N.06
Novembre/Dicembre 1999

Eucaristia e dono totale di sé: come una comunità cristiana può educare i giovani al dono di sé?

Una domenica mattina… La città era ancora immersa nel torpore del sonno e un silenzio irreale l’avvolgeva. Le strade, intasate dal traffico nei giorni feriali, erano deserte. Solo alcuni gruppi di giovani sbucavano dalle vie laterali animando un po’ la città. Chi erano quei giovani? Dove andavano? L’abbigliamento non lasciava dubbi: erano tifosi che si dirigevano verso la stazione per seguire “in pellegrinaggio” la squadra del cuore. Discutevano animatamente tra di loro, preparandosi così alla grande “liturgia” che si sarebbe svolta nel primo pomeriggio nello stadio della squadra avversaria. Si erano preparati per quell’appuntamento: era una sfida decisiva per le sorti della loro squadra. La domenica precedente, subito dopo aver “sofferto con la squadra” allo stadio, si erano precipitati a casa e, incollati al televisore, avevano visto e rivisto continuamente, alla moviola prima e al replay dopo, le azioni più importanti e quelle più discusse. Avevano instaurato un animato dialogo “virtuale” con tutti i giornalisti esperti che si erano avvicendati nelle diverse trasmissioni. Gli articoli dei giornali sportivi il lunedì e le pagine dei quotidiani dedicate allo sport negli altri giorni avevano riacceso la discussione nel club dei tifosi per tutta la settimana. La “partitella”, organizzata tra gli amici il giovedì sera, si era trasformata in un campo di prova per verificare chi, oltre ad esprimere giudizi “insindacabili” sui giocatori, sapeva realmente giocare a calcio. Tutto questo esplodeva puntualmente ogni domenica quando ci si ritrovava insieme nello stadio: i cori, le danze, gli insulti agli arbitri, gli slogan contro gli avversari… Tutto ciò che durante la settimana avevano sentito, visto o detto, tutto veniva urlato durante la partita. Pensavo: questi sì che sono riusciti a congiungere perfettamente la “fede” nella squadra con la loro vita.

 

L’Eucaristia e la vita

Perché le nostre celebrazioni eucaristiche, anche quando sono ben preparate, o non riescono a coinvolgere profondamente i giovani o, nel migliore dei casi, li toccano solo emotivamente e per il tempo ristretto della sola celebrazione? Non ci si augura certamente una partecipazione da “stadio”, ma neppure quella freddezza che a volte sembra serpeggiare tra i banchi delle nostre chiese! Forse la risposta la possiamo cercare nel fatto che le nostre celebrazioni sembrano essere più delle parentesi che interrompono per un’ora il normale flusso del tempo, che “fonte e culmine” (SC 4, 10) di tutta la vita. Quanto di quello che i nostri giovani hanno vissuto durante la settimana viene “portato” in chiesa? In che misura il mistero celebrato illumina la settimana che si apre davanti a loro? Finché le nostre celebrazioni non “parleranno” della vita dei nostri giovani e la loro vita non diventerà sempre più eucaristica, difficilmente l’Eucaristia li potrà educare al dono totale di sé[1].

 

Che fare?

Spiegare i riti, le preghiere, il significato dei segni liturgici è necessario, ma non è sufficiente. È richiesto soprattutto che i valori eucaristici siano veicolati dalla vita della comunità ed evidenziati nella liturgia. Solo una comunità che si lascia convertire e trasformare continuamente dall’Eucaristia sarà capace di condurre i giovani a farsi interpellare nel vissuto della loro vita e di accompagnarli al dono totale di sé. Quali sono, allora, quelle attenzioni che si richiedono da una comunità, perché sia capace di tutto ciò? Vorrei soffermarmi solo su tre.

 

Favorire l’incontro con il “mistero”

Se si vuole educare il giovane al dono di sé è indispensabile che egli sia accompagnato dalla comunità a saper cogliere la presenza del “mistero” di Dio non solo nei momenti liturgici, ma anche nel suo quotidiano. Solo se il giovane sarà aiutato a leggere la sua vita “abitata” dall’amore di Dio, sarà disponibile a viverla “ responsabilmente”, capace cioè di rispondere a quell’Amore con la sua vita. Altrimenti resterà chiuso nello stretto spazio del suo orizzonte umano, incapace di alzare lo sguardo e il cuore in alto: sarà una delle tante “vittime” della cultura “antivocazionale” che respiriamo oggi nella società. L’apertura al “mistero” dovrebbe poter trovare nella celebrazione eucaristica il suo punto culminante. Ma è così?

Mi ha fatto molto riflettere ciò che si legge nell’Intrumentum laboris per il Sinodo europeo al n. 69: “Sia all’Est che all’Ovest, ci sono esperienze nelle quali la preoccupazione di essere attraenti mette in ombra la dimensione del mistero, dell’adorazione e della lode, ed esalta la ritualità, la condivisione e certo protagonismo del celebrante e/o dei membri attivi dell’assemblea: ne segue, tra l’altro, un’immagine indubbiamente viva e vivace di Chiesa, ma più attenta all’esteriorità e all’emotività che alla profondità dell’incontro con il santo mistero di Dio”. Dinanzi a queste parole non si può non riflettere. Quante volte l’eccessiva preoccupazione di far sì che la celebrazione eucaristica  possa realmente “parlare alla gente” ci ha portato inevitabilmente a “far tacere il mistero”. Quante celebrazioni rischiano di diventare il “palcoscenico” delle nostre vanità, anziché il luogo dell’incontro con Dio. Una comunità troppo ripiegata su se stessa ed eccessivamente preoccupata di “colpire”, difficilmente diventerà per i giovani un pressante invito a lasciarsi interpellare da Dio e ad accogliere il Signore, come il Signore della propria vita. 

