l’immaginario dell’uomo un insieme di paure e speranze. Certamente il 2000 non sarà un anno speciale in sé, ma un anno fortemente simbolico, al quale sia la Sacra Scrittura che l’esperienza pastorale della Chiesa offrono contenuti e itinerari per far crescere una migliore qualità della vita cristiana. In particolare aiutano a guardare, dentro il breve scorrere della vita terrena dell’uomo, all’opera di salvezza del Padre celeste nella quale ogni uomo ritrova il vero senso e valore della sua vita. 

L’esperienza del tempo nella umanità moderna è in una fase di profonda evoluzione. L’uomo antico conosceva ritmi lenti e costanti. Oggi viviamo nell’epoca elettronica, caratterizzata da una rapidità, che dal tachimetro tende a trasferirsi nei nervi e nell’anima. I ritmi non sono più quelli della natura – giorno, notte, stagioni -ma del lavoro industriale. L’unità base tende a essere non più il ciclo della giornata, ma quello della settimana. Un nuovo ritmo tende a instaurarsi: l’alternanza del lavoro e del tempo libero. La settimana è costituita da cinque giorni di lavoro e due di riposo. Il tempo del riposo non è più la domenica, ma la fine della settimana lavorativa: il “Week-end”. Al ritmo ebdomadario se ne aggiungono altri: mesi di lavoro, e mesi, o settimane, di congedo: tempi di movimento pendolare tra il luogo di lavoro e il cosiddetto dormitorio. Su tutto questo influiscono i mezzi di comunicazione sociale. Il giornale sostituisce a volte le preghiere del mattino; la tv, quella della sera. In questi nuovi ritmi di vita la fede e la presenza di Dio sembra assente.

In questa nuova situazione gli operatori pastorali hanno nel Giubileo un’occasione per aiutare i giovani a trovare ritmi di preghiera capaci di rimodulare spiritualmente la vita quotidiana, aprendola a quei valori vocazionali che le danno significato e orizzonti più ampi, dentro lo “spazio e il tempo di Dio” al quale il Giubileo rimanda. Si tratta di riscattare e ricomporre il tempo dell’uomo con il tempo di Dio. Il Giubileo, infatti, ci invita a compiere i “gesti-segno” di questa ricomposizione: il pellegrinaggio e l’entrata attraverso la porta santa, cioè la riconciliazione e le opere di carità.

 

Il pellegrinaggio

Il pellegrinaggio ha in sé tutte le caratteristiche per educare a camminare verso una mèta e a dare un senso vocazionale alla propria vita. Esso, infatti, esprime molto bene quel desiderio, che si fa simbolico, di dare una meta certa al viaggio, una mèta che faccia superare la fatica e le asperità del cammino.

Oggi l’uomo è molto spesso in movimento, in viaggio: si va dal girovagare senza meta all’itinerario commerciale, dal nomadismo al pellegrinaggio, dal viaggio turistico ai percorsi virtuali telematici. Ma se vogliamo comprendere il senso cristiano del pellegrinaggio dobbiamo andare a quel “vagabondare” iniziato quando “il Signore Dio scacciò l’uomo dal giardino dell’Eden perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto” (Gn 3,23)… e quando Caino fotografa la sua situazione dicendo: “Sarò ramingo e fuggiasco sulla terra” (cfr. Gn 4,14). A quest’uomo che ha perso la via della vita, Dio offre un cammino. Tutta la vita di Israele è un continuo pellegrinare. Sono pellegrini i Patriarchi (Abramo, Isacco e Giacobbe), è pellegrino il popolo nel cammino dell’Esodo, dell’Esilio e del Ritorno… Anche Davide si vede ancora come un pellegrino davanti a Dio: “Noi siamo forestieri davanti a te e di passaggio come tutti i nostri Padri” (1Cr 29,15). Gesù è il punto di arrivo di questo cammino e insieme il punto di partenza per ritornare, dopo aver percorso i suoi passi, là dove Lui è tornato: la casa del Padre.

Il pellegrinaggio giubilare pertanto è un’occasione per ripensare al principio dinamico che orienta il proprio andare verso quella mèta vocazionale che ha come sorgente il Padre celeste, come mèta la sua casa e come percorso la realizzazione di un progetto di amore fatto di ministeri e servizi per l’edificazione del suo Regno. Ad un uomo dagli orizzonti resi piccoli dall’edonismo e dalla ricerca sfrenata del benessere temporale, è necessario annunciare con forza quegli orizzonti eterni di felicità piena e inattaccabile dal male, verso i quali si cammina solo quando si dà un senso vero alla propria esistenza rendendola come quella di Cristo: un “dono” per la vita del mondo.

