Il discepolo amato: da giovane discepolo a guida spirituale
Nel trattare la figura del DA occorrerebbe premettere qualche “osservazione” di tipo narratologico, in particolare circa la teoria dei personaggi in un racconto letterario. Qui ritengo necessarie poche osservazioni, più che altro allusive e giustificative dell’impostazione e dell’elaborazione del tema che stiamo trattando.
La figura tipologica del Discepolo amato (DA)
Innanzitutto c’è da osservare che un personaggio si costruisce nell’intreccio narrativo, ovvero va contemplato nella sequenza narrativa nel suo complesso, ripensato all’interno del suo sviluppo; va seguito sul filo dell’intreccio, leggendo e rileggendo, parafrasando e collegando i testi dove egli interviene, come pure quelli nei quali egli viene evocato; esso ha un “autore” di cui è “creazione”; ma è pure costruzione del lettore, perché alla lettura il testo è appunto destinato, e la sua interpretazione è possibile solo nell’atto della lettura, attraverso la quale il mondo del testo viene fatto rivivere dal lettore, e diventa propriamente “opera”.
Prendendo a prestito la classificazione proposta da S. Chatman (Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film, Pratiche Editrice, Parma 1981, pp. 111-152), che si ispira alla psicologia di G.W. Allport, invito poi a osservare che un “personaggio” ha dei “tratti” e delle “abitudini”. Un “tratto” è quell’aspetto distinto e durevole per cui un individuo si differenzia da un altro, “abitudine” invece è segnalazione della reiterazione delle stesse azioni in circostanze analoghe, è un atteggiamento osservando il quale il lettore ricava il tratto. Quest’ultimo a sua volta può essere definibile come un ‘grande sistema di abitudini interdipendenti’. La ribellione è un tratto di Israele nel suo cammino nel deserto, rilevabile dalla sua abitudine a ‘mormorare’ continuamente contro Dio e contro Mosè.
Il “discepolo che Gesù amava” (Gv 13,23) è un epiteto che svela il tratto preponderante di questo misterioso personaggio, sua qualifica costante, in tutta la seconda parte del quarto Vangelo; dice di una relazione stabile, caso ben diverso da quello del cosiddetto giovane ricco, quando di lui si dice che, ad un certo punto, “Gesù, fissatolo, lo amò” (Mc 10,21). Il “discepolo che Gesù amava” è espressione sempre e solo sulla bocca del narratore del quarto Vangelo (mai su quella di altri personaggi). È quindi espressione coniata dalla comunità giovannea, quasi “deducendolo dall’atteggiamento costante del Signore verso colui che appariva come il privilegiato” tra i discepoli fino a farne un’espressione corrente. Al narratore in Gv 13,23.25 bastano tre rapide pennellate per schizzarne la figura in un’efficace sintesi di elementi ordinari e straordinari.
Anzitutto egli è semplicemente un membro appartenente al gruppo del Maestro, “uno dei suoi discepoli”. Sta a dire che si tratta di uno di quelli che hanno aderito alla sua chiamata e che furono segnati dall’esperienza diretta di quelle “parole di vita” che solo Gesù possedeva (cfr. Gv 6,68). Qualcuno quindi impegnato nella fatica della sequela ordinaria del Signore, nell’ascoltare e ricordarne la parola, alla cui luce contemplarne e interpretarne i segni e le azioni, nell’andare da lui, rimanere presso di lui, riconoscere in lui la rivelazione del Padre, accoglierne il comandamento nuovo dell’amore. Una figura all’inizio di nessuna particolare appariscenza, stagliata su uno sfondo comune, il cui tratto base è quello di aver aderito alla sequela del Signore, con gli atteggiamenti caratteristici del “credere” in Gesù. Un discepolo tra coloro che sono stati con Lui “fin dal principio” (15,27). L’ordinarietà del discepolo è come lo zoccolo duro della condizione straordinaria di questo testimone tanto autorevole per la comunità giovannea.
Questo “discepolo” tuttavia non è certo uno qualunque, se alla mensa occupa un posto centrale, a contatto più diretto e famigliare con Gesù. La sua posizione è tipicamente da pole position: posizione di intimità, sta appoggiato sul petto di Gesù; non sfugge l’analogia per cui il DA viene accreditato di possedere con Gesù la stessa relazione di intimità che questi ha verso Dio Padre (stessa espressione in 1,18 e in 13,23). Questa posizione riceve una pronta spiegazione: egli è appunto “quel discepolo che Gesù amava”. Non è il suo nome a qualificarlo, ma la sua relazione al Maestro. L’espressione suggerisce un atteggiamento stabile di amore da parte di Gesù nei suoi confronti, come si può capire dal regolare uso dell’imperfetto (che esprime un’azione continuata nel passato); un rapporto e atteggiamento stabile, non episodico, tale per cui l’espressione può essere resa così: “il discepolo che Gesù ricambiava con il proprio amore”, dove il costante amore di Gesù prende una sfumatura di gratitudine.
