N.06
Novembre/Dicembre 2000

Il simbolismo biblico della luce e la sua valenza vocazionale

Il tema della “luce” rappresenta una categoria centrale della rivelazione biblica. La scelta di collocare in questa prospettiva la realtà della vocazione e la sua dinamica esistenziale consente di poter leggere l’intera esperienza dell’uomo “chiamato da Dio” nel ricco quadro del simbolismo della luce assunto in prima persona da Gesù. Indicheremo quattro aspetti relativi al rapporto tra vocazione e luce, due per l’Antico Testamento e due per il Nuovo Testamento[1]

1. La “luce” come manifestazione dell’appello di Dio; 

2. La “luce” come dono di Dio; 

3. Cristo compie la sua missione “luce del mondo”;

4. I credenti, figli della “luce” e discepoli di Cristo[2].

 

La “luce” come manifestazione dell’appello di Dio

La prima esperienza che l’uomo fa è quella del passaggio cosmico della notte e del giorno, atto costitutivo della creazione (Gn 1,3). La creazione si spalanca davanti ai nostri occhi richiamando il passaggio dalla notte al giorno come un avvicendarsi e quasi un rincorrersi tra vita e morte, luce e tenebra. Così nella riflessione salmica è presentata l’esperienza della vita e della storia cosmica: “Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia” (Sal 19,3; 148,3: sole e luna). La luce esiste come creatura di Dio ed obbedisce al suo comando (Bar 3,33). Nell’Oriente antico la luce era considerata un elemento di Dio stesso. Similmente nell’Antico Testamento la manifestazione di Dio nel cosmo e nella storia è accompagnata da teofanie nelle quali prevale l’elemento luminoso, simbolo della presenza misteriosa e della potenza salvifica di Jhwh. Tuttavia la stessa narrazione della creazione mostra come Dio si pone al di sopra del dualismo tra luce e tenebre (Is 45,79: io formo la luce e le tenebre…). Si può quindi affermare che la luce è il riflesso della gloria di Dio, è come la veste di cui egli si copre (Sal 104,2) [3], “…il suo splendore è come la luce, bagliori di folgore escono dalle sue mani: raggi escono dalle sue mani” (Ab 3,4). Lo splendore della gloria divina si rivela come “manifestazione di un progetto”. Luce e vocazione sono quindi intimamente uniti dal simbolismo teofanico. 

Dio si rivela ad Abramo, nel contesto della celebrazione dell’alleanza, come “forno ardente e fiaccola fumante”, che passa tra gli animali divisi e li consuma, realizzando così il patto con il patriarca (Gn 15,17-21). Nella vita di Mosè le teofanie diventano un vero e proprio incontro “vocazionale” a più tappe: all’esordio della sua missione l’angelo di Dio si presenta a Mosè nell’esperienza del roveto ardente (Es 3,1-6), durante il cammino del deserto la presenza di Jhwh si manifesta attraverso la colonna di nube e di fuoco (Es 13,21;14,24; Nm 14,14)[4], al Sinai l’incontro con Dio si svolge nel contesto misterioso di una nube luminosa che spinge Mosè a domandare la “visione della gloria” (Es 33,18). Lo splendore della gloria divina brillerà sul volto del Legislatore a tal punto che Mosè dovrà velarsi per comunicare con il popolo (Es 34,29-30)[5]. Anche nell’esperienza dei profeti la rivelazione divina si compie nel simbolismo della luce e del fuoco (cfr. la simbologia dei racconti di vocazione in Is 6: la gloria luminosa di Jhwh nel tempio; Ez 2-3: la visione del carro di fuoco). All’interno dell’esperienza profetica spicca la presentazione della figura del messia descritta mediante un simbolismo luminoso e la sua venuta è vista come “giorno di grande luce” per il popolo che camminava nelle tenebre (Is 8,22-9,1). In modo più esplicito nel libro della Sapienza si afferma come la sapienza (hoqmâh) è Dio stesso nella sua gloria, che riflette la luce eterna, superiore ogni altra luce cosmica: “Essa in realtà è più bella del sole e supera ogni costellazione di astri; paragonata alla luce, risulta superiore; a questa, infatti, succede la notte, ma contro la sapienza la malvagità non può prevalere” (Sap 7,29-30). Dio nel suo manifestarsi illumina e coinvolge il cosmo e i singoli personaggi nell’avventura della chiamata. La luce va intesa quindi come aspetto essenziale del simbolismo vocazionale: luce e vocazione appartengono al mistero di Dio che si rivela e si compie nella storia[6].

