N.03
Maggio/Giugno 2000

L’età della vita: una spiritualità dei tempi della vita e delle scelte

Introduco alla lettura dell’opera minore Le età della vita di R. Guardini, indicando alcune piste di riflessione. Il tema e la prospettiva sono stati coltivati dall’autore a lungo dentro di sé e vennero comunicati in questo breve scritto dopo i sessant’anni. Più propriamente vorrei evidenziare alcune intuizioni pratiche, la loro preziosità nella nostra esperienza di discernimento, le ricadute utili a chi accompagna in ogni età della vita fratelli e sorelle che hanno fatto della loro esistenza una sequela.

Negli ultimi due decenni della sua vita, Guardini affronta tematiche sull’etica e sull’autoeducazione. “Per quanto avesse sempre esitato ad osservare se medesimo, con l’andare degli anni non poté resistere al bisogno di diventare lui stesso il proprio oggetto, almeno in modo nascosto”[1]. Così nasce il denso scritto Le età della vita (1953), in cui Guardini “riproduce la propria vita, anche se non palesemente, trasposta su un piano generale”[2]. Nello stesso tempo scrive l’Accettazione di se stessi (1953), con cui ripropone il tema della nuova responsabilità verso di sé, nell’orizzonte di una precisa attenzione ai cambiamenti epocali. 

Negli stessi anni l’autore confida ad un amico una difficoltà personale: “La difficoltà più grande non mi viene da ciò che mi accade, ma da ciò che io sono”[3]. La malinconia, una predisposizione che Guardini dovette sopportare sino alla fine dei suoi giorni, rappresentò una difficoltà personale, una debolezza ed un peso, che tuttavia non solo provocò interrogativi, ansie e combattimenti logoranti, ma lo spinse anche ad indagare con acutezza l’esistenza, vivificando le sue analisi con accenti di partecipazione appena trattenuti.

La sua pedagogia non si esprime in un disegno unitario. Tuttavia fu un insigne educatore: Praeceptor Germaniae, lo chiamò l’abate Hugo Lang. Egli attuò iniziative concrete all’Università, sia nella sua attività di accompagnamento personale e di consiglio, in particolare nel suo atteggiamento spirituale sempre teso alla ricerca dell’essenziale e della verità, sia nel modo di pensare e vivere nella realtà. U. Von Balthasar, che aveva una grande ammirazione per il nostro autore, scriveva: “Egli non ha eretto un’architettura vana ai margini della storia, ma ha costruito rifugi per intere generazioni, facendo di esse i baluardi contro il deserto dilagante”[4].

Guardini riporta al compito radicale di accettare se stessi, in un tempo in cui dilaga il fenomeno patologico della “amnesia”, cioè della tentazione dell’autoespropriazione: l’uomo, non più capace di restare in se stesso, si difende attraverso l’autodispersione (cfr. pensiero 366 di Pascal)[5] e si consegna come ostaggio a ciò che fa opinione o sfugge agli interrogativi dell’esistenza. “Ho il dovere di voler essere quello che sono; davvero voler essere io, e io soltanto. Devo collocare me nel mio me stesso, quale esso è, e assumermi il compito che in tal modo m’è assegnato nel mondo. È la forma fondamentale di tutto ciò che si chiama vocazione (Beruf); perché a partire da ciò mi rivolgo alle cose, e dentro a ciò le accolgo. Alla radice di tutto sta l’atto mediante il quale accetto me stesso: debbo acconsentire ad essere quello che sono: acconsentire ad avere quelle qualità che ho. Acconsentire a stare nei limiti che mi sono tracciati”[6].

 

Come un ritratto, come una melodia

In una conversazione radiofonica, ragionando sul diventare vecchi, Guardini nota che la personalità di ciascuno si può intendere “il modo caratteristico in cui un uomo è se stesso; la maniera in cui, nella struttura della sua vita intellettuale-psico-fisica, le diverse disposizioni si integrano in una totalità, e tutto è determinato da quel centro che non può essere ulteriormente dedotto, a cui ci riferiamo quando diciamo egli e non un altro”[7].

La personalità è fornita almeno di due forme. La prima presenta una qualità stabile, permanente, simile ad un ritratto. La si avverte quando incontriamo un uomo, lottiamo o parliamo con lui, o ci lavoriamo insieme. L’altra è la forma qualificata dalla temporalità, espressa nel mutare della vita, fluida come una melodia. “In entrambe si esprime il modo con cui Dio ha pensato quest’uomo; e tale pensiero è conferito, in certo qual modo, come un progetto, da Dio all’uomo nel momento stesso della nascita di quest’ultimo. In misura del suo discernimento, della sua buona volontà, della serietà con cui vive, egli porta a compimento il progetto, oppure lo fallisce o lo lascia in abbandono”[8].