Che cosa significa questo amore con cui Gesù gratificava proprio questo discepolo? Era semplice amicizia o “amore teologale”? E perché Gesù lo gratificava così? L’espressione ha imbarazzato interpreti autorevoli. La specificità dell’amore per questo discepolo va senza dubbio colta nella prospettiva dell’amore universale che Gesù ha non solo per i discepoli suoi contemporanei, ma per tutti i credenti in lui, anche posteri (cfr. Gv 13,1; 15,15; 17,26). Cercando però una ragione più specifica, si ricorderà come propriamente anche altri personaggi erano oggetto di particolare predilezione da parte di Gesù, che “voleva bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro” (11,5; cfr. anche 11,3.35). Gesù mostra una predilezione del tutto simile a quella del DA. Tuttavia, a differenza di Lazzaro e delle sue sorelle, si tratta di un amore che caratterizza il nostro personaggio esplicitamente in quanto discepolo. Si potrà rispondere allora che in tal modo egli è da riconoscere addirittura come “il tipo, il modello esemplare del discepolo perfetto… il discepolo per eccellenza: questa è la ragione per cui è amato da Gesù”, trovando una chiave di questa interpretazione in Gv 15,7-11: il DA è colui che, in quanto osserva nell’obbedienza i comandamenti di Gesù, rimane nel suo amore, proprio come Gesù stesso osserva i comandi del Padre suo e rimane nel suo amore.
Questa lettura eziologica (che dice “la causa efficiente” di questo amore di Gesù per il suo discepolo) va integrata da quella che emerge dalla risposta alla domanda (teleologica): Che cosa succede in questo discepolo in quanto amato da Gesù? In termini narratologici: che portata ha l’amore del Maestro nella costruzione complessiva di questa figura discepolare? Esso implica non un generico riconoscimento di gratitudine, tantomeno un semplice affetto umano di predilezione, ma più radicalmente il contraccambio di quell’ulteriore rivelazione di Gesù e del Padre promessa al discepolo che presta amore e obbedienza a Gesù. In Gv 14,21 abbiamo un passo particolarmente illuminante al riguardo: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui”. Il DA, in quanto personificazione del discepolo esemplare, si ritrova così per due volte oggetto dell’amore di Gesù in due tempi diversi e successivi. Anzitutto è oggetto dell’amore universale di elezione discepolare rivolto a tutti (cfr. appunto Gv 15 e anche Gv 17) e successivamente oggetto dell’amore che Gesù promette di elargire ulteriormente (Gv 14,21) a quanti amandolo si manterranno fedeli al suo comandamento. A costoro Gesù addirittura fa promessa di ulteriore più profonda rivelazione e manifestazione dell’amore già elargito.
Il DA incarna la figura del discepolo credente, caratterizzata da un processo di scambio circolare dell’amore, segnata dall’evento di una comunicazione progressiva, di incessante e sempre fresca rivelazione. Contrariamente ad un certo modo di pensare, nel dinamismo della fede l’ultima parola è come la prima: non è antropologica (la nostra “risposta” al Signore che si è rivelato), ma è teologica. Certamente: Dio parla, e poi sta all’uomo, trasformato dalla grazia, rispondere nell’obbedienza, Ma tutto non finisce affatto con la risposta dell’uomo, perché a questa il Signore contraccambia con nuova rivelazione, o meglio con un’intelligenza ulteriore e più penetrante del suo mistero (è il compito stesso dello Spirito che, ricordando le parole di Gesù e introducendo alla verità tutta intera che è Gesù stesso, costituisce proprio così il discepolo in un’esperienza “spirituale”). Solo in questo dinamismo circolare la fede è davvero “viva” e procura realmente una “evoluzione spirituale”, perché non fa del suo oggetto un “dato” scontato, bensì un “evento personale”, una presenza sempre in atto di rivelarsi-a. Decisiva resta così l’iniziativa divina, non solo all’inizio, ma lungo tutto il percorso, di risposta in risposta, della fede, in una processualità di sempre nuova circolarità, poiché nei confronti di chiunque crede all’amore di Dio manifestato in Gesù, viene prevista una nuova manifestazione di Lui e del Padre. Questa è la promessa di Gesù a tutti i credenti: “chi mi ama” – ovvero “chiunque mi ama” – “sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (14,21). Quella del DA è vicenda che pre-contiene quella di tutti i futuri discepoli, per i quali diventa una sorta di modello esemplare. L’anonimato di questo personaggio, così gelosamente custodito, è allora di grande aiuto per il lettore, per potersi identificare più facilmente nella sua “figura”, destinata a diventare anche la sua.