 

La “luce” come dono di Dio

Un secondo aspetto presente nell’Antico Testamento riguarda il “dono” della luce per l’umanità. A partire dall’atto creativo e dalla descrizione della settimana cosmica che culmina con il giorno sabbatico (Gn 1,1-2,4) la luce non è solo espressione comunicativa dell’opera della creazione di cui segna la temporalità, ma costituisce uno dei doni vitali degli uomini. Infatti essa caratterizza la vita naturale (Sal 38,11; 56,14) e spirituale del mondo (Sal 37,6; 97,11; 112,4) voluto dall’Onnipotente e l’uomo accogliendo questo dono diviene partecipe della luce divina (Sal 36,10: “È in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce”). Tale dono implica la possibilità per ciascun uomo di riflettere e godere della luce della divinità divenuta familiare, significata soprattutto dalla metafora del volto[7]. Benché Dio non sia un uomo (Nm 23,19) e nessuna creatura possa dare un’idea della sua gloria (Is 40,18; 46,5), nella sua volontà di comunicarsi si immagina che Egli possa esprimere un suo volto, nelle diverse circostanze benevolo (Sal 4,7; 80,4.8.20) o talvolta adirato (Is 54,8; Sal 30,8; 104,29). Nella rilettura antropologica il volto è lo specchio del cuore e di conseguenza la luce del volto di Jhwh riflette la stessa natura misteriosa e trascendente di Dio. In questo senso la metafora del “desiderio del volto di Dio” rivela la perenne tensione che giace nel cuore umano di relazionarsi con il mistero del Trascendente: “Di te ha detto il mio cuore: cercate il suo volto; il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo” (Sal 27, 4-5)[8]. Tuttavia vedere il volto luminoso di Dio è un’esperienza mortalmente temibile per l’uomo (Gdc 13,22) a motivo del suo peccato (Is 6,5; Sal 51,13s.); così quando Mosè chiede sul monte di poter contemplarne la gloria (kabôd), gli viene concesso di vedere la luce gloriosa di Jhwh solo di spalle (Es 33,18-23). Tale simbologia è applicata all’esperienza vocazionale della sequela: desiderare di vedere il volto di Jhwh significa imparare a seguirlo dovunque egli ci vorrà condurre9

Un’ulteriore applicazione della luce intesa come dono di Jhwh è costituito dalla Legge (torâh) considerata “lampada”[10]  per i credenti: con il dono della sua legge l’Altissimo rischiara i passi dell’uomo (Pr 6,23; Sal 119,105), lo guida sicuro in mezzo alle tenebre (Gb 29,3), illumina i suoi occhi e lo salva dai pericoli (Sal 13,4; 27,1)[11]. La Legge di Dio, garanzia di alleanza e di libertà, illuminerà tutti i popoli che camminano nelle tenebre (Is 2,5; 60,3), secondo l’oracolo profetico: “Ascoltatemi attenti, o popoli; nazioni, porgetemi l’orecchio. Poiché da me uscirà la legge, il mio diritto sarà luce dei popoli” (Is 51,4). Il dinamismo simbolico della luce è applicato in modo particolare alla dimensione escatologica e al giudizio finale, che annuncia l’arrivo dell’alba sulla nuova Gerusalemme (Is 60,1ss.), quando nel giorno meraviglioso splenderà il sole di giustizia (Is 30,26; Mal 3,20) e Dio stesso illuminerà i credenti (Is 60,19s.; Bar 5,9). 