La comprensione di sé si distende lungo tutte le età. “Tutta la mia vita è attraversata dallo sforzo di comprendere me stesso; così, per l’intera vita, sono in cammino nel tentativo di darmi un nome. In cammino come anche per quanto concerne lo sforzo di realizzare me stesso”[9]. “Solo dall’accettazione di sé parte una via che conduce al vero futuro, per ciascuno al proprio. Poiché crescere come uomini non significa voler uscire da se stessi. Esser-io significa addirittura avere una via, quella che conduce dall’io degli inizi a quello del compimento. Essa può passare per lunghi giri, attraverso tribolazioni e oscurità, può venir apparentemente cancellata o coperta, ma c’è sempre, persino quando conduce attraverso la morte”[10].

 

Un metodo attuale!

L’attualità del suo metodo è preziosa per il timbro sapienziale e la fine, essenziale osservazione del vissuto. Aiuta a non contrapporre ma a far interagire letture di tipo fenomenologico e più propriamente “spirituale”. In particolare evidenzia nella realtà, non solo umana, aspetti dinamici opposti e complementari. “Tutta l’estensione della vita umana sembra dominata dalla realtà degli opposti. [Nel campo umano] si trovano innumerevoli fatti, dati, atti e rapporti tutti costruiti in opposizione polare. L’osservazione e la riflessione di lunghi anni mi hanno fatto scoprire un certo numero di opposti definitivi. Io credo che essi sono quelli che cercavo”[11]. Così ci sono “da un lato l’analisi e la descrizione dei modi propri alle diverse età della vita, dall’altro il criterio con cui leggere e mediare le diverse tensioni e polarità”[12]. “La vita non è un affastellamento di parti, bensì una totalità che – con un’espressione un poco paradossale – è presente in ogni punto del suo sviluppo”[13].

Si tratta di osservare con finezza i termini di queste polarità dialettiche: totalità e parti, unità e fasi diverse, identità e alterità. Tutti questi opposti termini hanno valore, non devono contrapporsi né elidersi a vicenda. “I contrasti polari complementari si devono affermare e salvare ogni volta entrambi all’interno della totalità o insieme unitario. Anzi e più precisamente, ciascuno di essi si afferma e si salva nell’affermazione e salvezza via via dell’altro ad esso polarmente opposto: l’individuo nel tutto e viceversa, la tradizione nell’innovazione e viceversa, lo spirituale nel sensibile e viceversa, l’intelligenza nella fede e viceversa”[14]

Alle stesse conclusioni l’autore perviene in una lettura retrospettiva. “Diamo ora uno sguardo retrospettivo alla serie delle fasi della vita e delle crisi che si situano tra una fase e l’altra: la vita nel grembo materno, la nascita, l’infanzia, la pubertà, la giovinezza, l’esperienza della realtà, l’età adulta, la presa di coscienza dei propri limiti, la maturità, l’esperienza della fine, la vecchiaia e la saggezza, la morte… Queste fasi costituiscono insieme la totalità della vita, ma non nel senso che la vita si compone di queste; la vita è sempre presente: all’inizio, alla fine e in ogni momento. Essa fonda ciascuna fase, fa sì che quest’ultima possa essere ciò che è. Inversamente, ogni fase esiste in funzione della totalità e di ciascun’altra fase; danneggiando una fase si danneggia la totalità e ogni singola parte. Così, il giovane porta dentro di sé un’infanzia vissuta bene o male; l’adulto, lo slancio del giovane; l’uomo maturo, la ricchezza delle opere e dell’esperienza dell’uomo adulto; il vecchio, il patrimonio della vita intera, la quale, in un lungo cammino, ha assunto la propria forma, così come siamo venuti descrivendo. Peraltro, ogni fase costituisce una forma definita, ha un proprio senso e non può essere sostituita da nessun’altra”[15].

 

Un’esemplificazione: la fanciullezza

Ogni età va riconosciuta per il senso che ha, apprezzata per il suo volto, non sacrificata o piegata all’età che precede o che segue, non dequalificata a partire da pregiudizi, oppure disturbata o violentata nei suoi ritmi: in genere, sbagliando, sono gli adulti inclini a stabilire quali siano le età migliori.  