In questa prospettiva possiamo ultimamente ritrovare anche il fatto dell’“autorità” riconosciuta al DA da parte della sua comunità credente (la Chiesa giovannea). I luoghi che dichiarano questa “autorità” sono da ritrovare in 19,35 e 20,30-31 (dove i lettori sono direttamente interpellati dal narratore), in 21,24-25 (dove viene svelata la funzione di testimone scrittore del DA) e nel testo del Prologo (1,14.16 che con 21,24-25 fa inclusione o, più specificatamente, costituisce la cornice in chiave testimoniale di tutto quanto il quarto Vangelo). In particolare, 20,31 incornicia e sintetizza tutto il racconto giovanneo intorno ai segni rivelatori di Gesù, scritti per far credere. I segni scritti sono riepilogati per essere come proiettati all’esterno sui lettori (“voi”), mentre questi ultimi a loro volta si scoprono intrigati nell’itinerario di fede disegnato dal Vangelo. In termini analoghi 21,24 valorizza il personaggio del DA quale testimone-scrittore autore del Libro, accreditato all’esterno con la voce della comunità (il “noi” dei tradenti del libro), così che all’autorevolezza intrinseca di questo testimone eminente (cfr. 19,35; dal cap.13 egli è presente a tutti gli eventi decisivi, guadagnandosi così la posizione testimoniale più favorevole), si aggiunge quella estrinseca della comunità credente, secondo un processo di autenticazione intenso e sottile. La voce narrante in prima persona plurale di 21,24 riecheggia quella già udita in 1,14.16. Ma anche la figura del discepolo testimone di 21,24 ci rimanda in chiara inclusione alla figura del Battista, primo testimone menzionato in tutto il Vangelo.
Il Discepolo amato alla scuola di Giovanni Battista
La figura del DA è così mantenuta nascosta sotto uno stretto anonimato, da obbligare gli esperti che vogliano dare a tutti i costi il nome di qualche personaggio storico ad un compito praticamente impossibile da risolvere in termini di effettiva certezza. La risposta tradizionale che lo identifica con Giovanni, fratello di Giacomo, figlio di Zebedeo, uno dei dodici Apostoli, tra i primissimi chiamati da Gesù, resta probabilmente ancora quella più attendibile. Ma l’identificazione è più interesse nostro che non dell’autore del Libro, i cui primi destinatari dovevano ben sapere di chi si trattava: egli ha voluto affidare all’anonimato un messaggio per noi perfino più prezioso di quello della stessa informazione negata: l’anonimato infatti crea una figura di più facile identificazione per il lettore.
Come tutti i personaggi del quarto Vangelo, anche il DA dipende dalla testimonianza del Battista (in quanto è dalla sua testimonianza che prende avvio tutto il racconto del quarto Vangelo: cfr. Gv 1,19.34). Egli potrebbe essere addirittura identificabile in quel discepolo anonimo di Giovanni, compagno di Andrea di 1,35-40. In tal modo la connessione tra il DA e il Battista si farebbe ancora più stretta, fino a precisarsi nei termini di uno che è stato “alla scuola” di Giovanni Battista e da questi poi provocato a seguire Gesù. Sia la figura del Battista sia quella del DA rientrano nel coro di testimonianze di cui è intessuto tutto quanto il quarto Vangelo che presenta la Rivelazione sotto il profilo di una teologia della testimonianza divina nella storia, così da qualificarsi come “Vangelo testimoniale”.
