N.04
Luglio/Agosto 2000

La dimensione vocazionale in un progetto globale di maturazione del bambino

La domanda, che ci si pone, viene da più parti espressa in modi differenti e ognuno di essi sembra nascondere una risposta: si può affermare che nel bambino[1] esista un vero e proprio “bisogno religioso”, una “vita spirituale” ovvero un “senso religioso”[2]? È possibile rilevare una “religiosità infantile” o addirittura una “fede” nei piccoli[3]? Non conviene meglio esprimersi nei termini più attenuati di “potenziale religioso”[4], di “risveglio religioso”[5], di “apertura”[6], di “disponibilità”[7], di “predisposizione”[8], o, infine, di “chiamata”?

 

Una domanda complessa che nasconde “in nuce” una risposta

La difficoltà maggiore che esiste nel dare una risposta esauriente scaturisce dalla condizione del soggetto: il bambino si svela agli occhi dell’adulto come “mistero” nella sua semplicità e nella ricca e poliedrica articolazione genetica. I tratti bio-psicologici del piccolo dell’uomo non appaiono all’osservatore ben distinti e nettamente separabili; essi formano un tutt’uno, in uno slancio fortemente unitario che lo spinge ad aprirsi spontaneamente fino ad abbracciare la realtà nella sua interezza[9]. I diversi aspetti psicologici che l’adulto coglie nel piccolo non sono, quindi, separabili dalla supposta dimensione religiosa, sia che si dichiari in modo distinto, sia che si assimili indistintamente alla sua totale personalità in fieri. Se poi i fattori esogeni e quelli endogeni sono interdipendenti nella crescita della persona umana, questo è soprattutto vero nel soggetto infantile che possiede delle risorse interiori originali ma che nello stesso tempo dipende dagli influssi positivi e negativi dell’ambiente circostante.

A ragione la Fargues s’interroga: “Ma che cos’è dunque un bambino? Un bambino è molta immaginazione, una vivissima sensibilità, una piccola riserva di esperienze personali, e poi un pochino di attenzione volontaria; e meno ancora di mente logica. Tutto questo, poco diviso per categorie quanto è possibile: un bambino mette tutto se stesso in ciò che fa. Che illusione, rivolgersi solo alla sua mente logica! Ed è così, allo stesso tempo, per il movimento, il bisogno di movimento, la vita fisica sfrenata: si respira, si pensa, si tocca, si immagina, si guarda, si interroga, si fabbrica, ci si ricorda. Tutto questo contemporaneamente: molto male informato l’educatore rinchiuso nelle sue abitudini che vuol far pensare prima e giocare poi o che non capisce come il bambino abbia gli occhi sulla punta delle dita!”[10].

 

Due risposte contrapposte e un abbozzo di risposta aperta

Alla domanda posta all’inizio sono grosso modo due i partiti che si fronteggiano[11]. Alcuni autori facendo capo a S. Freud vedono nell’espressione religiosa infantile una “debolezza” che mentre idealizza la figura paterna (il super-io), indebolisce l’identità (l’io) del bambino. In questa visione la sua religiosità non arrecherebbe sicurezza ma oppressione, non alimenterebbe speranza ma angoscia. E. Durkheim affronta il problema da una diversa angolatura, mettendo in rilievo le dinamiche socio-ambientali. Afferma, infatti, che il senso religioso è indotto e “inculcato” dalla società, utile alla convivenza ma estrinseco ai bisogni dell’individuo.

G.W. Allport, pur ammettendo l’importanza del sentimento religioso nell’equilibrio psichico della personalità umana, si limita a considerare lo stadio infantile (segnato innanzitutto dal magismo) un livello immaturo rispetto allo stadio adulto. J. Piaget specifica le fasi evolutive in direzione accentuatamente cognitiva, suddivide l’infanzia in due periodi (senso-motorio e pre-operatorio) ma per quanto riguarda l’aspetto etico-religioso non si distacca dalla visione adultistica di Allport.

