Come annunciare la vocazione all’amore verginale attraverso l’esperienza dei “grandi chiamati”
Parlare di “vocazione all’amore verginale” nell’esperienza esistenziale dei grandi chiamati della S. Scrittura, ha senso in modo esplicito per le figure significative del Nuovo Testamento: Maria, Giovanni il Battista, Gesù, Paolo. Parlarne in particolare per personaggi dell’Antico Testamento potrebbe sembrare paradossale, e in un certo senso lo è. Infatti, l’A.T. non conosce e non può conoscere l’amore cosiddetto “verginale”. Tutto, infatti, vi si muove all’interno del mantenimento e del compimento dell’ordine creato, con attenzione privilegiata alla trasmissione del dono della vita. Se la benedizione di Dio, essendo una parola significativamente efficace, è feconda di vita per gli animali, esseri viventi, molto di più in riferimento alla coppia umana, creata per riproporre nel creato l’immagine e somiglianza di Dio, essa dice la potenza della trasmissione della vita, arricchita della dignità particolare che l’uomo e la donna, in dialogo con Dio e tra di loro, veicolano. Così la nuzialità e la fecondità nel procreare esprimono la partecipazione al mistero stesso di Dio e l’opera umana nel mondo si fa tramite della presenza regale di Dio e fa sì che si diffondano ordine e armonia su tutta la realtà creata.
In tale ottica, è impossibile rivisitare l’esperienza di fede dei grandi chiamati dell’A.T. come testimonianza di un amore “verginale”, che implichi, cioè, un superamento della condizione sponsale, all’interno della quale vivere e trasmettere la benedizione della vita come frutto privilegiato. Questo spiega anche la drammaticità con cui l’A.T. vive la sterilità. Ma, considerando l’Antico Testamento come profezia piena del Nuovo, pur nella parzialità di una rivelazione che va progressivamente diventando sempre più chiara e soltanto con il Nuovo Testamento trova unitario senso compiuto, è possibile – e direi lecito – cercare quelle costanti che poi troveranno adeguato dispiegarsi nella radicalità con cui Gesù appella il discepolo alla sequela.
LA TOTALITÀ
La strada maestra da percorrere è coniugare insieme la benedizione e la fecondità della vita con l’accoglienza piena della parola di Dio. Tutta la Scrittura, infatti, si apre con un parlare di Dio per dieci volte – come poi dieci saranno le parole del Decalogo – che pone ordine negli elementi caotici, determinando il passaggio dalla confusione e dall’indeterminatezza del caos alla bellezza del cosmo, e chiama all’esistenza le cose che non sono. È dunque l’accoglienza della parola di Dio che fa scaturire tutta la creazione.
Sempre sull’accoglienza e sul rifiuto della parola di Dio si gioca il dramma della prima coppia. Il rapporto tra Dio e i progenitori è mediato da una parola di Dio che mira alla salvaguardia della vita dell’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti” (Gn 2,16). Ugualmente, la frattura della relazione con Dio consiste fondamentalmente nella mancata accoglienza della sua parola e nelle sue ovvie conseguenze di passaggio dalla vita alla morte.
Ora, questo racconto pone alle origini la verità del difficile rapporto con la parola di Dio che Israele come popolo è stato chiamato a realizzare. Un testo fondamentale, Dt 6,4-9, il cosiddetto shemac, viene a testimoniarci il valore imprescindibile dell’accoglienza della parola di Dio per la fede di Israele per il suo relazionarsi con Dio: “Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte”.
Israele come comunità è rinviato all’ascolto come sua realtà costitutiva. Su tale base ecco i termini della relazione: da una parte, Dio si rivela come unico, uno solo, assoluto; dall’altra, Israele è tenuto a rispondere con un amore che pervada tutte le componenti della realtà umana: cuore, anima, forze. Questa triplice scansione altro non vuole sottolineare se non la totalità della risposta necessaria a un Dio simile, che si dona come: “nostro Dio”. Ma questo amore non è un sentimento vago e irrazionale: è mediato dalla custodia delle “parole” nel “cuore”. Il cuore è dunque la sede privilegiata per operare la sintesi dell’accoglienza del dono e della risposta. Dal cuore parte il movimento totalizzante che coinvolge tutto Israele e ogni Israelita nella fedeltà a quel Dio che, essendo unico e uno solo, come tale si pone in relazione.