Fermandoci particolarmente sull’analisi del prologo (cap.1) in rapporto all’epilogo (cap. 24) del Vangelo, ne risulta evidente la configurazione ad inclusione. I due capitoli presentano infatti due figure di testimoni, costruite specularmente, nel senso che il discepolo amato è il duplicato speculare sulla falsariga del Battista, con intento di caratterizzare una “cornice” testimoniale di tutto il quarto Vangelo. La riprova più corposa è il fatto che sia all’uno che all’altro è affidata la mediazione testimoniale della manifestazione di Gesù (cfr. 1,31 e 21,1.7.14). Più precisamente, la testimonianza di Giovanni fa parte degli “inizi” della storia di Gesù, mentre il DA produce invece una testimonianza focalizzata intorno alla “pasqua” di Gesù, tutta legata all’“ora” di Gesù, nel contesto della quale viene non a caso fatto comparire la prima volta (13,1.23). La loro rilevanza è tutta sotto il profilo di un’esperienza diretta da trasmettere all’insegna del conoscere per far conoscere, del vedere per far vedere. Entrambi contribuiscono a formare e consolidare un gruppo attorno a Gesù: non a caso, la loro ultima menzione è accompagnata da una conferma della verità della loro testimonianza complessiva, proveniente da una voce “corale” (cfr. Gv 10,41 e 21,24), così che la loro testimonianza è presentata al lettore non come proposta nuda, ma già recepita, riproposta da quanti l’hanno accolta.
Per entrambi il loro riconoscimento di Gesù (la loro “visione” di Lui) e la conseguente testimonianza, rappresenta un punto di arrivo di una conoscenza avente quale punto di partenza una ribadita condizione di “ignoranza” cristologica. Per Giovanni Battista: “Io non lo conoscevo” (1,31.33). Per il Da: “I discepoli (tra cui il discepolo amato) non si erano accorti che era Gesù” (21,4). A ridosso di questa loro “ignoranza” ci sta sempre la domanda cristologica relativa a chi è Gesù (“Chi sei tu?”), che nel Vangelo ricorre rispettivamente per la prima volta in 1,19 e per l’ultima volta in 21,12.
La testimonianza del Battista si completa solo in quanto integrata da quella messa in atto dal DA, autentico “veggente” capace di decifrare e manifestare i segni della rivelazione pasquale (21,7; cfr. già in 19,35). In quanto testimone, il DA (e quindi ogni discepolo per il quale egli è modello esemplare) è l’autentico “uomo spirituale”, perché è colui che adegua l’agire secondo l’agire dello Spirito stesso di Gesù, quello Spirito che Gesù ci ha consegnato proprio nella sua pasqua: “Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio” (15,26-27). L’archetipo della testimonianza nel Vangelo giovanneo è infatti trinitario: Gesù è il testimone del Padre e lo Spirito santo rende testimonianza a Gesù. Mossi dallo Spirito i discepoli vivono per rendere testimonianza di Gesù. L’urgenza di questa testimonianza cristologica viene ultimamente ribadita da una sorta di smitizzazione operata sia nei confronti del Battista sia nei confronti del DA. Questo ridimensionamento si oppone a qualsiasi confusione o sostituzione della figura del testimone con quella di Colui che va testimoniato. Se il Battista non era lui la luce (1,8), il DA non è “immortale” (21,23): i fratelli che hanno interpretato così le parole di Gesù circa il suo “rimanere”, sono in errore. Il DA amato “rimane” fino alla venuta finale di Gesù in quanto “autore” del Libro (cfr. vv.23-24): il permanere della testimonianza scritta fa permanere anche l’autore di essa.
A scuola del Battista dunque il DA ha appreso la lettura di sé come esperienza testimoniale. Testimoniare è dinamismo con cui un’esistenza si ritrova in un Tu che le sta di fronte. L’esperienza matura della fede – secondo la testimonianza del DA – è l’imporsi della presenza del Signore come il Tu che dà significazione a tutto il proprio vissuto, il quale solo così diventa “spirituale”. Si potrebbe qui parlare proprio di pienezza dell’affettività, una volta che si intenda l’affettività come la soggettività in quanto relazione. Capacità cioè di essere interessati da un Tu vivente. L’affettività presuppone un organo bio-psichico, ma le è proprio percepire ciò che è interpersonale. Per la maturità cristiana e vocazionale, il Vangelo del DA ci consegna pertanto la verifica dell’intimità (Gv 13) con il Signore Gesù che si impone come il Tu da testimoniare, contro ogni rischio di riduzione intellettualistica dell’adesione a Lui e dell’accompagnamento a Lui.