Altri autori più recenti, sulla scia di A. Godin e A. Vergote, mettono maggiormente in rilievo la positività dell’esperienza religiosa del bambino che va considerata per se stessa, ad un livello di maturità propria dell’età del soggetto e non come pura forma di immaturità rispetto alla fase adulta. Nei primi autori citati, infatti, l’ottica “adultistica” fa sì che la visione standardizzata dell’adulto prevalga sull’originalità della realtà infantile, non lasciando trasparire l’effettiva singolarità dell’infanzia e del senso religioso che sembra contraddistinguerla. Ogni stadio evolutivo, infatti, possiede un livello ottimale di maturità. Non è raro, infatti, avere un bambino con una “sua” maturità umana e religiosa, e un adulto con forti regressioni infantili sulle varie dimensioni della personalità (affettive, intellettive…), compresa quella della fede.

Dopo aver rapidamente esaminato le tendenze di soluzione alla questione, se è improponibile parlare di “bisogno religioso” del bambino, quale pulsione innata e naturale[12], “non è da trascurare l’ipotesi di un sentimento religioso infantile legato ad esperienze costruttive del sé, anziché a fatti traumatici o conflittuali: un sentimento costruito, per esempio, sul senso della appartenenza, della protezione, della benevolenza, della disponibilità e dell’interesse, vissuti non come idealizzazioni difensive, ma come esiti esperienziali costruttivi che esprimano la disposizione ad essere partecipi, a porsi in relazione, a intessere rapporti autorealizzativi capaci di dare un senso condiviso all’esistenza” [13]. La religiosità nel bambino, quindi, non è né artificiosa né artificiale, bensì genuina e dinamica, dimensionale e pervasiva, poiché interessa l’intera esistenza umana e tocca trasversalmente gli aspetti della sua personalità: da quelli affettivi a quelli cognitivi, da quelli volitivi a quelli psico-motori e ludici…[14]. Se esistere per l’uomo è un “compito aperto”, egli, sin dagli albori della sua biografia, va considerato e compreso come un “essere orientato verso qualcosa che lo trascende, verso qualcosa che sta al di là e al di sopra di se stesso, qualcosa o qualcuno, un significato da realizzare, o un altro essere umano da incontrare e da amare”[15].

Parlare di “disponibilità” e di “apertura” è maggiormente produttivo sia ai fini della ricerca scientifica, sia ai fini della sapienza pedagogica umana o dell’arte educativa cristiana, perché rende possibile il rispetto e la salvaguardia da un lato dell’originalità singolare di ciascun bambino, dall’altro della gratuità del fatto rivelato che non è mai generico ma incarnato nella storia. Non va dimenticato che l’evento cristiano è universale e particolare ad un tempo in quel paradosso che, per quanto possa meravigliare o indisporre, caratterizza il cristianesimo. In questo secondo versante, è giustificato il termine “chiamata”, in quanto l’appello di Dio può essere colto e corrisposto da ciascun bambino senza preclusioni di sorta, nel dispiegarsi di forze libere, non senza l’influenza positiva o negativa degli adulti educatori che sostengono il piccolo nella sua crescita integrale[16].  

 

Una religiosità “mediata”: l’importanza delle figure parentali e dell’ambiente circostante

Superando ogni visione innatista e spontaneista, i bambini risentono dell’ambiente interpersonale nel quale si muovono e maturano come soggetti unici e irrepetibili. In loro “il passaggio da questa disponibilità ad una esperienza autenticamente religiosa non avviene spontaneamente, ma mediante lo stimolo di favorevoli esperienze parentali ed ambientali, secondo un processo di tipo simbolico”[17].