A tale unicità di Dio può corrispondere soltanto la totalità dell’uomo. Nei versi citati questa totalità viene ad essere significata da elementi che si collocano alle estremità contrapposte dell’esperienza umana, per indicare con questa figura letteraria (che si chiama “merismo”) tutta la realtà inglobata all’interno dei due poli menzionati. In questo caso: vita familiare e sociale (seduti in casa-camminare per via); durata della giornata (coricare-alzare); attività dell’uomo: esecutività e progettazione (mano-occhi); sfera del privato e del pubblico (casa-porte). Tutta la vita del singolo e della comunità, tutto lo spazio e tutto il tempo sono chiamati ad esprimere il senso della totalità della risposta, nell’accoglienza delle “parole”. Questo brano ci servirà da specchio: vi potremo riflettere l’esperienza di alcuni “grandi chiamati”. Infatti l’esigenza di rispondere con la totalità a Dio che si rivela è la maniera in cui l’Antico Testamento pone le premesse più valide e più solide per quella radicalità che la comunità cristiana definirà poi “vocazione all’amore verginale”. Inoltre, è sempre il Deuteronomio c. 30,15-20 a legare la benedizione, la longevità e la vita all’osservanza e alla custodia delle parole di Dio, che sono il modo di “amarlo” e di rendere possibile l’attuarsi delle promesse divine ai Patriarchi.
I PATRIARCHI
In questa prospettiva può apparire stimolante rivisitare le grandi figure patriarcali. Si tratta di personaggi molto lontani da noi per contesto storico e culturale, eppure i cicli che li riguardano – poiché parola di Dio che continua a parlare a noi oggi – contengono non pochi spunti interessanti. Noi assumiamo questi racconti nella forma in cui ci sono stati tramandati, cercando di cogliere proprio nello snodarsi degli eventi narratici quel filo rosso che costituisce il messaggio attuale per noi, all’inizio del terzo millennio.
Una premessa tuttavia occorre farla. I cosiddetti “cicli” dei Patriarchi non intendono presentarci in modo organico e compiuto la descrizione degli episodi più importanti della loro vita. Invece testimoniano, con racconti tramandati ed elaborati in tempi differenziati e custoditi in ambienti diversi per tradizioni e prospettive teologiche, l’esperienza di fede da loro fatta in alcune circostanze della loro vita, con la consapevolezza che quanto si è verificato nella vita di un Patriarca è portatore di senso per tutti i suoi discendenti. In lui si trovano così ad avere già vissuto quella particolare esperienza, che poi troverà modo di attuarsi più distesamente nel proprio tempo e nella propria realtà culturale. Leggere i Patriarchi è ancora una volta andare alle origini, dunque, è riandare al senso stesso della propria esperienza di fede vissuta, è attingere ad un patrimonio di fede già in qualche modo posseduto, per trovare la maniera adatta di vivere nell’oggi la risposta di fede al Dio, che rimane il Dio dei Padri. Se così non fosse non avrebbe senso per noi oggi riandare a queste pagine e riflettere sulla testimonianza di fede da esse offerta.
Abramo
Il Ciclo di Abramo abbraccia i cc. Gn 12,1-25,10. Secondo le indicazioni date dalla maniera in cui il racconto biblico si svolge, Dio si rende presente nella normalità dell’esistenza di Abramo, nelle sue vicende, tipiche della realtà dei seminomadi, nel momento in cui una svolta oggettiva si sta compiendo: è morto Terach, padre di Abramo e tocca adesso a lui prendere il posto di capo-clan (cfr. Gn 11,27-32).
Dio incontra Abramo e parla con lui, proponendogli di scommettere su di lui e sulla sua parola: Il Signore disse ad Abram: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò, farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gn 12,1-3).
L’incontro con Dio che gli parla determina una svolta sostanziale nella vita di Abramo: lo inserisce attivamente nel dispiegarsi della storia della salvezza. La sua è una chiamata a realizzare la benedizione, perduta in Adamo – se inseriamo la vicenda patriarcale nella continuità con i primi 11 capitoli del Genesi – una benedizione, secondo una delle letture possibili del testo, che implica pienezza di vita per sé e per tutti quelli che si relazioneranno con lui in maniera positiva. L’adesione piena a Dio che viene incontro si traduce in obbedienza alla parola da Lui pronunciata. Implica un distacco e una separazione da una situazione precedente, in vista di una novità di vita. Diventa accoglienza della forza creatrice della parola e luogo in cui essa realizza la sua fecondità: per questo porta con sé, quasi come suo sbocco necessario, la promessa di una discendenza numerosa. Ma, ancora, la realizzazione dialogica dell’incontro implica una fedeltà continua che si protende in avanti verso il futuro, perché la prospettiva che si apre allo sguardo di Abramo è molto ampia e non immediatamente realizzabile: divenire benedizione per tutte le famiglie della terra.