In termini giovannei, andrebbe qui ritrovata e ripresa tutta la tematica del “rimanere”, tipica del quarto Vangelo, dal suo primo esporsi come “rimanere presso e con” Gesù fino al suo “completarsi” come esperienza del “rimanere in” Lui, specificatamente “nel suo amore” (cfr. Gv 15). È la terminologia con cui identificare l’esperienza della preghiera. Il DA è figura che invita a verificare la correlazione fra preghiera e affettività, ritrovando nella preghiera quello che qualcuno chiama il suo “fondo affettivo”, distinto dalla “superficie” (emozioni, idee, immagini, sforzi,…). La correlazione dipende da ogni storia personale, e questa passa attraverso le varie fasi della vita, con le sue crisi affettive. Benché uno, in base a convinzioni mentali, consideri la preghiera come la cosa più importante della sua vita, gli interessi vitali possono essere centrati in altri ambiti (l’autorealizzazione, l’urgenza dell’azione, un altro tu da poco scoperto…). L’attenzione affettiva, molto più incisiva di quella mentale, ci ruba la presenza del Signore e ci polarizza in altre realtà. La figura del DA è tutta definita da una tranquilla onnipresenza al Signore Gesù, al punto tale che nel racconto evangelico su di lui opera una continua “reticenza” narrativa: non è necessario neppure nominarne la presenza (cfr. per es. 21,2) quando si enunciano i nomi di coloro che sono presenti. Egli è dove è Gesù…
Il Discepolo amato alla scuola di Gesù
Il Battista giovanneo è testimone completo fin dall’inizio, mandato da Dio tutto in funzione al Cristo rivelatore. Nonostante l’ignoranza dichiarata all’inizio, non ha vere evoluzioni, ma piuttosto espansioni dei suoi tratti originari di testimone per eccellenza. Non altrettanto si potrà dire per il DA, presentato invece nel suo progressivo divenir testimone sempre più autorevole della storia di Gesù, svelando e riempiendo quel che il suo appellativo di “discepolo che Gesù amava” allude inizialmente in modo cifrato.
L’evoluzione del DA è proponibile come evoluzione “spirituale”, in quanto la sua configurazione come “discepolo amato” assume i tratti dell’assimilazione alla Pasqua di Gesù la cui pienezza consiste nella “consegna” dello Spirito che introduce alla verità intera (Gv 19,30 e Gv 16,13): la verità è la rivelazione cristologica, ma in definitiva è pur sempre Gesù stesso, come anche egli ebbe a definirsi (“Io sono la via, la verità e la vita”). Il personaggio DA, nella sua apparizione nei termini di “discepolo che Gesù amava”, è propriamente infatti solo un personaggio pasquale, e per di più l’unico ad essere presente a tutte le fasi della vicenda pasquale di Gesù (alla cena: Gv13; sotto la croce: Gv 19; al sepolcro: Gv 20; alla sua ostensione come colui che è presente nell’operare nella sua Chiesa: Gv 21 con la simbologia della pesca).
I “tratti” più caratteristici di questa configurazione del DA alla scuola di Gesù, precisamente alla scuola della Pasqua di Gesù, sono raccontati dal testo di Gv 13 (cfr. la sua diretta connessione a Gv 19 tramite il grido di Gesù crocifisso: “Tutto è compiuto (è giunto al suo compimento)”, che nell’originale greco ricalca l’espressione “sino alla fine (sino al compimento)” (di Gv 13,1).
Agli inizi (v.1) la vicenda di Gesù narrata nella prima parte (cc.1-12) viene riassunta usando per la prima volta il termine “amore”: “dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine”. Lo stesso versetto esplicita la “coscienza” di Gesù: “sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre”, “coscienza” che viene ribadita nel v. 3: “sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e che a Dio ritornava”. I vv. 23-25 introducono per la prima volta nell’intreccio narrativo la figura del “discepolo che Gesù amava”. Già conosciamo la “portata” di questa espressione secondo Gv 15,7-11 e 14,21. Il DA è introdotto subito in una posizione di intimità con il Maestro e dunque non può che essere “letto” come colui che partecipa della stessa “coscienza” di Gesù. Aveva detto Gesù in 5,17-20: “Il Padre mio opera sempre, e anch’io opero… Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, e voi ne resterete meravigliati”. Il DA condivide questa coscienza di Gesù e anzi si ritroverà a sperimentarne la riedizione cristologica nel suo rapporto con Gesù, secondo le parole anticipatrici di Gv 14,21. Restando nell’opera di Gesù che si manifesta continuamente al suo discepolo (14,21), il DA partecipa anzitutto del segreto di Gesù: il manifestarsi del Padre a lui. L’evoluzione spirituale del DA giunge a questa maturità: assumere la coscienza filiale di Gesù. In questa coscienza si radica la forza di Gesù, la sua irremovibilità, il suo riuscire a mettere in ordine tutti gli elementi di disturbo, di malessere, di incomprensione, addirittura di tradimento, tutto ciò che vorrebbe amareggiarlo, comprimerlo, tutte le osservazioni “mondane” scettiche, pessimistiche, e nelle quali rischia sempre di affogare la coscienza non credente.