Perciò la crescita affettiva, motivazionale e sociale influisce significativamente sullo sviluppo della religiosità e, com’è facile supporre, anche viceversa. È oramai un dato acquisito che i primi anni di vita sono decisivi per la strutturazione della personalità, per l’autostima e per lo sviluppo integrale e armonico delle varie dimensioni. L’educazione religiosa non solo agisce come rinforzo in tale strutturazione, ma conferisce particolare coesione interiore al soggetto, con l’apporto insostituibile di determinate condizioni educative.

Le figure parentali costituiscono un’incisiva mediazione simbolica: la relazione genitori-figli anticipa e descrive il rapporto Dio-uomo, condiziona in positivo o in negativo la relazione fra il bambino e l’immagine di Dio che egli elabora[18]. Se la prima convinzione del bimbo è che i suoi genitori siano perfetti, quando viene a scoprire le loro imperfezioni orienterà il proprio senso di idealizzazione verso il Genitore perfetto. Seppure con un po’ di confusione, imparerà analogie e differenze fra le diverse “paternità”. La figliolanza naturale lo inizierà gradualmente alla figliolanza religiosa e alla partecipazione ecclesiale, come dilatazione della propria appartenenza familiare. 

Lo stile di vita della famiglia e dell’ambiente incidono sullo sviluppo della religiosità, perché il bimbo s’identifica con i genitori, imita le varie figure significative che lo circondano, facendo propri i loro modi di essere e di agire. Egli apprende precocemente valori ed esperienze religiose attraverso la mediazione dei grandi, anche se ha bisogno di tempo e di interventi educativi adeguati per oggettivizzarli[19]. Il piccolo entra ben presto a contatto con i segni interpersonali, oggettuali ed ambientali che dicono riferimento alla sfera religiosa: sacerdoti, suore, immagini e edifici sacri, celebrazioni rituali, gesti di preghiera e parole rivolte a Colui che non si vede ma che eppure è percepito come presente ed operante.

 

Il “Dio” dei bambini

Il bambino possiede un modo tutto suo di accostarsi all’Assoluto, di sentirsi interpellato, di riconoscere Dio e di esprimerne il contatto. Come si è detto “la fiducia in Dio, padre benevolo, promotore della nostra crescita umano-cristiana e desideroso di vederci capaci d’autopromozione, non geloso delle conquiste umane, sarà da ciascuno filtrata dai vissuti di relazioni paterne-materne sperimentate nella propria esistenza”[20]

L’educazione del senso religioso della vita e del senso di Dio s’iscrive in un progetto globale di maturazione del bambino. Prima di spingersi oltre, verso un Dio che non s’identifica con persone o cose ma che tutto trascende, che non si nasconde in modo magico nelle cose o tra le cose come il genio della lampada di Aladino ma che si rivela e si nasconde operando e salvando, l’educazione religiosa prende le mosse dalle prerogative del bambino, dal suo modo di apprendere, dal suo modo originale di scoprire e interpretare la realtà: “egli impara facendo, ma si tratta di un fare di tipo giocoso, di un fare che diventa esperienza in quanto il bambino che gioca attribuisce significati alla sua azione […] Su questa base si fonda la capacità-possibilità di interpretare i segni con i quali i credenti comunicano con Dio”[21]. A ragione H. Lubienska de Lenval affermava che “il bambino è portato naturalmente all’ammirazione e alla fiducia che chiudono la bocca e aprono il cuore”[22].

Se si vuole essere fedeli alla “chiamata” dei bambini[23], occorre metterli evangelicamente al centro e porsi in atteggiamento corretto dal punto di vista psicologico e pedagogico, sospendendo, mettendo tra parentesi e distanziandosi da visioni aprioristiche sia teologiche che educative.

