N.04
Luglio/Agosto 2000

Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite!

Lo sviluppo della religiosità nel bambino non avviene spontaneamente e immediatamente, ma come parte integrante di un progetto educativo globale. La Parola di Dio, le Istituzioni, la cultura, la pedagogia, gli adulti, influiscono fortemente sui bambini così che le condizioni di vita dei piccoli rivelano la filosofia di vita dei grandi. È soprattutto la famiglia che tiene in mano le sorti dell’infanzia.  Il bambino sarà domani quello che la famiglia oggi è.

 

Quale progetto educativo?

L’interrogativo si pone ad ogni livello, ma diventa impegnativo, inquietante, quando lo si riferisce ai bambini entro i primi sei anni di vita, età preziosa, in quanto il bambino inizia dei basilari processi d’apprendimento, edifica premesse indispensabili alla realizzazione piena della personalità umana, ancora pressoché intatta nel suo potenziale e nella sua originalità. La crescita affettiva, motiva-zionale e sociale, influisce significativamente sullo sviluppo della religiosità.

A tale proposito così recita il Catechismo dei Bambini al n. 144: “Ogni famiglia scrive una pagina della storia universale dell’umanità: con il suo modo di vivere, accogliere ed educare le persone, lancia messaggi ed influisce sulla vita di altri”.

Concepire un figlio è donargli l’esistenza per se stesso: egli proviene dalla vita dei genitori, irrompe nella loro vita e si affida alle loro mani. Il figlio è dono, risorsa, compito, talvolta non senza problemi. Occorre fargli spazio nel cuore prima che nella casa. I nove mesi che il bambino trascorre nel grembo della madre sono importanti e delicati per il suo futuro, per i molteplici scambi vitali di reciprocità che intercorrono tra loro, che possono dare serenità e fiducia o inquietudine e sfiducia. Il bambino deve sentirsi atteso e desiderato. 

Quando poi questo bambino atteso e desiderato viene alla luce, si manifesta in tutta la sua originalità personale e nella sua identità vocazionale, è “chiamato a diventare cultore e custode della creazione e costruttore del Regno di Dio”. È questa la sua fondamentale dignità. Tutto quello che sarà dopo, egli già lo possiede. Dio Padre e Creatore gli ha dato tutto quanto lui ha di bisogno.

È un dato acquisito che i primi anni di vita sono decisivi per la strutturazione della personalità, per l’autostima e per lo sviluppo integrale e armonico del bambino.  Pertanto i genitori e poi gli educatori (docenti-catechisti) sono chiamati ad educare i bambini a scoprire i doni che il Signore ha seminato nel loro cuore (vocazione) per realizzare il progetto divino. Nella prima infanzia questi doni vanno stimolati ed il bambino va aiutato a riconoscerli, a valorizzarli perché la sua personalità, nella dimensione individuale, sociale e religiosa, si sviluppi armonicamente. La finalità principale è far apprendere al bambino che è voluto ed amato, e quindi deve accogliere ed amare.

Il bambino abbozza le sue prime rappresentazioni di Dio alla luce della sua relazione con i genitori, dalla loro fede e dalla risposta totale al dono della vocazione ricevuta. Il sentirsi figlio naturale, voluto e amato, gli fa percepire un Dio che lui capirà soltanto se gli verrà presentato come Padre; vivrà, allora, la sua religiosità come figlio di Dio, amato dal Padre e chiamato a rendere presente nella sua vita quest’amore paterno di Dio. Quanto è importante, nel bambino, il sentirsi chiamato per nome, il sentirsi parte integrante di una famiglia, di una comunità, lui assieme ad altri, chiamati pure loro.