Scegliamo, esemplificando, la fanciullezza. “Si può affermare, con una certa ragione, che il singolo individuo riproduce nella sua infanzia l’epoca mitica della storia dell’umanità. L’ambito psichico, interiore, e l’ambito degli oggetti materiali, esteriore, gli esseri viventi e i giocattoli privi di vita, la cerimonia e la realtà, la fantasia ed il destino vi si confondono. Il bambino avverte l’affinità tra tutte le cose, la vicinanza a dispetto di qualsiasi separazione, sente la totalità, che è orientata all’uomo e che va oltre l’uomo. Di questo periodo fa parte anche l’esperienza dei rapporti umani diretti: la vita nel grembo materno, l’evento della nascita, il rapporto con il padre e con la madre; né va dimenticata la vita in comune con i fratelli e le sorelle; in effetti, proprio attraverso queste persone il bambino, nella sicurezza dell’appartenenza allo stesso suo sangue, fa l’esperienza dell’altro come un individuo che ha una vita autonoma. Il bambino sperimenta l’unità del tutto e, allo stesso tempo, le divisioni laceranti”[16].

Da un altro punto prospettico l’opposizione polare è chiave interpretativa per ribadire in ogni parte la totalità della presenza della vita. “Bisogna ora ricordare quanto abbiamo già detto in precedenza, cioè il rapporto tra singola fase e la totalità della vita. Il bambino non esiste solo per diventare adulto, ma anche, anzi in primo luogo per essere se stesso, cioè un bambino, e, in quanto bambino, uomo, giacché la persona vivente è, in ogni fase della sua vita, un uomo, a condizione che la singola fase sia autenticamente e pienamente vissuta secondo il suo senso profondo. Così il vero bambino non è meno uomo del vero adulto. La crescita è un cammino nel divenire; devo tuttavia ricordare il detto di Goethe, che non si cammina solo per arrivare, ma anche per vivere mentre si cammina”[17].

Del resto, la storia della santità cristiana ci ricorda che ogni età è tempo di pienezza, seppur relativa; ogni stagione è tempo di santità: molti sono i santi fanciulli, la cui libertà, chiamata in questa stagione di presunta immaturità, si è consegnata in semplice e stupenda conformità a Cristo.

 

 

 

ALCUNI ORIZZONTI APERTI

 

1. Benedire la vita

Guardini non nega i limiti della sua indagine, riconoscendo di aver tratteggiato delle immagini a grandi linee; in particolare ricorda quanto sia delicato assegnare limiti alle singole fasi ed artificiosa la scansione dei tempi della vita. Inoltre afferma di aver evitato una lettura “al femminile” delle stagioni della vita. “Non mi sento qualificato a svolgerla dal punto di vista della donna. Un tale compito spetterebbe a una donna”[18]. Tuttavia va detto che nel suo secolo è forse il primo autore a spostare l’attenzione – fondamentale per l’autoformazione e l’accompagnamento – dalle età della vita spirituale alle età della vita.

Molti di noi ricordano le lunghe dissertazioni dei manuali che con finezza analizzavano le stagioni dei cammini spirituali, con la ricchezza dei linguaggi, la varietà delle esperienze, le scuole, le regole. È il problema della gradualità dell’esperienza cristiana e le sue tradizionali espressioni. Si parla di tappe di purificazione, di illuminazione, di unione (oppure di cammini di incipienti, proficienti, perfetti), di scale, di gradini, di vie[19].

Guardini rifonda, inaugura una pedagogia della benedizione. Benedire per le stagioni della vita! L’uomo saggio comprende ed interpreta il senso di ogni tappa e rende grazie per la sapienza della creazione colta nel frammento della sua corporeità; vi ammira la fantasia di Dio, la sua continua, fedele creatività. Di solito altri sono gli atteggiamenti del cristiano: il lamentarsi per quello che non si è più o non si è ancora; ancor più raro è coltivare la qualità del dialogo con le altre generazioni o indugiare sul senso dei trapassi e sulle crisi che li accompagnano. Occorre ricominciare sempre dall’assumere quel pezzo di creazione che siamo noi, come ogni consacrazione ricomincia dall’accogliere progressivamente il Battesimo, cioè ciò che sta “in principio”. Se non si assume la creazione non si potrà trasfigurare la vita nell’Alleanza, che inizia una storia nella creazione. C’è un modo di essere “spirituali” (o di accompagnare) molto astratto, perché non si è accettato sino in fondo la realtà della creazione. “Credo che una retta spiritualità della creazione supponga di subordinare totalmente la nostra soggettività all’oggettività di Dio (che è poi la sua soggettività, cioè Lui stesso) senza cercare continuamente di imporre i nostri schemi alla realtà. Prima di tutto c’è da accettare la realtà, in atteggiamento di accoglienza (cfr. Rm 15,7). Accogli ciò che Dio ha fatto, tutto! Perché tutto è fatto per te. Ciascuno, poi, dovrà scegliere la sua direzione. Ma prima di scegliere qualche cosa, bisogna accogliere tutto!”[20].

