Come far emergere e vivere la chiamata e le chiamate nella celebrazione eucaristica
Tracciare all’interno del linguaggio liturgico un percorso vocazionale. Sarebbe il “presuntuoso” scopo di queste provocazioni. Spesso, infatti, si ricorre a segni che sovraccaricano l’austera ed eloquente semplicità della liturgia romana, poiché se ne è smarrita la piena intelligenza. Più che consigli pratici per celebrare, che è possibile trovare in infiniti sussidi che vanno sempre vagliati con attenzione per non scadere nel folklore, vorrei evidenziare l’atteggiamento interiore che si esprime nei simboli e la profonda assonanza che lega la spiritualità liturgica a quella vocazionale.
Si tratta di vivere in continua mistagogia che consenta a noi di lasciarci condurre per mano nel mistero celebrato e di farci, a nostra volta, mistagoghi dei fratelli più giovani. È un po’ il perenne viaggio di Emmaus che siamo invitati a percorrere, ed è sempre quell’unica domanda che può indurci a correre per annunciare che Lo abbiamo visto allo spezzare il pane: Non ci ardeva forse il cuore nel petto? (Lc 24,32).
Per raggiungere questo scopo prenderemo in considerazione dapprima gli attori della celebrazione secondo la vocazione di ciascuno; poi percorreremo alcuni gesti e atteggiamenti che si ripetono in diverse parti della celebrazione eucaristica e che non necessitano di altri segni o gesti, ma solo di essere interiorizzati[1].
L’assemblea
Le membra sono diverse, il corpo è uno: ce lo dice San Paolo nella sua lettera ai Corinzi (cfr. 1 Cor 12,12-27). Questa diversità di doni e vocazioni deve manifestarsi nell’assemblea liturgica dove ciascuno vive ed esercita la propria vocazione a farsi Sposa che si prepara alle nozze col proprio Signore, adornandosi di tutti i doni di cui Egli stesso l’ha arricchita. I testi liturgici danno molte indicazioni per colui che presiede, non prevedono modalità specifiche per le altre vocazioni, accomunate nelle indicazioni per l’assemblea. Tentiamo qualche esplicitazione.
Colui che presiede
Rivolto al popolo: questa è l’espressione usata da Principi e norme per descrivere l’atteggiamento di chi presiede[2]. Cosa significa? Non solo che celebrando non si danno più le spalle all’assemblea, ma che si interagisce con i fedeli, che il corpo diviene in maniera molto intensa “messaggio”. Come la parola infatti, ha bisogno di un corpo che la pronunci, così è tutto il corpo del presbitero che si fa linguaggio! Un tale atteggiamento dialogico non si improvvisa. Potremmo piuttosto affermare che l’attenzione agli altri, vissuta ogni giorno, trova nella celebrazione la sua dimensione simbolica. I riti splendano per nobile semplicità, si legge nella Costituzione conciliare sulla liturgia[3]. Questa nobiltà e semplicità sono un po’ la modalità con cui la vocazione del presbitero ad “essere per” deve confrontarsi. Come la vita, così la gestualità liturgica del prete deve “splendere”, essere cioè umanamente ricca e calda, per semplicità che non è sciatteria, ma umiltà e nitidezza; per nobiltà che non è distacco, ma sobrietà e misura. Questa capacità relazionale umana si fa segno nella celebrazione e passa necessariamente attraverso una quotidiana attenzione. Essere rivolti verso il popolo, guardando in volto coloro ai quali si dice “il Signore sia con voi” significa esserci, significa pregare con e per loro, conoscere cosa è con loro, preoccupazioni, stanchezze, attese. E questa è mediazione vocazionale.
I Consacrati
Racconta il grande liturgista francese Joseph Gelineau che, mentre scriveva la sua tesi sulle chiese siriane del IV secolo, scoprì con stupore che i primi ad arrivare all’assemblea della domenica erano alcuni monaci. Mentre la gente arrivava essi cominciavano a cantare e a pregare e la gente, a poco a poco, si univa ai loro canti. Sarebbe uno stupendo dono per le nostre parrocchie che così si potessero preparare le assemblee domenicali! Il carisma della verginità non è forse questo tenere desto l’amore verso lo Sposo e far desiderare la sua venuta? Finché egli venga non è solo la tensione dell’assemblea eucaristica, ma la vibrazione di ogni istante della Chiesa-Sposa. I consacrati sono debitori di questa vocazione ad attendere “anticipando gli altri” al momento della riunione, facendo trovare un ambiente accogliente, curando la sobrietà delle decorazioni floreali, facendo gustare la gioia di un incontro atteso per sette giorni e che prefigura il Giorno ottavo.