L’essere chiamato gli dà la possibilità di una risposta, di sentirsi presente, di strutturarsi nella totalità del suo essere, di formarsi un’identità, una personalità anche attraverso la relazione di reciprocità con gli altri. Tale totalità comprende l’essere figlio di Dio e l’essere fratello di tutti gli uomini. Non si tratta di dare al bambino buone “abitudini”, ma piuttosto di favorire lo sviluppo delle potenzialità di fede e di amore che permettono alla vita di sbocciare. Attraverso la comunicazione e il dialogo, il bambino scopre che tutte le sue gioie nascono dal vivere la vita con gli altri. Egli prende coscienza che ha bisogno di loro e progressivamente impara a conoscere la gioia, la tristezza, la fatica, la tenerezza, l’entusiasmo su se stesso e sul volto dell’altro. In questo modo il delicato rapporto di relazione, che si tesse giorno per giorno, favorisce in lui l’equilibrio e la serenità di fronte alla vita; lui ha bisogno degli altri, ma pure gli altri hanno bisogno di lui. Ogni relazione interpersonale positiva dà la possibilità al bambino di sentire la vicinanza di Dio Padre e di sperimentare nel concreto che il Signore Gesù lo ama ed affida a lui qualcosa da fare. Solo dove c’è amore c’è vita, c’è possibilità di crescita e di maturazione umana. Il bambino compie i primi passi sulla via dell’amore ed anche della rinuncia di sé per amore dell’altro se da questi si sente amato.  Constata che in tale dimensione la rinuncia non lo priva della gioia di cui è avido. Se l’adulto gli permetterà di vivere relazioni felici in un ambiente umano rassicurante e stabile, il bambino potrà rafforzare il proprio equilibrio psico-fisico.

Attraverso i piccoli fatti della vita quotidiana, egli scopre che la gioia profonda è quella che gli viene dagli altri e che nasce dalla relazione positiva che riesce a stabilire con essi e che lui esprime con tutto il suo essere, corpo e psiche. La gioia di fidarsi, la dipendenza gratificante e rassicurante, il senso di fiducia e di ottimismo, maturati sin dalla prima infanzia, sono risorse che il bambino impiega nell’aprirsi e nell’affidarsi serenamente a Dio, sentendosi pure lui riconosciuto come un valore.

La gioia di scoprire la meraviglia, lo stupore, svela al bambino la presenza di Dio nascosta nella natura, nelle persone, negli avvenimenti. La gioia di appartenere porta il bambino all’essere figlio, consolidandone l’identità, il suo ruolo nella famiglia e nella società. Il vissuto che lo circonda, improntato a tenerezza, rispetto, donazione, accoglienza, è la prima e incisiva forma di educazione all’amore.

 

Lasciate che vengano a me!

È giusto ritenere che i bambini debbano prima diventare giovani per conoscere, scegliere Dio o per testimoniare l’amore di Dio? Non è mai troppo presto il tempo per fare il primo annuncio di Gesù ai bambini.  A volte i genitori, prima da soli e poi con gli educatori in generale (parrocchia – scuola) pensano che i bambini siano troppo piccoli per capire chi è Dio, ma non dimentichiamo che è proprio attorno ai due anni che il bambino si pone tanti perché, che comincia a chiedersi: è vero o è finto?…

Egli crede, ha bisogno di credere, ha bisogno d’affermazioni che gli precisino il significato degli avvenimenti, della realtà: a quest’età il bambino non è capace di intuire, ha bisogno di cose concrete, anche se si rifugia in un mondo fantastico e magico. Per lui tutto esiste anche se viene pensato. Da ciò deriva l’importanza di fargli vivere esperienze concrete ed equilibrate. Un’avvertenza educativa può consistere nel fatto di proporre al bambino la scoperta di quanto vi è di bello, di buono, di vero intorno a lui e dentro di lui.

Data la sincerità spontanea propria di quest’età – il bambino è capace di vivere solo il momento presente -, lo si deve aiutare a cogliere il bene che è in lui e attorno a lui, in quel momento preciso della sua vita.  Solo così egli continuerà a mantenere viva la fiducia in se stesso e negli altri, comincerà a sentirsi sempre più vicino a Gesù che viene nella sua vita. Sin dal primo approccio è importante raccontare Gesù non come una favola tra tante, ma come un rendere presente la sua persona, una tra le tante che sono vicino a lui, che gli vuole bene, e che con lui desidera camminare.