Come ci si forma questa coscienza “aperta”? Qui mi permetto di fare riferimento al racconto dei vangeli sinottici, dove manifestamente vediamo che Gesù non aveva come acquisito fin dall’inizio questo orizzonte della sua figliolanza, non lo aveva come orizzonte ovvio: Gesù si cura di integrarlo, a partire dal battesimo al Giordano (“Tu sei mio figlio, in te mi sono compiaciuto”), nella sua corporeità quotidiana. I vangeli sinottici ci dicono che dopo aver ricevuto il battesimo in preghiera, e averlo prolungato con quaranta giorni di preghiera, Gesù richiama questo evento continuamente nelle lunghe preghiere notturne e in quella pratica della preghiera continua che possiamo cogliere qua e là nei suoi atteggiamenti (la facilità con cui invocava il Padre e ne parlava). Gesù nei Vangeli, in particolare nel quarto Vangelo, non ha fatto altro che ripetere di essere Figlio del Padre, di ricevere tutto da lui, di affidarsi a lui, e di volere che i suoi fossero con lui così. L’apostolato di Gesù in Giovanni (“come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”) è proprio la rivelazione della sua filialità e lo sforzo di coinvolgere in questa filialità coloro che ama. Il DA è la figura tipologica che si propone anche per questa ricezione della coscienza filiale di Gesù. Che cosa è questa consapevolezza filiale? Il contesto di Gv 13 diventa suggestivo e inesauribile: la coscienza filiale di Gesù si costituisce praticamente in “coscienza di sé-come-dono”. È questa la coscienza stessa che egli vuole fare assumere ai suoi discepoli (“Vi ho dato infatti l’esempio perché come ho fatto io facciate anche voi. Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica”) e che costituisce il contesto dell’ingresso sulla scena pasquale del DA (vv. 23-25). La lavanda dei piedi è un gesto sconvolgente, perché leggendolo con la fede della Chiesa che ce lo tramanda, noi vi leggiamo il volto di Dio che serve l’uomo. L’affermazione sembra blasfema e non si addice a ciò che pensiamo di Dio. Eppure Dio serve l’uomo che gli è avverso, che gli si oppone e assume nei suoi confronti un atteggiamento di vulnerabilità. La lavanda dei piedi significa che il servire è azione divina, non il comandare, non il potere.
A tale consapevolezza di sé come dono si contrappone la coscienza debole di Pietro, il suo non capire quello che Gesù va compiendo (v. 7). E questo “tu ora non lo capisci” diviene anche una minaccia: guarda Pietro che rischi di “non avere parte con me”. A partire da Pietro Gesù lavora anche sulla coscienza degli altri undici: “Sapete ciò che vi ho fatto?” (v. 12). Tutto il brano è un rapporto tra consapevolezze, e il Signore cerca di travasare la sua coscienza di missione nella coscienza immatura degli apostoli, confortandola, rincuorandola, chiarendola con estrema pazienza perché si tratta di un processo lento. “Lo capirai dopo (questi fatti)”: metà tàuta dice il testo greco. Sono i fatti pasquali. Così inizia in effetti anche il capitolo 21: “Dopo questi fatti…” (metà tàuta…). L’allusione alla situazione della cena-lavanda è espressamente marcata nel v. 20: “Pietro vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, quello che nella cena si era trovato al suo fianco…”. Nel triplice interrogativo a cui Pietro è sottoposto in Gv 21,15-17 ciò che viene messo in risalto è la necessità di amare Gesù, prima ancora e più che le capacità propriamente pastorali che sono intese nei tre imperativi di Gesù che fanno seguito alle risposte date da Pietro. Colui che rappresenta la figura pastorale è invitato è integrare in sé l’esperienza del discepolo amato.
Ma non solo. Il terzo imperativo apre ad una ulteriore raccomandazione di Gesù (vv. 18-20): “…Quando eri giovane andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio un altro ti porterà dove tu non vuoi. …E detto questo aggiunse: Seguimi. Pietro voltatosi, vide che li seguiva…”. Pietro riceve come imperativo finale quello della sequela, quella sequela nella quale già si trova (“li seguiva”) il DA. Qual è dunque la disciplina a cui deve sottoporsi Pietro (la figura pastorale, la figura della guida) e che implicitamente viene invece riconosciuta come già esercitata dal DA (qui anch’esso considerabile come figura di riferimento, guida riconosciuta dalla comunità credente che in 21,24 lo accrediterà)? Per Gesù la maturità è la capacità e la disponibilità a lasciarsi condurre dove non si vorrebbe. Subito dopo aver affidato il proprio gregge a Pietro, Gesù gli ricorda la dura verità che la guida che serve i fratelli è la guida che si lascia condurre in luoghi sconosciuti. Proprio questa è la qualità più importante della guida: non deve essere una guida di potere e di controllo, ma una guida di impotenza e di umiltà in cui si manifesta Gesù Cristo, servo sofferente di Dio. Ovviamente, non sto parlando di una guida psicologicamente debole, sto parlando di una guida che rinuncia costantemente al potere e sceglie l’amore.