Interpretare bene quello che noi siamo. Credo che questo sia uno dei segni più grandi della sapienza dello Spirito santo: saperci valutare per quello che siamo, ed essere contenti di quello che siamo. È necessario per il ministero della riconciliazione: per riconciliare, bisogna essere riconciliati con noi stessi. Prima dobbiamo farci riconciliare da Dio, e soltanto dopo possiamo servire la sua riconciliazione (cfr. 2 Cor 5,18-21).

Per essere riconciliati, poi, bisogna essere bene integrati nella nostra verità, nella nostra storia, nella nostra salute, nel nostro sesso, nella nostra famiglia, nelle nostre origini, nella situazione in cui viviamo, nella nostra misura di grazia. Bisogna essere contenti del mondo. Non bisogna essere in conflitto con nessuno, come Dio non è in conflitto con nessuno. Ci possono essere dei nemici di Dio, ma Dio non è nemico di nessuno. Parecchie volte la catechesi apostolica ci esorta a non respingere il male con il male, ma a vincerlo con il bene; a contentarci del nostro proprio dono, a metterlo a servizio degli altri (cfr. Rm 12,17-21; 1 Pt 4,7-11; ecc.).

È il grosso problema dei condizionamenti fisici e psichici, dei quali spesso parliamo. I condizionamenti fisici e psichici sono una porzione di creazione, e dunque sono destinati a scandire per ciascuno di noi un cammino di santificazione. Bisogna far entrare tutto il nostro corpo e tutta la nostra psiche nel nostro cammino di fede; bisogna servirsi del corpo e della psiche che ciascuno ha, e della storia che ciascuno vive, per diventare santi. Non si può prescindere da questo, altrimenti rimaniamo dei visionari. Bisogna accogliere tutte le scelte che abbiamo già fatto. La libertà per un uomo o una donna non consiste nel poter scegliere sempre tutto o qualunque cosa, ma specialmente nell’accogliere le scelte che si sono già fatte, o che altri hanno fatto per noi; nell’accogliere la propria storia. 

 

2. Accompagnare ogni età

In passato si accompagnavano solamente alcune età della vita, per ragioni pratiche (spero non utilitaristiche). Oggi (questo convegno lo conferma) l’accompagnamento si distende tendenzialmente lungo tutto l’arco dell’esistenza, anche perché si debbono fare i conti con nuove situazioni pastorali, come l’emergere del diaconato permanente (in media i diaconi sono pensionati), le vocazioni al ministero, spesso in età avanzata, l’alzarsi dell’età di quanti domandano di consacrarsi al Signore. Inoltre si dovrebbero sempre meglio personalizzare i programmi e gli itinerari in base ai diversi stadi della vita!

Avverto come prima urgenza quella di fare memoria che ogni stagione è stagione di chiamata. L’unica pedagogia vocazionale evangelica è quella che aiuta a riconoscere in ogni tempo dell’uomo, anche nell’ora decima, l’ora inutile, un tempo di chiamata e un’ora di responsabilità. Inoltre è importante non dimenticare che la fruttuosità, la perseveranza di tutte le vocazioni è decisa da una particolare forma di radicalità: il lasciarsi attrarre nel quotidiano dalle concatenazioni delle successive chiamate. La nostra persona si consolida nelle sue continue oscillazioni[21], affronta la realtà quotidiana nell’ascolto come nell’icona di Maria di Nazaret (cfr. Lc 2, 19)[22]

In questa prospettiva urge una riflessione spirituale sul tempo, mirata al servizio che fa l’accompagnatore. Lo si è fatto più in generale intorno al Giubileo. Alla guida si pongono alcuni interrogativi. Per “riscattare il tempo presente” (Ef 5, 16) senza subire la caducità del tutto, occorre fare spazio alla nuova sensibilità, che coglie nell’attimo fuggente la chiamata dell’uomo a divenire quell’uomo che il Padre vuol vedere in lui. Egli esiste solo in quanto diviene, continuamente creato dalla Parola di Dio. È ciò che diventa rispondendo. Perché allora limitarsi a “soffrire” il tempo come un contenitore sempre insufficiente rispetto ai desideri? Il tempo non è prima di tutto una quantità, una clessidra, ma relazione, dono e possibilità di relazioni. L’avvenimento dell’Incarnazione, che visita la creazione, apre la possibilità inedita di un incontro che del tempo è pienezza (cfr. Gal 4,4). Dio si è fatto tempo e, entrando nelle stagioni dell’uomo, ne trasfigura la libertà, che è tempo. 