Gli sposi
Gli sposi sono invitati a portare in assemblea il dono della vocazione coniugale, che fa di loro dei costruttori di una piccola comunità in cui si sperimentano relazioni significative e gratuite. Tante nostre assemblee non sono più composte solo da credenti ben catechizzati. Gli sposi potrebbero offrire il servizio di una “ospitalità orante”. Ad esempio all’inizio dell’assemblea accogliere chi entra, lasciando che ciascuno possa compiere quei passi per cui è pronto, fossero solo al fondo della chiesa, per osservare; oppure invitare ad un momento di incontro e di festa preparato alla fine della celebrazione nei locali della parrocchia. E ancora se “i due saranno uno in un corpo solo” la vocazione dei coniugi potrà tradursi anche in una riaffermazione del valore della corporeità che tutta deve essere coinvolta nell’esperienza cristiana. Tutto, infatti, nella liturgia passa attraverso il corpo: parola, canto, musica, luce, profumo, unzione, pane, vino. Si tratta di ridare naturalezza ai gesti e renderli capaci di lasciar trasparire ciò per cui vengono assunti nella celebrazione. E ancora, coloro che sono abituati ogni giorno a preparare la mensa, a rendere accogliente la casa come non dovrebbero consegnare questo dono alla comunità? Come non aiutarla ad essere Sposa feconda di figli, gioiosa anche e soprattutto se i piccoli esprimono con esuberanza il loro modo di stare con il Signore?
La Celebrazione
Cosa siamo se non esseri impastati di pane e di relazioni? Cosa ci pone di fronte un’Eucaristia se non il simbolo di quello che siamo? E lo siamo perché Colui che ci ha chiamati ci ha introdotti nella sua Pasqua. Il ritmo celebrativo è quindi connaturato alla nostra fede. Non possiamo vivere sine dominicus dicevano i martiri. L’Eucaristia è la cifra della nostra esistenza, l’unica possibilità di scoprire il senso ultimo del nostro esistere. Ripercorrere il ritmo vocazionale della celebrazione sarebbe troppo impegnativo. Contentiamoci di sfamarci con le briciole che cadono dalla mensa, come la cananea. Ci soffermiamo perciò su tempi, ritmi e gesti che formano il tessuto della celebrazione e sono una stupenda pedagogia vocazionale che può mantenerci in continuo contatto con la Fonte che ci ha generati e a cui tendiamo (culmen et fons)[4].
Un tempo, un ritmo
Da quando, nel XV secolo abbiamo inventato gli orologi, il tempo è divenuto un vuoto misuratore: gli avvenimenti che vi accadono sono passati in secondo piano. Non così per il tempo liturgico: tempo dell’incontro e della memoria. Come nel proprio itinerario di fede, così nella celebrazione esiste una pedagogia dei tempi. Anzitutto passare dalla strada alla chiesa; entrare in esplicita sintonia col Signore e dire: “Eccomi, mi hai chiamato. Sono qui per te”.
Poi favorire i passaggi da un momento all’altro della celebrazione: chiedere perdono, ascoltare, adorare, offrirsi, attraverso i ritmi di silenzio (sei secondo Principi e norme) che sono il respiro indispensabile della celebrazione. Affermare che tale lex orandi è lex vivendi significa consentire al cuore, attraverso l’accoglienza del silenzio proprio e di Dio, di adeguarsi alle esigenze della sequela. E tutto ciò diviene un ritmo che rispetta pause e modalità espressive: non si può attendere troppo a rispondere, né si può rispondere prima di avere ascoltato tutto il messaggio. Anche questa lezione insegna la liturgia al nostro divenire discepoli.
Gesti e atteggiamenti
È un’assemblea che celebra, e gli atteggiamenti del corpo, assunti insieme, esprimono e favoriscono l’esperienza della comunione: sapere di essere con-vocati, e di rispondere insieme alla comune chiamata[5]. I gesti rituali aiutano a superare l’individualismo, poiché appartengono ad un comune codice di significati. Sono anche inutili, poiché non hanno in sé uno scopo immediato, e gratuiti. Ad esempio, potremmo chiederci: che bisogno c’è di fare la processione iniziale o per portare i doni all’altare? Ci sarebbe una strada più breve. Eppure quello spazio percorso lentamente è quello che consente l’interiore di avvicinarsi al Signore. Così come aiutare chi sta seduto in atteggiamento di ascolto a prestare attenzione solo a colui che legge, senza voler cercare di leggere a propria volta su foglietti, educa all’attenzione verso Colui che parla.