Ritornando all’interrogativo iniziale, la risposta migliore sembra essere quella offerta dal famoso Catechismo olandese: “La comparsa di un nuovo essere umano è un momento sacro, in cui questa potenza creatrice si manifesta in maniera tutta particolare. Infatti, i miei genitori non hanno voluto proprio ‘me’. Desideravano un maschietto, una femminuccia. Soltanto Dio ha voluto me. È nato in modo molto straordinario qualcosa di nuovo, che di per sé non può venir spiegato dall’unione corporea di due creature umane. Un ‘io’ che potrà dare del ‘Tu’ a Dio, un ‘io’ che con Dio ha un rapporto diretto, ed è stato chiamato alla vita dal profondo dell’ereditarietà umana e, attraverso di essa, dalla mano di Dio. I due elementi, eredità umana e mano di Dio, costituiscono insieme una sola attività. Alla coppia umana che concepisce un figlio, viene dato perciò il potere di cooperare con Dio. Tale cooperazione non cessa con la nascita. Si compie con l’educazione. Dio nutre, ama e guida un nuovo essere umano attraverso i suoi genitori. Grave responsabilità e piena di gioia”[24].

Non è forse questo il senso della “chiamata” per i piccoli che gradualmente diventano grandi e per i grandi invitati a diventare piccoli (cfr. Mt 18,3)? Ma in quest’orizzonte, pur presupponendo una “predisposizione” religiosa nel bambino, ci si muove nell’ottica specifica della fede cristiana, entro cui la parola “chiamata” può avere senso.

 

 

 

Note

[1] In questo contributo si intende per bambino il soggetto in età evolutiva dai 0 ai 6 anni, in condizione educativa familiare o prescolare, distinguendo grosso modo due fasi: prima e seconda infanzia.

[2] Cfr. R. Coles, La vita spirituale dei bambini. Il senso religioso nell’esperienza infantile, Rizzoli, Milano 1992. 

[3] Cfr. Daniel Ange, La fede dei piccoli, una risposta ai teologi. Un catechismo vissuto dai bambini, Città Nuova, Roma 1985.

[4] Cfr. S. Cavalletti, Il potenziale religioso del bambino. Descrizione di un’esperienza con bambini da 3 a 6 anni, Città Nuova, Roma 1979. 

[5] Cfr. D. Monneron (ed.), Risveglio religioso dei bambini, Cittadella, Assisi 1973.

[6] Il Catechismo dei bambini della CEI Lasciate che i bambini vengano a me (1992) parla di prontezza a credere in Dio, di “apertura” (cfr. CIC/B n. 7) all’esperienza religiosa. L’edizione del 1973 parlava di “disponibilità al fatto religioso”: cfr. Catechismo dei bambini, n. 11. Per un commento al recente testo catechistico: cfr. Ruta G. e collaboratori, Catechismo per l’iniziazione cristiana dei bambini “Lasciate che i bambini vengano a me”. Guida per il catechista, Elle Di Ci, Leumann – Torino 1995.

[7] Cfr. A. Vergote, Psicologia religiosa, Borla, Torino 1967, pp. 279-298. In modo analogo ma con delle diversità Dacquino parla di “disponibilità religiosa istintiva aspecifica”: G. Dacquino, Religiosità e psicoanalisi. Introduzione alla psicologia e alla psicopatologia religiosa, SEI, Torino 1980, p. 60.

[8] Cfr. E. Fizzotti, Verso una psicologia della religione. 2. Il cammino della religiosità, Elle Di Ci, Leumann – Torino 1995, pp. 117-118.

[9] M. Montessori coglie questa dinamica riccamente unitaria quando afferma: “In questi rapporti sensitivi tra il bambino e l’ambiente, sta la chiave che può aprirci il fondo misterioso in cui l’embrione spirituale compie i miracoli della crescenza”: M. Montessori, Il segreto dell’infanzia, Garzanti, Milano 1992, p. 57.

[10] M. Fargues, I metodi attivi nell’insegnamento della religione, IPL, Milano 1942, pp. 47-48.