Ma oggi, nella cultura delle emozioni, è questa la sensibilità dominante sul tema? Mi pare imprescindibile, oltre che suggestiva, la lettura di un sociologo. “Il gioco della vita è veloce e non lascia il tempo di fermarsi per pensare e progettare piani elaborati. Per di più, aggiungendo impotenza all’inganno, le regole del gioco continuano a cambiare prima che il gioco finisca. In questo nostro casinò cosmico (come lo chiama George Steiner), i valori da nutrire e da perseguire attivamente, le ricompense per cui lottare e gli stratagemmi da impiegare per ottenerle, sono tutti calcolati per il massimo impatto e l’istantanea obsolescenza. Per il massimo impatto, visto che nel mondo ormai saturo d’informazione l’attenzione si rivolge alle risorse più brevi e solo un messaggio scioccante, e più scioccante degli altri, può avere la possibilità di trattenerla; per l’istantanea obsolescenza, visto che l’attenzione ha bisogno di essere nuovamente libera non appena ha colto ciò che doveva, per lasciare spazio al nuovo messaggio che bussa alla porta. Il risultato generale è la frammentazione del tempo in episodi, ciascuno separato dal suo passato e dal suo futuro, ciascuno conchiuso e concluso. Il tempo non è più un fiume, ma un insieme di pozzanghere e piscine.

Nessuna strategia di vita che abbia una certa coerenza o coesione emerge dall’esperienza che si può fare in un tale mondo, nessuna che vagamente ricordi il senso di scopo e l’austera determinazione del pellegrinaggio. Nulla emerge da tale esperienza se non certe regole a lume di naso, in gran parte negative. Qualche esempio: non programmare viaggi troppo lunghi (più breve è il viaggio, maggiori sono le possibilità di completarlo); non attaccarti emotivamente troppo alle persone che incontri (meno sei legato, meno ti costerà andare avanti); non impegnarti troppo con persone, luoghi e cause (non si può mai sapere quanto dureranno o quanto le giudicherai degne del tuo impegno); non pensare alle tue risorse di oggi come ad un capitale (i risparmi si svalutano velocemente, e quello che un tempo era un capitale culturale tende a trasformarsi in breve in passività culturale); non differire la gratificazione, se puoi evitarlo (a qualsiasi cosa tu tenga, cerca di ottenerla subito; non puoi sapere se la gratificazione che cerchi oggi sarà in eguale misura gratificante domani).

A mio avviso, come il pellegrino era la metafora più adatta per la strategia della vita moderna, preoccupata dal compito inquietante di costruire un’identità, il flâneur, il vagabondo, il turista e il giocatore, presi insieme, offrono la metafora della strategia postmoderna, generata dall’orrore di essere legati e fissati. Nessuno dei tipi/stili elencati è un’invenzione del postmoderno, eppure, così come le condizioni moderne hanno dato nuova forma alla figura del pellegrino ereditata dal cristianesimo, il contesto postmoderno dà nuove qualità ai tipi noti in precedenza, e lo fa in due modi cruciali.

Primo: gli stili un tempo praticati da persone marginali in periodi marginali e in luoghi marginali, sono ora praticati dalla maggioranza, nel fiore degli anni e in posti centrali; sono ora diventati, pienamente e veramente, degli stili di vita. Secondo: non si sceglie tra i quattro tipi/stili, non se ne prende uno al posto dell’altro; la vita postmoderna è troppo disordinata e incoerente per essere afferrata da un unico modello coerente. Ogni tipo trasmette soltanto una parte della storia che non diventa mai una totalità (la sua totalità non è altro se non la somma delle sue parti). Nel coro postmoderno, tutti e quattro i tipi cantano, a volte in armonia, anche se spesso il risultato è la cacofonia.

“Quello che il presente può offrire lo offre ora, fino ad esaurimento scorte”[23]. L’offerta verrà revocata (o non sarà piuttosto dimenticata?) quando il presente verrà sostituito (messo da parte, spinto via, reso obsoleto, sprofondato nell’oblio) da qualche altro presente del domani.