Per diventare pellegrini il primo passo è partire e per restare pellegrini è necessario saper ripartire ogni giorno. La prima cosa necessaria per avviare un cammino vocazionale è uscire da una situazione di stallo tra il benessere materiale e il desiderio di una vita piena riproponendo con forza la necessità della vittoria sulla “concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita” (1 Gv 2,16). “Tutti i figli della Chiesa, chiamati dal Padre ad ‘ascoltare’ Cristo, non possono non avvertire ‘una profonda esigenza di conversione e di santità’… un desiderio di ricercarne filialmente la volontà [del Padre] attraverso un processo di conversione continua, in cui l’obbedienza è fonte di vera libertà, la castità esprime la tensione di un cuore insoddisfatto di ogni amore finito, la povertà alimenta quella fame e sete di giustizia che Dio ha promesso di saziare (cfr. Mt 5,6)” (VC 35).

Il pellegrinaggio contiene in sé i segni di questo cammino di conversione e di risposta vocazionale, poiché invita a lasciare i piccoli orizzonti di un mondo ricco di beni materiali ma povero di ideali, per andare, come i tanti pellegrini della storia del popolo di Dio, verso una vita e un popolo nuovo, da costruire, amare e servire, come segno di quella nostalgia della casa del Padre che lo Spirito mette nel cuore di coloro che egli chiama.

Questo cammino, che conduce alla vita piena, richiede però l’accettazione del “combattimento spirituale”. È un dato esigente al quale oggi non sempre si dedica l’attenzione necessaria. La tradizione ha spesso visto raffigurato il combattimento spirituale nella lotta di Giacobbe alle prese col mistero di Dio, che egli affronta per accedere alla sua benedizione e alla sua visione (cfr. Gn 32,23-31). In questa vicenda dei primordi della storia biblica il pellegrinaggio giubilare può riproporre la necessità dell’impegno ascetico necessario per dilatare il cuore e aprirlo all’accoglienza del progetto del Padre celeste e a farsi carico della salvezza dei fratelli.

 

La porta santa

Ogni pellegrinaggio oltre che una mèta contiene anche vari passaggi. L’anno giubilare ci offre il simbolo della Porta Santa. Un’immagine, che facendo parte dell’esperienza umana, è particolarmente ricca di richiami e significati: essa rappresenta un “luogo di transito”, un passaggio che separa due spazi diversi, un momento di iniziazione. Quando è aperta, la porta è strumento di comunicazione; quando è chiusa, è barriera di difesa. Inoltre la Porta Santa, che viene aperta per il tempo di grazia del Giubileo e poi viene chiusa, dà una misura definita del tempo: il tempo della storia e della dimensione terrena dell’uomo, che non è il tempo di Dio, indefinito e smisurato, che non è lo stesso ieri o domani. Il tempo che appare è allora quello dell’Amore del Padre che chiama non ad una esistenza qualsiasi, ma ad essere incarnazione di questo suo amore a misura del dono ricevuto con tutta l’urgenza di una risposta fedele, perché il tempo si è fatto breve.

Il segno della porta, poi, rende più consapevoli dell’esperienza dello spazio e del tempo. Fino a che siamo nella storia, le cose, il tempo e i luoghi sono diversi; non si può stare in più luoghi contemporaneamente. Possiamo stare solo da uno dei due lati delle porte (reali o figurate) della nostra vita; possiamo stare o di qua o di là, e dobbiamo decidere se vogliamo passare attraverso la porta, oppure rimanere fermi. Ogni passaggio significa lasciare alle spalle qualcosa e poter accogliere il nuovo che ci attende al di là del passaggio. La Porta Santa giubilare indica, inoltre, che questo passaggio conduce verso la gioia (jubilum in latino). Certamente le esperienze di separazione affaticano e provocano dolore, nella separazione sembra che si perda qualcosa. Il lasciare è però la condizione necessaria per aprirsi al nuovo della vita, al meglio. Le celebrazioni giubilari devono aprire a questa necessità e disponibilità ad aprirsi verso il nuovo di Dio che avanza per creare quella qualità della vita che non conosce l’usura del tempo, né le sopraffazioni dei nemici.

È in questo che la pastorale vocazionale trova uno spazio per annunciare nuova speranza nella progettazione della vita fatta dentro i tempi e gli spazi dell’amore di Dio. I nostri giovani sono spesso così aperti e disponibili da non avere porte, anzi spesso rifiutano le porte come limitazioni. Sono come quel monaco di cui leggiamo nella “Vita dei Padri”: Un fratello disse un giorno ad un anziano monaco: ‘Io non sento lotte nel mio cuore’. L’anziano abbà gli rispose: ‘Tu sei una casa con tante porte aperte, da tutti i lati. Il tuo corpo, la tua mente e il tuo cuore sono investiti da fremiti, pensieri e sentimenti. Chiunque entra da te o ne esce a proprio piacimento. E tu non ti rendi conto di ciò che accade. Se imparassi a chiudere qualche porta e impedissi ai cattivi desideri e ai pensieri perversi di entrare, allora li vedresti all’esterno a combattere contro di te’” (PL XI, 43).