 

Educare all’ascolto

Il dono di sé non è autentico se è solo la realizzazione dei propri desideri e delle proprie aspirazioni. Alcuni, infatti, sono anche disponibili a donarsi, ma solo quando lo decidono loro, nel modo in cui loro desiderano e con chi è a loro gradito. Tutto questo rischia di far scivolare fuori dall’orizzonte vocazionale. Il dono di sé per essere autentico non può che essere “una risposta” ad una precisa chiamata che ci viene dall’Alto. Per questo è importante educare all’ascolto. E la liturgia della Parola durante la celebrazione eucaristica sta lì a ricordare a tutti che non si possono né presentare doni, né fare comunione con il Signore, se prima di tutto non rispondiamo alla Parola.

Quanto sono importanti, allora, tutte quelle occasioni che la comunità offre ai giovani perché sappiano ascoltare: catechesi, lectio divina, ritiri, esercizi spirituali… Tutto questo senza dimenticare che è necessario saper ascoltare il Signore anche quando decide di parlare attraverso la voce dei fratelli. In questo senso vanno valorizzati gli incontri di revisione di vita, quelli in cui la comunità si pone in ascolto dei bisogni e delle necessità dei fratelli per lasciarsi da loro interpellare, i dialoghi personali con l’educatore o con il padre spirituale in cui il giovane è aiutato a saper riconoscere nelle vicende della propria vita, anche in quelle apparentemente più banali, un appello del Signore[2]

Se la comunità diventerà un’ottima “cassa di risonanza”, perché il suono della Voce di Dio e del coro dei fratelli possa risuonare in tutta chiarezza ed essere udita da tutti, allora sarà capace di far sgorgare nell’animo dei giovani la domanda strategica[3] “che devo fare, Signore?”. E a partire da questo interrogativo il desiderio del dono di sé  incomincerà a trovare le strade per concretizzarsi. Altrimenti resterà sempre e solo un pio desiderio.

 

Condivisione dei doni

Penso ad alcune “processioni offertoriali” dove si porta all’altare di tutto e di più, affrettandosi subito dopo a riprendersi il tutto. Per questo a volte viene da chiedersi: ma abbiamo proprio dato tutto? O ci siamo limitati a qualche piccolo gesto di cortesia o di buona educazione: “vuole favorire?”. Mi fa sempre pensare ciò che afferma S. Ambrogio: “Dio non guarda ciò che tu doni, ma ciò che conservi per te”. È vero, a volte siamo capaci di dare tanto, ma alcune cose ce le teniamo ben strette e non le vogliamo cedere. E, forse, sono proprio quelle le cose che il Signore desidera da noi! La presentazione dei doni dovrebbe essere vissuta da una comunità come offerta delle “primizie” e non certamente “del superfluo”. E le “primizie” non sono il segno tangibile della benedizione del Signore? 

Una comunità educherà i giovani al dono di sé se saprà accogliere, stimare e condividere i doni unici e irripetibili che il Signore elargisce ad ogni persona e che danno volto alla loro vocazione specifica. Di qui deriva l’impegno perché nessuno si senta “trascurato” nel suo dono o, peggio, “inutile”, e anche perché nessuno presuma di poter spadroneggiare all’interno della comunità accentrando tutto in sé ed escludendo gli altri, a causa dell’invidia o della gelosia. Una tale comunità non “sfrutterà” la sete di protagonismo presente nei giovani per affidare loro delle attività, ma li accompagnerà perché sappiano riconoscere il dono particolare che Dio ha fatto loro e sentano la gioia di poterlo condividere con i fratelli[4]. Questa comunità sarà capace non tanto di far fare qualcosa ai giovani, quanto piuttosto di sollecitarli a donare se stessi in quello che fanno, collaborando e condividendo con i fratelli la gioia di essere al servizio del Regno.

 

Ed ora… al lavoro!

Sono queste solo alcune riflessioni che mi auguro possano aiutare a celebrare un’Eucaristia dove tutta la vita della comunità viene interpellata e trasfigurata e, pertanto, resa capace di accompagnare i giovani nel “dono di sé”. Perché “nel mistero celebrato il credente non può non riconoscere la propria personale vocazione, non può non udire la voce del Padre che nel Figlio, per la potenza dello Spirito, lo chiama a donarsi a sua volta per la salvezza del mondo”[5]

 

 

 

 

Note

[1] “Facendo memoria del Suo Signore, in attesa che egli torni, la chiesa entra in questa logica del dono totale di sé… essa cresce e si edifica nella carità” (ETC, 17).

[2] NVNE, 27/a.

[3] Ibidem, 26.

[4] “Se ogni vocazione nella Chiesa, è un dono da vivere per gli altri, come servizio di carità nella libertà, allora è anche un dono da vivere con gli altri. Dunque lo si scopre solo vivendo in fraternità. La fraternità ecclesiale non è solo virtù comportamentale, ma itinerario vocazionale” (NVNE, 27/b).

[5] NVNE, 27/a.