E così nulla deve essere fatto per sempre. Nulla può essere fatto per sempre. La conoscenza che diligentemente acquisisco oggi sarà del tutto inadeguata, se non una completa ignoranza, domani. Le abilità che apprendo oggi col sudore della mia fronte non mi porteranno lontano nel mondo nuovo della tecnologia e del know-how di domani. Il lavoro che ho ottenuto ieri vincendo una serrata concorrenza scomparirà domani. La carriera di cui sto negoziando i passaggi svanirà. I miei tesori, il mio orgoglio di oggi, diventeranno domani il gusto e l’imbarazzo di ieri. L’unione che ho giurato di curare e preservare si spaccherà e si dissolverà domani al primo segno di disamore da parte mia o del mio partner. Forse ci sarà una serie di “compagni per la vita”. Nessuno è o sarà il mio compagno “fino a che morte non ci separi”, o almeno nulla che io possa fare mi può assicurare che lei o lui lo saranno.

Con l’eternità decomposta in un movimento browniano di momenti passeggeri, nulla sembra più immortale, ma nulla sembra nemmeno mortale. Non nel vecchio – sovrumano, sinistro, terrificante – senso di “una-volta-per-tutte”, dell’irrevocabilità, dell’irreversibilità[24].

A questo punto la metafora del pellegrinaggio e delle stagioni della vita, nello scorrere del tempo, possono illuminarsi a vicenda. La fede nel suo crescere e compiersi in successivi trapassi riconduce, come nella vita di Gesù di Nazaret, alle vicende degli inizi, a “ciò che sta in principio”. Il cristiano, che pure ama la terra, coltiva atteggiamenti da ospite, non da sedentario. È segnato dall’estraneità (Xenitia, Xeniteìa)[25] al mondo, dal desiderio del ritorno.

Il viaggio più lungo è il viaggio interiore. Chi ha scelto il suo destino, chi si è incamminato verso il suo profondo, (esiste il profondo?) pur essendo ancora tra voi non è più con voi, isolato nel vostro sentimento come il condannato a morte o come chi venga anzitempo destinato dall’imminente addio alla solitudine finale, propria di ogni uomo. Fra voi e lui vi è distanza vi è incertezza, circospezione. Vi vedrà sempre più distanti, sentirà il richiamo delle vostre voci sempre più fioco[26].

 

3. La crisi: rischio e opportunità

L’uomo non scivola da una stagione all’altra con dolcezza, ma talvolta entra in rapide tumultuose. Tra le età della vita si situano trapassi inevitabili, che insieme sono rischiosi e fecondi, dentro cui si annidano crisi insidiose, talvolta striscianti, tal’altra vistose. Guardini ne mette a nudo le radici con rapide diagnosi, valuta i rischi, attento a coglierne le opportunità in vista di una conclusione positiva. Avverte che spesso esse sono più il segno di una stagione nuova che nasce, piuttosto che di qualcosa che muore! Perciò si può benedire Dio anche dentro le pesanti difficoltà dei trapassi “stagionali”, crescendo di crisi in crisi, se non si costruiscono monumenti ad esse e se ne curano le condizioni di fecondità. La crisi allora, con il suo corteo triste di demotivazioni e defigurazioni, da luogo di morte può svelarsi misterioso grembo di vita, per Grazia.

Da tempo si è parlato della delicatissima crisi che precede la cosiddetta seconda chiamata[27]. Molto fruttuosa sarebbe la frequentazione della vicenda della piccola Teresa e della sua dolorosa esperienza della impossibile necessità. Essa vive l’infinità dei desideri e, insieme, l’invincibilità della debolezza; Dio chiama a conversioni impossibili, perché fa la storia con ciò che è “scartato”[28]. Il percorso è rigoroso. Non c’è amore senza il soffrire. Ma questo amore, che necessariamente domanda coraggio estremo, svela anche in noi una debolezza estrema. Allora amarezza e disperazione? No. Ciò che è decisivo è l’accettazione della debolezza come guadagno. Essa fonda l’abbandono, la confiance: “Tu vedi quello che io posso fare e allora sarai tentato di portarmi nelle tue braccia” (ivi). La guida proprio in questi trapassi deve conoscere i sentieri che dalla crisi conducono fuori positivamente. Evitando le soluzioni precotte, facendo tesoro delle esperienze apprese nelle proprie crisi, si manterrà ferma su quanto è autentico nella vita spirituale ed aiuterà la libertà della persona ad assumere i propri limiti, traendo profitto persino dalle proprie colpe. Questa operazione trasfigurante è opera dello Spirito, conduce ad una consegna sempre più totale di sé. 

Matta el Meskin, luminosa figura di abbà della comunità monastica di S. Macario, ritiene (e documenta!) che persino chi sta affondando nelle paludi della tiepidezza e della mediocrità spirituale, se opportunamente guidato, può aprirsi a una nuova immagine di Dio e di sé. Allora, guarendo da distruttive autoaffermazioni e da un soffocante narcisismo, potrà riprendere con più slancio il suo cammino di fede, liberato dalla schiavitù del sensibile[29].