Concretamente, si tratta della disciplina di un’intensa riflessione teologica. Come la preghiera ci tiene in contatto con il Tu del Signore, così l’intensa riflessione teologica ci fa discernere criticamente dove siamo condotti. Per essere capaci di guidare (il termine boskein tradotto con “pasci” rimanda alla conduzione in luoghi nutrienti) è essenziale saper discernere in ogni istante il modo con cui Dio agisce nella storia umana, il modo con cui gli avvenimenti che accadono nel corso della nostra vita possono renderci più sensibili all’azione divina che ci guida alla croce e alla risurrezione. Forse a questa necessità di un’intensa riflessione teologica potrebbe alludere la stessa capacità del DA di “vedere” secondo la fede, al di là dei livelli più bassi in cui l’esperienza del “vedere” si attua (si potrà qui rimandare all’intreccio dei tre verbi “vedere” che ricorrono nel racconto giovanneo del cap. 20).
L’accompagnamento “spirituale” operato dal Discepolo amato
Il DA si propone come guida all’incontro con Gesù. Il suo “vedere” Gesù è ottenuto grazie all’“udire”. Così è detto chiaramente nella scena della crocifissione nella quale vengono espressamente ricordati tre adempimenti della Scrittura, che permettono di vedere e dare testimonianza (Gv 19). La “disciplina spirituale” adottata dal DA, autore implicito del quarto Vangelo, per indicare “la via” che porta a Gesù, anzi per riconoscere in lui “la vera via della vita”, sta ‘tutta’ nella capacità di intendere le Scritture: auditu solo tuto creditur. Questa pedagogia dell’ascolto è l’elemento più marcato nella presentazione tipologica dei quattro personaggi rappresentativi di altrettante situazioni di fede che devono evolvere in fede cristologica matura, quali sono presentate nell’intreccio narrativo dei capitoli 3 e 4 del Vangelo. Si tratta di Nicodemo il fariseo (3,1-21), tipo dei Giudei “ortodossi” favorevoli a Gesù che credono sulla base dei soli segni; del Battista (3,22-36), tipo di tutti coloro che attendono all’opera di purificazione, favorevoli a Gesù sulla base delle somiglianze dell’operare; la samaritana (4,1-42), la cui testimonianza dà luogo alla fede del Samaritani del suo villaggio, figura degli eretici di un Giudaismo eterodosso; il funzionario regale (un erodiano o un pagano) alla cui fede si associa quella di tutta la sua casa (4,43-54).
Probabilmente queste tipologie sono rappresentative (una specie di personalità corporativa) delle diverse provenienze dei gruppi costitutivi la comunità ecclesiale giovannea. Certamente però sono tipologie della fede disposte in una sorte di crescendo, che evidenzia sempre più accentuatamente la fondazione della fede autentica sulla parola di Gesù, e che fa emergere la dialettica tra il singolo e il gruppo. Mi limito ad accennare all’evoluzione spirituale a cui è invitato Nicodemo. L’avventura di questo capo dei Giudei inizia con la notte della visita a Gesù, prosegue con la constatazione del suo disagio all’interno del gruppo di appartenenza (cfr. Gv 7,50-51) per poi concludersi alla croce e al sepolcro (19,38-42).
Nicodemo è figura travagliata e complessa, in sfumata ma sensibile evoluzione, che ultimamente non sembra affatto possibile considerare “ambigua”. Piuttosto è il paradigma del credente la cui fede esce progressivamente dalle ombre dell’ambiguità per diventare adulta e manifestarsi pubblicamente. Più che per gli altri personaggi del Vangelo spirituale, la fede è per Nicodemo un cammino, e il DA nel suo racconto evangelico sembra compiacersi di accompagnarlo fino al suo esito finale, dopo gli inizi apparentemente interrotti bruscamente. Si può pensare che il quarto evangelista si sia servito di Nicodemo (e di Giuseppe d’Arimatea) per comunicare con quei gruppi destinatari originari (cristiani afflitti dal problema della scomunica della sinagoga) attribuendogli una funzione analoga a quella del cieco nato. Il messaggio di Nicodemo ad ogni lettore è quindi quello per cui la fede nascosta ed anonima può davvero abbandonare lo stato di latenza e finalmente “fare la verità e venire alla luce” (3,21) lasciandosi attrarre dal Figlio dell’uomo esaltato sulla croce. Tra l’accoglienza e la non accoglienza del Verbo venuto tra i suoi, c’è la possibilità, reale e sempre aperta, di un passaggio dalla prima alla seconda.