Il rapporto con Dio è dunque costituito dalla relazione impostata sulla parola e la sua accoglienza fedele. La vocazione, inoltre, si manifesta subito orientata ad una missione che supera il singolo individuo per proiettarsi verso una molteplicità non ben definita e quindi molto ampia. In questo contesto assume particolare rilevanza la dimensione della fraternità. Gn 13,2 dice : “Abram era molto ricco in bestiame, argento e oro”; Gn 13,5-6 continua: “Ma anche Lot, che andava con Abram aveva greggi e armenti e tende. Il territorio non consentiva che abitassero insieme, perché avevano beni troppo grandi e non potevano abitare insieme”; cosicché Gn 13,8 conclude: “Abram disse a Lot: Non vi sia discordia tra te e me, tra i miei mandriani e i tuoi, perché noi siamo fratelli”.
L’incontro “totalizzante” con Dio sembra aver spogliato Abramo di ogni pretesa umana e averlo proteso verso l’altro. Di fronte all’abbondanza e ricchezza della terra, preferisce il valore della pace e dell’armonia con Lot. Il valore della fraternità viene dunque vissuto come preponderante nell’ottica della relazione con Dio e della benedizione conseguente. Lot, che si è unito ad Abramo nel condividerne il cammino, deve essere il primo a beneficiare della benedizione, della fecondità e dell’abbondanza. L’accoglienza piena della parola di Dio conduce all’accoglienza del fratello che condivide il cammino, riconosciuto come dono di Dio; all’assunzione delle sue esigenze vitali, nel rispetto dell’armonia, valore fondamentale all’interno dei vincoli di sangue, anche quando questo genera tensioni e difficoltà.
La “mitezza” si presenta come il risvolto “sociale”, “comunitario”, dell’obbedienza a Dio e alla sua parola; significa farsi carico della solidarietà fraterna, mettendosi concretamente in gioco. Infatti, quando Lot sarà nel bisogno, perché fatto prigioniero in una guerra di conquista (14,14-16), Abramo organizzerà una spedizione punitiva e recupererà il prigioniero e i suoi beni.
Abramo pare inoltre non vantare smodate pretese su quello che pure dovrebbe considerare il dono promesso da Dio: la terra. Il suo è un atteggiamento che si sarebbe tentati di definire “da povero”: a Melchisedek, re di Salem, che lo benedice nel nome di Dio Altissimo, Abramo paga la decima di tutto (cfr. Gn 14,18-20). Riconosce così nei fatti una realtà fondamentale: la terra gli è stata promessa da Dio, ma solo Dio ne è il vero proprietario: egli è suo ospite e come tale si ritiene vincolato a esprimere la sua condizione proprio versando la decima a chi si fa tramite della benedizione divina. L’offerta si fa segno e riconoscimento della benedizione ricevuta e ricambiata. L’atteggiamento di “povertà” (cfr. ancora Gn 14,21-24 in cui emerge il singolare comportamento di Abramo che non intende avvalersi dei diritti – pur leciti – di conquista) si radica nella fiducia che da Dio solo egli otterrà ogni bene e ogni abbondanza. Non è dunque un “farsi povero”, ma è un fidarsi della parola di Dio che realizzerà la sua fecondità e la sua prosperità, con ogni abbondanza.
Nel prosieguo della narrazione biblica, il rapporto tra Dio ed Abramo si radicalizza con l’alleanza unilaterale che Dio stipula con il patriarca (cfr. Gn 15): questa unilateralità sta ad enfatizzare la gratuità e la fedeltà di Dio. Esse impegnano Abramo al contraccambio in un momento della sua vita in cui corrispondere alla fedeltà di Dio sembra più difficile, anche più incomprensibile il suo modo di procedere. Infatti è problematica la maniera in cui si scioglierà il nodo della discendenza, vista la difficoltà oggettiva della sterilità di Sara. Le complesse vicende che conducono alla nascita di Ismaele da Agar, schiava di Sara (cfr. Gn 16), stanno a testimoniare un momento di crisi, un “incrinamento” nel cammino di fede di Abramo, quanto mai significativo, tuttavia, per l’esperienza di fede di ogni credente: la difficoltà umana ad assumere in modo incondizionato la gratuità e fedeltà divine. È difficile aspettare e rispettare i tempi di Dio. Abramo e Sara si inducono a ritenere che forse egli vuole che ci si dia da fare per aiutarlo a sbloccare la situazioni che sembra impantanata.