Senza dubbio la figura veterotestamentaria più significativa per la sua prospettiva vocazionale collegata al simbolismo della luce è quella del “servo sofferente di Jhwh”, il quale riceve il mandato di annunciare il dono della salvezza, della giustizia e della pace messianica a tutti i popoli (Is 42,6; 49,6). La vocazione come “luce della vita” trova una delle più profonde applicazioni nella vicenda dell’anonimo personaggio biblico che dona se stesso per la salvezza del suo popolo, diventando “luce delle nazioni”. I quattro carmi del servo sofferente indicano la parabola esistenziale e teologica della vocazione: nel primo carme si presenta il momento della chiamata e dell’elezione-unzione del servo da parte di Dio (Is 42,1-4); nel secondo viene descritta la missione universale del chiamato (Is 49,1-6); nel terzo carme il servo sarà sottoposto al giudizio e alla prova degli uomini, di fronte ai quali dovrà testimoniare la sua fedeltà a Dio (Is 50, 4-9); nel quarto carme viene delineato l’esito della sua missione che consiste nel dono totale della vita in riscatto per il suo popolo (Is 52,13-53,12), ma “dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità” (Is 53,11). Il simbolismo della luce è qui strettamente congiunto con l’esistenza messianica del servo e con il compimento fedele del progetto di Dio[12]. L’immagine escatologica della luce è infine collegata al giudizio finale secondo il quale gli empi entreranno nelle tenebre eterne, mentre i giusti godranno della piena luce (Sap 3,7, 18,1-4; Dn 12,3). In questa prospettiva il dono escatologico della luce diventa premio eterno per coloro che sono fedeli alla volontà di Dio e partecipano alla realizzazione della salvezza.

 

Cristo compie la sua missione come “luce del mondo”

Le premesse teologiche e i simbolismi indicati nel percorso dell’Antico Testamento permettono di comprendere il valore simbolico della luce che Gesù applica a se stesso in modo particolare nel quarto vangelo[13]: “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12) [14]. L’affermazione è composta di due frasi: la prima “Io sono la luce del mondo” costituisce l’autopresentazione del Signore che richiama la formula del nome di Dio (Es 3,14) e il suo contesto teofanico, evocando la ricchezza simbolica della relazione tra Dio-luce e il mondo (phôs-kosmos)[15]. La seconda parte della rivelazione: “chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” indica, nella doppia forma negativa e positiva, la condizione del credente che si pone alla sequela del Cristo: l’accoglienza della “luce della vita”. In questo secondo passaggio si coglie un’ulteriore relazione che definisce lo stato esistenziale della vocazione del cristiano: seguire Gesù significa entrare in relazione con il mistero di luce e di vita. L’evangelista ha già anticipato questi temi nel prologo, dove presenta l’incarnazione del Figlio e la sua venuta nel “mondo” come dono di vita e di luce che splende nelle “tenebre” (Gv 1, 4-5)[16]

La combinazione luce-vita applicata alla missione di Cristo e ai discepoli si ritrova ancora nel decorso narrativo giovanneo con un’espressione quasi simile, rivolta ai giudei increduli di Gerusalemme: “Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre” (Gv 12, 46). In questo importante testo il rapporto tra Gesù-luce con il mondo viene a coincidere con quello tra la sua missione e l’umanità, dove il discepolo che decide si seguirlo rappresenta la figura di ogni credente. Nello stesso contesto, in alcuni versetti prima si ritrova l’accenno alla luce con i medesimi termini (camminare/credere/tenebre): “Gesù allora disse loro: ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare figli della luce” (Gv 12,35-36). Ugualmente le espressioni sulla luce ritornano in Gv 9,5: “Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo”; nel dialogo con Nicodemo, per presentare la missione salvifica del Figlio: “…il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio” (Gv 3,19-20); nella decisione di recarsi in Giudea nonostante la minaccia di morte che incombeva su Gesù: “Gesù rispose: Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se invece uno cammina di notte, inciampa, perché gli manca la luce” (Gv 11,9-10)[17]. Dall’analisi dei testi giovannei evocati risulta chiaro il messaggio inteso nell’affermazione del Cristo, collocato nell’apertura del dibattito con i farisei a Gerusalemme. Egli si rivela con le stesse prerogative di Dio come Figlio unigenito e pone come unica condizione agli uomini che desiderano partecipare alla sua vita, la necessità di “diventare discepoli”, figli della luce. È evidente come la categoria della luce, assunta in tutta la sua ricchezza veterotestamentaria dall’evangelista Giovanni, viene impiegata dal Signore per esprimere il valore fondamentale della vocazione dei credenti[18]. Un ulteriore sviluppo dell’applicazione della categoria della luce è dato dalla manifestazione dello Spirito Santo per indicare l’intervento di Dio nella storia della salvezza[19].