Chi è dunque “esistenzialmente” il tipo Nicodemo nel momento iniziale (cap. 3)? Si tratta di un uomo che è ormai arrivato, cioè di un “adulto”, che ha già una certa carriera sulle spalle e quindi anche certe sue prerogative e certi doveri esterni da salvare: insomma egli sente un po’ il peso della sua reputazione, della sua importanza. Perciò ha paura di compromettersi; perciò ha paura di affrontare apertamente la Parola di Dio: si trova infatti “in situazione”, è sorvegliato, visto e guardato dagli altri. Ecco: il discorso è rivolto a chi, avendo già fatto una certa strada ecclesiastica, cioè essendo già arrivato ad una certa responsabilità esterna, ha paura di compromettersi. Si noti nel discorso di Nicodemo una grande insistenza sugli elementi intellettuali: Maestro (Rabbì), sappiamo che sei un maestro venuto da Dio”, e Gesù con ironia, di rimando in 3,10: “Tu sei un maestro in Israele e non sai queste cose?”. Il fatto è che chi ha già fatto una certa strada è tentato ormai di ridurre il mistero a dottrina. Nicodemo è in questa situazione di chiusura per la novità misteriosa della Parola. La difficoltà per lui suona: Come può un uomo nascere quando è vecchio? Per chi è già arrivato ad un certo punto, la grande paura è questa: non si può incominciare da capo; di qui tante difficoltà e disagi, perché in realtà la Parola di Dio può chiedere di ricominciare daccapo, e questo spaventa. In sostanza, Nicodemo ha poca fiducia nella potenza di Dio. Egli è un uomo che ha esperienza ecclesiale e conosce quali cose si possono fare e quali non si possono fare. Si noti l’insistenza sul potere e non potere nella seconda parte di 3,4. Egli ha ormai stabilito i confini di quello che si può fare e quello che non si può fare: è un arrivato, che nel suo punto di arrivo è ormai chiuso alle ulteriori comprensioni del mistero di Dio. Egli deve esporsi, dice Gesù in 3,11, alla testimonianza di chi ha veduto (chi è che sta qui parlando? Gesù certamente, ma anche il DA?): Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio suo, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (v. 14-15).
Il proseguo dal racconto manifesterà la sua adesione all’evento del Crocifisso, facendosi anzi lui pure accompagnatore della giovane fede di Giuseppe d’Arimatea. Nicodemo giunge alla conclusione della sua personale parabola credente proprio entrando nell’evento pasquale e dunque raccogliendo la proposta educativa rappresentata dalla totalità narrativa del DA.
La “direzione spirituale” del Discepolo amato nella sua Chiesa
Come ultima considerazione propongo il punto di arrivo della disciplina spirituale a cui il quarto Vangelo (cioè il DA) sollecita i suoi lettori-credenti. Mi sembra che esso possa essere detto nei termini di Gv 15,15: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi”. Il Verbo viene ricevuto fra noi nell’intimità misteriosa dell’amicizia. Il termine “amico” è raro nel Nuovo Testamento: lo si trova per indicare situazioni profane nella vita. Giovanni è l’unico evangelista che usa il termine philos, philein per indicare il rapporto con Cristo. Questo è anche il termine usato da Pietro nella triplice risposta all’interrogazione di Gesù in Gv 21. È questo il vocabolo che accomuna diversi personaggi del quarto Vangelo: Giovanni è “l’amico dello sposo”, Lazzaro è detto espressamente “l’amico di Gesù”.
La “direzione spirituale” messa in atto dal DA sembra voler tener conto anche delle rilevanze antropologiche della relazione con Gesù. Ma qui preme evidenziare come il cammino di fede debba uscire dalle secche del servilismo per cui più nessuno sarebbe in grado di correre verso un continuo riconoscimento del Signore. Potremmo assumere la bellissima icona (cfr. Gv 20) del “correvano insieme” e dell’uno (il DA) che “corse più veloce” dell’altro (Pietro) come immagine conclusiva di un’ansia che muove coloro che desiderano camminare verso il pieno accertamento della presenza di Gesù, accertamento che resta la fatica sempre da rinnovare e la gioia sempre da rigustare per tutti coloro che riconoscono il Gesù il logos (la ragione ultima) dei loro giorni.