[11] Ci si rifà alle pagine di A. Perucca Paparella, Psicologia del bambino ed esperienza religiosa, in M. Mencarelli – S.S. Macchietti – A. Perucca et alii, La religione nella scuola materna, La Scuola, Brescia 1986, pp. 53-70 e S. S. Macchietti, Bambino, religione e scuola materna oggi, in idem – R. Cuccurullo (ed.), Religione e scuola materna. Proposte pedagogiche e didattiche per la progettazione educativa, FISM, Roma 1987, pp. 11-52. Per una visione più completa: cfr. E. Fizzotti, Verso una psicologia della religione. 1. Problemi e protagonisti, Elle Di Ci, Leumann – Torino 1992.

[12] Cfr. G. Milanesi – M. Aletti, Psicologia della religione, Elle Di Ci, Leumann – Torino 1973, p. 77; M. Aletti, La religiosità infantile. Un approccio psicologico, in “Riflessi” 30 (1978) 1/2, pp. 39-61.

[13] A. Perucca Paparella, Psicologia del bambino ed esperienza religiosa, p. 62. Cfr. pp. 68-70.

[14] In questa direzione è indicativa la scelta educativo-didattica dei “campi d’esperienza” nella scuola d’infanzia, a cui l’educazione religiosa è chiamata a dare un contributo non solo specifico ma trasversale al fine della maturazione integrale del bambino.

[15] V. Frankl, Alla ricerca di un significato della vita. Per una psicoterapia riumanizzata, Mursia, Milano 1993, p. 72.

[16] Cfr. le illuminanti riflessioni di F. Dolto, Le parole dei bambini, Mondadori, Milano 19913, pp. 95-96.

[17] M. Aletti, Quale bambino? Analisi del CdB sotto l’aspetto della psicologia religiosa ed evolutiva, in “Catechesi” 43 (1974) 3, p. 35. Cfr. le pagine di alto valore evocativo di P.L. Berger, Il brusio degli angeli, Il Mulino, Bologna 1970, pp. 91-98 e quelle di riconsiderazione scientifica di G. Stickler, Dalle “relazioni oggettuali” alle relazioni religiose. Le basi psicologiche di una nuova teoria dell’esperienza religiosa, G. Ruta (ed.), L’insegnamento della Religione Cattolica nel mondo dei simboli. Attualità, fondamenti e sviluppi, Coop. S. Tom., Messina 1999, pp. 187-209.

[18] “Dio svolge nei riguardi dell’uomo un ruolo analogo a quello che i genitori svolgono nei confronti del bambino […]. Così la presenza materna viene a simbolizzare un Amore gratuito e vivificante e la figura paterna permette di inferire a livello di attività simbolica, un Padre che è Legge, ma insieme Ideale e Promessa di sviluppo della personalità”: M. Aletti, La religiosità del bambino. Approccio psicopedagogico per insegnanti di religione e catechisti, Elle Di Ci, Leumann – Torino 1993, p. 56; cfr. anche pp. 57-58; G. Milanesi – M. Aletti, Psicologia della religione, pp. 101-120.

[19] Cfr. H. Carrier, Psico-sociologia dell’appartenenza religiosa, Elle Di Ci, Leumann – Torino 1988, pp. 91-104.

[20] A. M. Bontempi, L’educazione religiosa del bambino, in “Via Verità e Vita” 41 (1992) 139, p. 28.

[21] A. M. Bontempi, L’educazione religiosa del bambino, p. 29. Cfr. l’interessante rassegna di D. Heller, Il Dio dei bambini. Indagine scientifica sull’idea di Dio in bambini di diverse religioni, Elle Di Ci, Leumann – Torino 1991.

[22] H. Lubienska de Lenval, Il silenzio all’ombra della parola, Paoline, Catania 1958, p. 46.

[23] Cfr. A. Napoleoni, Grandi come bambini. Per una teologia pastorale dell’infanzia, Elle Di Ci, Leumann – Torino 1998.

[24] Il nuovo catechismo olandese. Annuncio della fede agli uomini di oggi, Elle Di Ci, Leumann – Torino 1973, p. 464.