 

4. Ma Adamo dov’è?

Quali spie per una lettura del vissuto? Una riflessione si impone per avere modo di verificare, e possibilmente preparare, il cambiamento di età in età e favorire l’appropriazione di un’adeguata pedagogia della fede. I riferimenti per individuare i mutamenti sono molteplici e opinabili (vedi bibliografia). Comunque, poiché ogni esperienza è insieme fisica, psichica e spirituale, va ricordata la preziosità (e in alcuni casi la necessità) del dialogo con le scienze umane, con il loro ricco patrimonio di analisi e di saggezza. È certo importante essere lucidi nell’individuare i modelli antropologici soggiacenti, sottoponendoli al vaglio scrupoloso della teologia spirituale, senza sudditanze e senza supponenze (tra l’altro le scuole di spiritualità offrono strumenti e testimonianze insostituibili).

Lo stesso Card. Martini ha indicato in contesti diversi punti di osservazione diversificati[30]. Ritengo importante quali points de repères il cammino di preghiera, (compresa la maturità liturgica), l’analisi del desiderio e dei sentimenti, la messa a fuoco dell’immagine di Dio, gli effetti dell’educazione familiare, le ferite/resistenze che vengono dal passato, le esperienze ecclesiali.  Inoltre, mentre coltiviamo un’attenzione continua ai segni dello Spirito in noi, è opportuno non separare le vicende personali, e le loro stagioni, dalle età della Chiesa che avanza nella storia. 

 

5. L’età di chi guida

In un breve “discorso dottrinale” Guardini ragiona sul “realismo cristiano”, affermando che non esiste una via diretta tra l’uomo e Dio, benché l’uomo la persegua con nostalgia . “L’uomo è via a Dio per l’uomo, per le persone che gli sono destinate. E come divengono strada per Lui? Quando egli è pronto e disponibile a prenderle come sono: nell’amicizia, nel matrimonio, nel lavoro, nella responsabilità, negli incontri dell’esistenza”[31].

“Quando il cristiano è pronto a guardare all’uomo com’egli è, non a vederlo come lui stesso vuole o teme, ma come quello che è di per sé; quando i suoi occhi con i loro sguardi non prescrivono all’altro come debba essere, ma gli concedono d’essere liberamente colui che egli è; quando il cuore gli dona spazio per determinarsi da sé e lo accoglie com’è, sempre nuovo, giorno per giorno, l’amico, lo sposo, l’allievo, il compagno di lavoro – quando il cristiano agisce così, in quel suo agire avviene qualcosa. La fede mi dice che l’altra persona, così come viene incontro a me, non è un che di indifferente. L’incontro è la provvidenza e contiene la destinazione. Così quella persona mi porta la volontà di Dio. Se dunque io mi presento nei suoi confronti nell’atteggiamento obbediente del vedere, del prendere sul serio, della giustizia e della pazienza, in ciò vengo educato a orientarmi al Dio vivo. L’auto-affermazione nel mio vedere e desiderare viene allentata, rilassata. Dall’intimo si produce maggior libertà, ampiezza, luminosità: Dio vi appare più chiaro. Quanto Dio mi dice di se stesso attraverso la rivelazione del suo volto nel Cristo vivo, nelle parole di Cristo sul Padre, sulla sua onnipotenza e sul suo amore, si fa chiaro solo quando io accolgo l’uomo nell’obbedienza verso questo stesso Padre. Senza la Rivelazione, Dio rimane sconosciuto; dopo che Egli si è rivelato rimane ancora, per così dire, non dischiuso. Per capirlo si deve percorrere la strada che passa attraverso la volontà concreta di Dio, ciò soltanto apre lo sguardo all’autorivelazione di Dio”[32].

L’accompagnamento non è una comunicazione “in vitro”. Il dialogo è sempre condizionato dalla stagione che gli interlocutori attraversano, con i climi, le situazioni personali, il vissuto di entrambi. Un rapporto non paritetico, come è quello della direzione spirituale, porta con sé una distanza che non agevola la comunicazione. Comunque non è detto che una sintonia emotiva sia  preferibile. I due si accoglieranno nel realismo della fede, mettendo anche  in conto nel loro rapporto effetti e risonanze imprevedibili ed ambivalenti: purché insieme si cerchi e  si compia ciò che al Padre è gradito. Nessuno cercherà all’altro frutti fuori stagione.

 

 

 

PROPOSTA BIBLIOGRAFICA

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Riviste

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Opere su Romano Guardini

Guardini, Le età della vita, Vita e Pensiero, Milano 1997 (tutte le citazioni dell’articolo fanno riferimento a questa ristampa della 2a edizione); Accettare se stessi, Morcelliana, Brescia 1992.