Anche nei vangeli sinottici le immagini associate con la luce vengono riprese dal Signore per significare il valore della sua missione di rivelare i misteri di Dio all’umanità. Così nei racconti delle guarigioni di ciechi (Mc 8,22-26: cieco di Betsaida; Mc 10,46-52: cieco di Gerico [e paralleli]; Gv 9,1- 41: cieco di Gerusalemme)[20]  si coglie la ricchezza del simbolismo messianico nella relazione liberazione-schiavitù con il binomio luce-tenebre, applicato alla missione stessa del Cristo[21]: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore” (Lc 4,18-19, cfr. Is 61,1-2; Lc 7,22, cfr. Is 35,5-6)[22]. Inoltre la metafora della lampada che porta la luce a tutta la casa in Lc 11,33 è applicata a Gesù, rivelatore del Padre, mentre in Mc 4,21 (Lc 8,16) è usata per spiegare le ragioni del metodo parabolico della predicazione del Cristo: dare luce a quanti nella fede si pongono in ascolto della Parola di salvezza. In modo tutto particolare il simbolismo della luce nell’episodio della trasfigurazione trova un’eccezionale applicazione cristologica, che collega attraverso gli aspetti della scena e l’apparizione dei personaggi il mondo simbolico dell’AT con l’evento pasquale della risurrezione, dove la luce e la vita sono elementi costitutivi dell’evento cristiano e del suo messaggio universale di salvezza[23]. Così nella scena pasquale il compimento della missione di Cristo viene descritto in tutta la sua luminosità (Mt 28,3), che riflette la gloria del Dio e la vittoria della vita sulla morte tenebrosa. In questa prospettiva la riflessione ecclesiale designerà il senso dell’evento pasquale: nel volto del Cristo risorto si riflette la gloria del Padre (2Cor 4,6; Eb 1,3), la cui luce radiosa è apparsa a Paolo sulla strada di Damasco per chiamarlo alla sequela (At 9,2; 22,6; 26,13). In definitiva Gesù risorto apre all’umanità la “dimora di Dio in una luce inaccessibile” (1Tm 6,16) e conferma con la sua missione nel mondo la rilevazione del mistero di Dio: “Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che ora vi annunziamo: Dio è luce e in lui non ci sono tenebre. Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato” (1Gv 1,5-7).

 