Raccontiamo il Vangelo e tutto quello che Gesù ha detto ed ha fatto. Presentiamogli l’atteggiamento dell’accoglienza di qualunque persona, l’attenzione ai bisogni dell’altro, qualunque bisogno: dal far continuare la festa procurando il vino al moltiplicare il pane per non far tornare indietro la folla affamata; dal voler premiare Zaccheo che l’ha cercato andando a casa sua, al prendersi cura del poveretto incappato nei ladroni; dal cercare la pecorella smarrita e poi far festa con gli amici, all’attendere ed accogliere quel figlio che voleva fare a meno di lui… Quante volte i miei bambini, a scuola, mi hanno chiesto: “Maestra, raccontaci Gesù!”.

Certo non si può dimenticare che, attraverso il racconto, ogni bambino incontrerà Gesù a modo suo, ma rimane importante il fatto che il bambino lo senta come una persona che lo ama, come una presenza benevola nella sua vita. Ricordiamo, però, che il bambino spesso coglie più il nostro atteggiamento, il nostro entusiasmo, la nostra fede nel parlare di Gesù, che le nostre parole. Il racconto avrà “eco” nei bambini solo se sappiamo ricrearlo in termini di vita.

È importante che egli senta lo sguardo paterno di Dio e l’amore di Gesù attraverso il nostro sguardo e il nostro amore per Lui. Moltissimo dipende dall’esempio di vita che dà l’educatore. Non illudersi sulla possibilità di comunicare un messaggio, se esso non ci sta a cuore e nel cuore. “La trasmissione della Buona Novella cristiana si attua in termini di vita e sempre in tali termini germinerà e maturerà in chi l’accoglie, la vita nuova di Dio”[1]

Nessuna pedagogia può immaginare ciò che si svilupperà in una persona dagli stimoli che riceve. Il messaggio cristiano è messaggio d’amore, è annuncio liberante, che valorizza l’uomo e lo aiuta a trovare la sua vera identità. Per questo può essergli trasmesso, anche se siamo consapevoli che il bambino lo percepirà solamente in quanto la sua capacità intuitiva è legata al concreto, all’intensità emotiva con cui egli partecipa e vive la propria esperienza di vita. È un terreno delicato quello in cui ci muoviamo: non è facile promuovere lo schiudersi di un genere di vita la cui estensione sfugge alle nostre capacità percettive. L’umiltà, la consapevolezza dei nostri limiti umani, deve quindi accompagnare l’azione educativa e la preghiera deve diventare parte integrante della nostra attività d’educatori.

 

Non glielo impedite

L’impedimento da parte degli adulti è molteplice. S’impedisce di andare a Gesù e di scoprire il suo amore:

– quando non si risponde alle loro domande su Gesù e si tace, magari di proposito, pensando erroneamente che sono “troppo piccoli” per capire l’amore che Dio ha verso di loro;

– quando gli si nega il diritto di attingere alla novità di Cristo;

– quando non gli viene permesso di accedere alla scoperta dell’unità ed alla qualità delle relazioni che le persone adulte, che credono in Cristo, non tessono attorno a lui;

– quando non gli si permette di sperimentare in modo concreto l’amore e la fratellanza. Solo così il bambino capirà che andare verso Gesù è andare verso l’altro così come l’altro è, perché si sentirà amato ed accolto così come egli è. In questo senso la famiglia, la comunità cristiana, la scuola, sono e rimangono punti di riferimento importanti in rapporto all’educazione religiosa del bambino in quanto gli permettono di scoprire la serenità e l’amore nel cammino quotidiano verso il suo dover essere;

– quando non si promuovono in lui sentimenti di rispetto per tutto quanto lo circonda, perché possa scoprire Dio Creatore e Padre;

– quando i grandi con il loro stile di vita li circondano di “valori” che offendono la dignità umana e il Vangelo.

L’impedimento di cui parla il brano evangelico può di fatto sconfinare nello “scandalo” per cui “sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina” (Mt 18,6). Come Gesù anche le bambine e i bambini devono crescere in età, sapienza e grazia davanti a Dio e agli uomini.

 

Note

[1] A. M. Bontempi, L’educazione religiosa del bambino, La Scuola, pag. 103.