C’è un falso modo di intendere la libertà che fa tener aperte le porte a tutte le esperienze e che porta molto spesso l’uomo d’oggi ad essere profondamente segnato nella mente e nel cuore dal peccato e dal male. Ed è questa anche una delle cause che rendono difficile il cammino vocazionale dei giovani. Il Giubileo con il “dono dell’indulgenza” tende a portare la libertà dei figli di Dio dentro queste catene, ridonando, per la potenza salvifica di Cristo, nuova salute e forza spirituale.

 

Il “dono” dell’indulgenza

L’indulgenza riguarda in particolare la pena conseguente al peccato: quella storia che il male ha creato e che è storia “esterna” piena di conseguenze sugli altri, ma anche storia “interna” di abitudine al male che indebolisce la libertà. È questa storia che con l’indulgenza chiediamo a Dio di riparare, sorreggendo il nostro impegno di conversione e, nello stesso tempo, cambiando Lui quelle parti di realtà e di storia che non sono in nostro potere. L’indulgenza, dono del Padre per i meriti di Cristo suo Figlio e della Chiesa, può essere un potente mezzo per educare alla misericordia ricevuta e donata, per favorire un’esperienza spirituale forte di comunione ecclesiale. Infatti scrive il Santo Padre: “La Rivelazione insegna che nel suo cammino di conversione il cristiano non si trova solo. In Cristo e per mezzo di Cristo la sua vita viene congiunta con misterioso legame alla vita di tutti gli altri cristiani nella soprannaturale unità del Corpo mistico. Si instaura così fra i fedeli un meraviglioso scambio di beni spirituali, in forza del quale la santità dell’uno giova agli altri ben al di là del danno che il peccato dell’uno ha potuto causare agli altri. Esistono persone che lasciano dietro di sé come un sovrappiù di amore, di sofferenza sopportata, di purezza e di verità, che coinvolge e sostiene gli altri” (I.M. 10).

Il fascino della testimonianza di tali persone, che per santità di vita o per ministero pastorale diventano fermento di vita nuova per il mondo, può essere un valido strumento di annuncio vocazionale. Nello stesso tempo c’è bisogno di ridare vigore ai segni vocazionali con una testimonianza più vera e conosciuta delle vocazioni al ministero ordinato e alla vita consacrata secondo la specificità propria di ciascuno. Certamente è da tener presente che la visibilità che si richiede è quella dell’amore, della carità pastorale, non dell’etichetta. Un amore è credibile solo se è così profondo e libero da diventare segno evidente e pregante, se è capace di condurre al dono totale della vita.

 

I luoghi della “porta” e delle indulgenze

Veniamo ora ai luoghi-porta che aprono all’indulgenza e che sono mirabilmente indicati nelle norme attuative della bolla di indizione del Giubileo del 2000.

 

1. L’incontro sacramentale con la Chiesa

Il primo luogo porta è il pellegrinaggio-visita a Roma o alla Terra Santa o ai luoghi simbolo della fede di una chiesa locale, unitamente al sacramento della Riconciliazione e alla partecipazione piena alla celebrazione dell’Eucaristia. Questo può essere l’occasione per una riflessione sulla fede che ciascuno ha ricevuto in dono dalle precedenti generazioni, un dono che è da riconsegnare con fedeltà alle generazioni future. La fede, come la vita, è fatta per essere partecipata e donata. In questo cammino un ruolo fondamentale è svolto dalle forme radicali di sequela evangelica e in modo particolare dai Vescovi e ministri ordinati, dalle varie forme di vita consacrata e apostolica che man mano lo Spirito Santo ha suscitato nella Chiesa. Il pellegrinaggio allora non può essere solo un gesto da compiere, ma diventa una rivisitazione delle vocazioni dei ministeri e delle varie forme di vita evangelica che hanno man mano incarnato la fede lungo la storia.

 

2. L’incontro con Cristo presente nei poveri e nei sofferenti

Entriamo qui in un campo in cui la vita cristiana ha espresso lungo i secoli i suoi più precipui servizi all’umanità. Oggi siamo chiamati a confrontarci con nuove situazioni politiche e sociali, con situazioni di vita e di povertà che purtroppo vanno sempre più dilatandosi e approfondendosi non solo nel terzo o quarto mondo, ma anche nelle cosiddette “società del benessere”. La sfida della carità interpella specialmente sul piano educativo e culturale. Certamente gli interventi a favore dei poveri e degli ultimi anche fino al sacrificio della vita hanno un valore incalcolabile davanti a Dio, ma è oggi forse richiesto un sovrappiù: la capacità di mettere in moto nella Chiesa sinergie nuove, che andando al di là del semplice gesto di carità, diventi forza educante sia tra i cristiani che nella società civile. Si tratta non solo di servire i poveri, ma di annunciare e far risplendere la “carità di Cristo” che motiva e dà forza alla gratuità di questo servizio. I gesti di carità che il Santo Padre invita a compiere per la celebrazione del Giubileo possono essere non solo una scuola di carità, ma anche una porta per avviare esperienze vocazionali, che mostrino la straordinaria bellezza e valore del dono totale di sé a servizio dei fratelli.

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