I credenti, figli della “luce” e discepoli di Cristo

Un quarto passaggio è rappresentato dalle conseguenze che il messaggio cristiano provoca nella vita e nelle scelte dei credenti. Appare chiaro che nel simbolismo della luce si colloca la proposta rivolta all’uomo e alla sua coscienza: l’appello a mettere in gioco la propria vita sulla decisione di fronte all’alternativa tra la luce e le tenebre. La luce qualifica il “regno di Dio” rivelato e compiuto in Cristo come regno di giustizia e di bene, mentre le tenebre simboleggiano il male e l’empietà derivanti dal potere satanico (cfr. 2Cor 11,14), così come l’Apostolo si esprime rivolgendosi ai corinzi: “Non lasciatevi legare al giogo estraneo degli infedeli. Quale rapporto infatti ci può essere tra la giustizia e l’iniquità, o quale unione tra la luce e le tenebre? Quale intesa tra Cristo e Beliar, o quale collaborazione tra un fedele e un infedele?” (2Cor 6,14-15). L’espressione paolina pone la scelta cristiana di fronte ad un’antitesi: giustizia/iniquità, luce/tenebre, Cristo/Beliar, fedele/infedele, indicando quale identità dovrà caratterizzare la prassi del credente in Cristo. È Gesù stesso nel vangelo a definire i credenti come “figli della luce” (Lc 16,18) che si distinguono per la loro fedeltà dai “figli delle tenebre” e dalla loro scaltrezza[24]. La comunità cristiana è chiamata a realizzare la “santità” di Dio stesso, il quale ha voluto “strappare” gli uomini dal dominio delle tenebre per renderli partecipi della sua luce meravigliosa (1Pt 2,9). Paolo esprime mirabilmente il progetto del Padre sui credenti: “ringraziando con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio amato, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati” (Col 1,12-13). In definitiva la vocazione dei credenti “alla luce” è un atto gratuito di Dio che si riceve fin dal momento del battesimo, in cui gli uomini illuminati da Cristo risorto (Eb 6,4) sperimentano di non essere più nelle tenebre, ma sentono di essere chiamati a vivere come “figli della luce” (Ef 5,8; cfr. 1Ts 5,5). I discepoli di Cristo sono uomini dalla esistenza interiore luminosa, capaci di rigettare le opere delle tenebre e di rivestire le armi della luce (Rm 13,12), consapevoli della preziosità della comunione con Dio in Cristo Gesù, mediante il vincolo della carità. L’appello di Paolo agli efesini rimane un modello di vita per i discepoli del Signore: “Se un tempo eravate tenebra, ora siete  luce nel  Signore. Comportatevi  perciò come i figli  della  luce; il frutto della luce consiste in ogni  bontà,  giustizia e verità. Cercate ciò che è gradito  al  Signore, e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre,  ma piuttosto condannatele apertamente, poiché di quanto viene fatto da costoro in segreto è vergognoso perfino parlare. Tutte queste cose che vengono apertamente condannate sono rivelate dalla luce, perché tutto quello  che  si  manifesta  è  luce” (Ef  5,8-13).  Il discernimento tra i figli della luce e quelli delle tenebre non può che passare attraverso il criterio della comunione con Dio e con i fratelli (1Gv 2,8-11), da cui si riconosce se si è nelle tenebre o nella luce. I credenti divenuti discepoli del Risorto riflettono la luce divina di cui sono resi depositari e in quanto tali sono chiamato a vivere la stessa missione del Cristo come “luce del mondo” (Mt 5,14).

Per ultimo l’esito della vocazione cristiana segnata dalla virtù della speranza, si compirà nello splendore del regno dei giusti (Mt 13,43), dove nella Gerusalemme celeste, splendente della gloria divina (Ap 21,23). Gli eletti contempleranno il volto di Dio, totalmente illuminati dalla sua intramontabile luce, secondo la profezia dell’Apocalisse: “vedranno la sua faccia e porteranno il suo nome sulla fronte. Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli” (Ap 22,4-5)[25].

 

Conclusione

L’analisi condotta ha offerto una lettura progressiva del messaggio vocazionale contenuto nel simbolismo della luce. Si ricava una doppia considerazione che si può applicare alla rivelazione biblica della luce: da una parte essa si caratterizza per la sua circolarità, che inizia con l’atto della creazione ed ha il suo epilogo nel compimento escatologico; dall’altra essa trova la sua massima concentrazione nell’applicazione cristologica, con l’autorivelazione di Gesù “luce del mondo”. In entrambe le applicazioni il simbolismo della luce appare fortemente connesso con la riflessione vocazionale. Ciascun credente è chiamato, fin dalla sua nascita, a “venire alla luce” come un progetto da realizzare; nel corso della sua esistenza l’uomo si schiude ad un discernimento che si concretizza in un “vedere la luce”; il fine ultimo della sua esistenza sarà quello di “vivere nella luce”. In definitiva a partire dall’atto creativo di Dio, attraverso i personaggi dell’AT, scopriamo in Cristo la rivelazione piena e definitiva della luce, che siamo chiamati ad accogliere nella nostra vita secondo il progetto del padre in vista della speranza che si compirà nella Gerusalemme del cielo.