Meno abituale per noi è la posizione in ginocchio, che pure aiuta a farsi consapevoli del bisogno di penitenza e di adorazione che ci caratterizza nel nostro rapporto con Dio[6]. Anzitutto le tre posizioni rituali: in piedi, seduti, in ginocchio. La tradizione ci dice che in piedi i fedeli stanno perché è l’atteggiamento dei risorti. È anche la posizione assunta dai lettori. Se è vero che “Cristo è presente nella sua Parola”[7], allora aiutare i lettori a prendere coscienza di prestare la propria voce al Signore è fare autentica promozione vocazionale, poiché implica un entrare nei sentimenti di Colui che parla. Inoltre insegnare loro a non staccare lo sguardo dal Libro durante la lettura è invitarli ad avere una relazione ininterrotta con la Parola.
Ci sono poi dei gesti che andrebbero interiorizzati e vissuti nella calma, senza sovrapposizioni:
– Tracciare il segno della croce, con quella lentezza che consente di riandare alla pregnanza pasquale;
– Battersi il petto, luogo vitale, dove sta il cuore; è assunzione di responsabilità: “sì, sono io, proprio io!”
– Il triplice segno di croce, per lasciarsi impregnare dall’Evangelo: penetri nella mente perché lo comprenda, sulle labbra perché lo proclami, nel cuore perché lo ami.
– Inchinarsi, nella sua semplicità il gesto consente al corpo di partecipare alla preghiera, ora di implorazione, ora di adorazione, di accoglienza della benedizione.
– Guardare l’ostia e il calice, ed imparare a tener fisso lo sguardo interiore sul Signore, non a nascondere il capo tra le mani, quasi per paura di stare davanti al mistero.
– Scambiarsi la pace, che è di Cristo. Il gesto dovrebbe essere particolarmente intenso ed esprimere quella fraternità di cui, nella recita del Padre nostro sarebbe meglio indicare la sorgente. Sarebbe più proprio, cioè, non darsi la mano al Padre nostro, ma tenerle alzate verso il Padre, sorgente di ogni fraternità.
Riaffermiamo ancora una volta la profonda pedagogia vocazionale presente nel farsi attenti a questa unità corpo-preghiera che i gesti liturgici fanno sperimentare. Non è forse la frattura fra le intuizioni spirituali e il loro passare dall’intimo fino ad impregnare ogni nostro gesto una delle più grandi fatiche nella nostra quotidiana conversione? E cos’è vivere in vocazione, se non lasciarci quotidianamente convertire dalla Pasqua che celebriamo?
Conclusione
“Abbiamo teso le corde della lira – scrive Gelineau – sono però le dita dello Spirito che la suonano”. Il percorso tracciato all’interno del linguaggio liturgico può essere percorso solo sotto l’azione dello Spirito, poiché solo lo Spirito ci rende capaci di risposta e di fedeltà. Non c’è liturgia senza dialogo, come non c’è vocazione senza ascolto e risposta. Un dialogo, però non verbale, bensì a tutto tondo: il corpo intero è coinvolto nella relazione. Sembra di poter trovare l’icona di questo modo di intendere il rapporto tra liturgia e vocazione nel linguaggio del Cantico. La sposa, cerca, incontra, perde, ricerca, sperimenta intimità e notte. Poi continua ad andare. E “andate” conclude la celebrazione eucaristica perché chi lo ha visto nel Pane continui a cercare lo Sposo che sembrerà a tratti assente, ma si lascerà incontrare in ogni fratello.
Note
[1] Le riflessioni che seguono si ispirano soprattutto a Costruire, idee per celebrare un testo a cura di A. Bianchi, pubblicato nel 1999 dalle edizioni Vita Nuova di Parma, nel quale l’autore riprende e attualizza molti suggerimenti forniti dalla rivista liturgica francese “Célébrer”. Molto interessante il recente volume Le assemblee liturgiche. Che cosa sono, come devono essere, di J. Gelineau, pubblicato nel 2000 dalla Elledici. Sempre attuale ed essenziale il riferimento a Celebrare in spirito e verità a cura dell’Associazione Professori e Cultori della Liturgia, Roma 1992.
[2] Messale Romano, Principi e norme, n. 86.
[3] Sacrosanctum Concilium, n. 34.
[4] Ivi, n. 10.
[5] Principi e norme, n. 20.
[6] Su tale atteggiamento Principi e norme, n. 21, dà alcune indicazioni per quanto riguarda il momento della consacrazione, anche se ammette eccezioni; alcuni liturgisti vedono nel restare eretti un’espressione della propria fede in Colui che, Risorto, si dona a dei risorti. L’importante è che sia un atteggiamento comunitario e che sia interiorizzato dalla comunità celebrante.
[7] Sacrosanctum Concilium, n. 7.