B. Gerl, Romano Guardini, La vita e l’opera, Morcelliana, Brescia 1988.

Aa. Vv., La Weltanschauung cristiana di R. Guardini, (a cura di S. Zucal), EDB, Bologna 1988. 

 

Note

[1] H. B. Gerl, R. Guardini, La vita e l’opera, Morcelliana, Brescia 1988, pag. 404. 

[2] Ivi, pag. 406.

[3] Ivi, pag. 366.

[4] H.U. von Balthasar, Romano Guardini, Riforma delle origini, Jaca Book, Milano  1970, pag. 18.

[5] S. Zucal (a cura di), La Weltanschauung cristiana di R. Guardini, EDB, Bologna 1988, pag. 173.

[6] R. Guardini, Accettare se stessi, Morcelliana, Brescia 1992, pagg. 16-18.

[7] R. Guardini, Le età della vita, Morcelliana,  Brescia 1987, pag. 89.

[8] Ivi.

[9] R. Guardini, Discorso all’inaugurazione del Katholikentag a Berlino (1952), dal titolo Conosce l’uomo solo chi ha conoscenza di Dio, in Accettare se stessi, pag. 60.

[10] Ivi, pagg. 24-25.

[11] R. Guardini, Uno sguardo cristiano sul mondo, Messaggero, Padova 1988,  pagg. 43-44.

[12] V. Melchiorre, Prefazione a Le età della vita, Vita e pensiero, 1992, pag. 8.

[13] Ivi, pagg. 73-74.

[14] G. Sommavilla,  R. Guardini, L’uomo, in  Aa.Vv., La testimonianza di R. Guardini, Atti del Convegno a cento anni dalla nascita, a cura dell’assessorato alla cultura del Comune di Monza, 1985,  pag. 41.

[15] R. Guardini, Le età della vita, o.c., pagg. 82-83.

[16] Ivi, pagg. 86-87.

[17] Ivi, pag. 51.

[18] Ivi, pag. 83.

[19] Alla Facoltà Teologica di Milano si è tenuto più di un convegno  su questi temi, a cura del Centro studi della Spiritualità. L’ultimo il 13 gennaio 2000. Sono in corso di pubblicazione gli Atti.

[20] F. Rossi de Gasperis, La roccia che ci ha generato, ADP, Roma 1994, pag. 35.

[21] Tema guardiniano del centro, in Uno sguardo cristiano sul mondo, o.c., pag. 51.

[22] C.M. Martini interpreta con questa icona biblica il metodo di Guardini dell’opposizione polare. Lo fa nel suo intervento alla tavola rotonda in occasione del Convegno internazionale su R. Guardini, 11 febbraio 1994, Guardiamo al futuro, EDB,  Bologna 1994, pag. 110. 

[23] Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna 1999, pagg. 38-39.

[24] Z. Bauman, Il teatro dell’immortalità, Il Mulino,  224-225.

[25] G. Dossetti, Con Dio e con la storia, Marietti, 1986,  pag.164. Lo stesso Guardini scrive in  Accettare se stessi: “Per me stesso io non sono solo evidente, ma anche strano, enigmatico, anzi, sconosciuto: al punto che possono accadere cose come queste: un giorno guardo allo specchio e m’interrogo straniato – quanto è rivelatrice la parola straniato – toccato da estraneità, respinto da estraneità: attenzione! Estraneità tra me e la mia stessa immagine” (pag. 9).

[26] D. Hammarskjod, Tracce di un cammino, Qiqajon, 1992, pag. 87.

[27] R. Voillaume, Sulle strade del mondo, Morcelliana, 1960  Brescia, pagg. 3-22.

[28] Teresa di Lisieux, Opere complete, Vaticana, OCD, 1997, pagg. 380-381. 

[29] Matta el Meskin, L’esperienza di Dio nella preghiera, Qiqajon, 1999, pagg. 305-325.

[30] C.M. Martini, Oltre alla lettera del giovedì santo sulla Età media del clero (1996), è suggestivo leggere i criteri, desunti  dai quattro evangeli, circa le diverse tappe dell’esperienza cristiana (Lettera del giovedì santo 1980). Inoltre si veda Il sogno di Giacobbe, Piemme 1989 pagg. 22 – 29. Infine Vivere i valori del Vangelo, Einaudi, Torino,1996, pagg. 97-99. 

[31R. Guardini, Fede, Religione, Esperienza, Saggi teologici, Morcelliana, Brescia 1984, pagg. 128-129.

[32] Ivi, pag. 129.