 

 

 

Note

[1] Seguiamo l’itinerario proposto da Feuillet A. –  Grelot P., Luce e tenebre, in Léon-Dufour X (ed.), Dizionario di Teologia Biblica, Torino 1976, 617-624. Per l’approfondimento della categoria della “luce” e del suo impiego letterario, cfr. Conzelmann H., “phôs”, in GLNT, XV, 361-492; Saeb, “‘or”, in Jenni E. – Westermann C. (edd.), Dizionario teologico dell’Antico Testamento, I., Torino 1978, 74-79;  Gironi P. , Luce-tenebre, in Rossano P.-Ravasi G. – Girlanda A. (edd.), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello Balsamo (MI) 1988, 857-863.

[2] Cfr. l’uso del simbolismo della luce associato alla definizione di Dio nel Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano 1993, 214; 234; 242; 257; 299; 1704; 2684.

[3] Per la simbologia evocata dal testo salmico, cfr. Ravasi  G., Il libro dei salmi, III, Bologna 1986, 79-129.

[4] Cfr. Gdc 20,38; Ne 9,12.19; Ct 3,6; Sap 18,3; Ap 10,1.

[5] Cfr. la rilettura paolina del “volto luminoso di Mosè” in  2Cor 3,7s.

[6] Riportiamo una parte della Benedizione talmudica rivolta a Jhwh, “colui che crea la luce”: “Benedetto Tu, Signore Dio nostro, Re del mondo, che formi la luce e crei le tenebre; fai la pace e crei ogni cosa. Tu illumini la terra e coloro che vi abitano. Tu rinnovi ogni giorno, sempre, l’opera della creazione…” (Cavalletti S. (ed.), Talmud. Il trattato delle benedizioni (Religioni e miti 11), Torino 1992, 438).

[7] Cfr. Gils F. – Guillet J., Faccia, in Léon-Dufour X., Dizionario di Teologia Biblica, 367-369; Lurker M., Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Cinisello Balsamo (MI) 21994, 325-326.

[8] Cfr. anche Am 5,4; Sal 42,3; 105,4.

[9] Così commenta il testo di Es 33 Gregorio Nisseno: “Seguire uno significa vederlo di dietro. Così Mosè che ardeva dal desiderio di vedere la faccia di Dio, impara come si vede Dio: seguire Dio dovunque egli conduca, questo stesso è vedere Dio” (cfr. Gils F. – Guillet J., Faccia, 369).

[10] Al tema della luce si associa il simbolo biblico della lampada, che indica da una parte la presenza e l’assistenza di Jhwh nei riguardi del suo popolo (2Sam 2,29) e in altri testi la vita umana come atto di fedeltà e dono di Dio (1Re 11,36; 15,4; 2Re 8,19: lampada, simbolo della discendenza), cfr. Brunon J.B., Lampada, in Léon-Dufour X. (ed.), Dizionario di Teologia Biblica, 579-580.

[11] L’importanza della relazione tra Luce e Torâh  è richiamata nella letteratura giudaica, in Filone Alessandrino e nella comunità di Qumran, cfr. Conzelmann H., “phôs”, in GLNT, XV, 398-415.

[12] Per una rilettura della tematica del “giusto sofferente” attraverso alcuni personaggi biblici, cfr. PSV 34 (1996), 3-255.

[13] Cfr. Lurker M., Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, 114-115;  Stemberger G., La simbolica del bene e del male, Roma 1982; Dodd C. H., L’interpretazione del quarto vangelo, Brescia 1974, 425-451.

[14] Circa l’impiego dell’espressione “Io sono” (egô eimi) nel quarto vangelo occorre evidenziare un doppio uso della formula: in modo assoluto (Gv 8,24.28.58; 13,19) e accompagnata da un predicato in forma nominale. Nell’uso nominale dell’espressione si individuano sette designazioni che definiscono simbolicamente l’identità del Cristo giovanneo: 1. Io sono il pane della vita (Gv 6,35.41.48.51); 2. Io sono la luce del mondo (Gv 8,12; 9,5); 3. Io sono la porta delle pecore (Gv 10,7.9); 4. Io sono il buon Pastore (Gv 10,11.14); 5. Io sono la risurrezione e la vita (Gv 11,25); 6. Io sono la via, la verità e la vita (Gv 16,4); 7. Io sono la risurrezione e la vita (Gv 15,1.5), cfr. Brown R.E., Giovanni, 1482-1489.

[15] Cfr. Brown R.E., Giovanni, Assisi 1986, 440-449; Zevini G., Vangelo secondo Giovanni, I, Roma 21989, 265-270; Fabris R., Giovanni, Roma 1992, 507-510.

[16] Cfr. De la Potterie I., Studi di cristologia giovannea, Genova  21986, 31-57.

[17] In corrispondenza del tema della luce occorre accennare al ruolo simbolico della “notte” (cfr. Gv 3,2; 9,4; 11,10; 13,30; 19,39), che trova nella letteratura biblica un’ampia attestazione di significati, cfr. Feuillet R. – Léon-Dufour X., Notte, in Léon-Dufour X. (ed.), Dizionario di Teologia Biblica, 769-773.

[18] Cfr. Panimolle S.A., Lettura pastorale del vangelo di Giovanni, II, Bologna 1980, 350-370.

[19] “La nube e la luce. Questi due simboli sono inseparabili nelle manifestazioni dello Spirito Santo. Fin dalle teofanie dell’Antico Testamento, la Nube, ora oscura, ora luminosa, rivela il Dio vivente e salvatore, velando la trascendenza della sua Gloria: con Mosè sul monte Sinai, [Cfr. Es 24,15-18 ] presso la Tenda del Convegno [Cfr. Es 33,9-10 ] e durante il cammino nel deserto; [Cfr. Es 40,36-38; 697 1Cor 10,1-2 ] con Salomone al momento della dedicazione del Tempio [Cfr. 1Re 8,10-12 ]. Ora, queste figure sono portate a compimento da Cristo nello Spirito Santo. È questi che scende sulla Vergine Maria e su di lei stende la “sua ombra”, affinché ella concepisca e dia alla luce Gesù [Cfr. Lc 1,35 ]. Sulla montagna della Trasfigurazione è lui che viene nella nube che avvolge Gesù, Mosè e Elia, Pietro, Giacomo e Giovanni, e “dalla nube” esce una voce che dice: “Questi è il mio Figlio, l’eletto; ascoltatelo” ( Lc 9,34-35 ). Infine, è la stessa Nube che sottrae Gesù allo sguardo dei discepoli il giorno dell’Ascensione [Cfr. At 1,9] e che lo rivelerà Figlio dell’uomo nella sua gloria il giorno della sua venuta” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 697).

[20] Raccomandiamo la rilettura “vocazionale” di Mc 10,46-52 proposta da Dupont J., Il cieco di Gerico riacquista la vista e segue Gesù, in PSV  2 (1980), 105-123.

[21] L’argomento della potenza messianica applicata alle guarigioni dei ciechi è usato in Gv 10,21; 11,37.

[22] Cfr. gli altri passi dell’AT collegati al tema della cecità, Sal 146,8; Is 29,18; 32,3; 35,5; 42,7; Bar 6,36.

[23] Nella trasfigurazione sono presenti i segni tipici delle teofanie dell’AT (monte, nube, luce, voce dal cielo, vesti, tenda, ecc.) unitamente all’associazione delle due figure prestigiose di Mosè ed Elia. Rinviamo l’analisi dei particolari a Fabris R., Matteo, Roma 1982, 366-370; Grasso S., Il vangelo di Matteo, Roma 1995, 420-425.

[24] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, 736; 1216;  1695.

[25] Cfr. Gangemi A., La Gerusalemme celeste nell’Apocalisse di S. Giovanni, in PSV  28 (1993), 231-266.