Ma Dio rivendica il suo indiscusso protagonismo nella conduzione della storia della salvezza. Abramo e Sara sono una coppia sterile e per di più avanti negli anni. Il figlio della promessa nascerà da loro, perché deve portare in sé, indelebile, l’impronta del dono di Dio. È dunque un figlio umanamente impossibile, frutto della parola di Dio, che ripetutamente ne annuncia la nascita, e della sua potenza di vita. Egli sarà Isacco: “Dio sorride”. Tutta la nascita di Isacco è costellata dal riso: prima ride Abramo (17,17), poi ride Sara (18,12-15). Isacco è motivo di riso e di sorriso, è il sorriso della misericordia di Dio che si china sul niente dell’uomo. Abramo e Sara tuttavia dicono la fatica tutta umana di vivere solo del “sorriso di Dio”.
Isacco è colui a causa del quale è messa sempre a dura prova la fede di Abramo. Innanzi tutto, nella sua nascita. Ma se in tale occasione la fede di Abramo è ancora troppo poco incline alla fiducia totale, non così sarà al momento della richiesta dell’offerta di Isacco. Approfittando di un probabile interrogarsi di Abramo circa la convenienza di offrire in sacrificio alla divinità protettrice il figlio della promessa – come pare fosse in uso per i primogeniti presso i Cananei – Dio mette alla prova Abramo. Tutto Gn 22 è costruito su questo motivo della prova, dal punto di vista teologico. Nell’ottica del dono, Abramo non si tira indietro. La sua fede adesso giganteggia. Nella sua maturazione essa è ormai fiducia cieca nel Dio che provvede, che sorride, che elargisce con generosità e fedeltà il suo dono. Nel racconto biblico Abramo non vacilla. Questo diventerà la forza della sua fede per tutte le generazioni di credenti, fino a noi (cfr. Rm 4,18-25; Gal 3,6-9).
Il cammino nella fede e di fede ha condotto via via Abramo alla percezione che tutto è puro dono. Isacco, puro dono nel suo nascere, diventa nella sua esistenza dono continuamente rinnovato e dato da Dio, che non sottrae il suo sorriso. Sembra a questo punto che la vita del grande Patriarca non abbia più dati significativi da offrire: ormai la sua vita è consegnata interamente a Dio; appare totalmente arreso e diventa quindi testimone muto della sua fedeltà, pur morendo nel possesso appena embrionale delle promesse: con pochi figli e una porzione di terra, solo come sepolcro (cfr. Gn 23,20; 25,10). La piena realizzazione della promessa di Dio è al di là dell’esperienza umana.
I dati emergenti da questo excursus sull’esperienza di fede di Abramo che tracciano, come paletti indicatori, un percorso verso l’adesione a Dio, nell’accoglienza piena della sua parola e quindi con un atteggiamento che prelude all’amore verginale sono: disponibilità a Dio che apre il dialogo; disponibilità all’accoglienza della sua parola, nell’obbedienza; apertura alla fede nella speranza; atteggiamento di “povertà”, inteso come distacco da una logica di accaparramento e di accumulo di beni; “povertà” come consapevolezza del proprio essere stranieri ed ospiti, pur se beneficiari dei doni di Dio; “mitezza”, come solidarietà fraterna nell’assunzione dell’esigenze dell’altro, dono di Dio lungo il cammino; apertura al riconoscimento del primato di Dio sul tempo, sullo spazio e sui suoi stessi doni; crescita e maturazione nell’accoglienza del “sorriso di Dio”; fede matura: credere ciecamente e solo alla parola di Dio, rimettendosi nelle sue mani senza riserve, sapendo che tutto è dono, che Egli non sottrae il suo sorriso, ma anche che la realizzazione piena delle promesse va al di là della singola esperienza umana e si apre all’universalità della benedizione.
Giacobbe
La figura di Isacco, sfumata in sé, crea un collegamento ideale tra Abramo e Giacobbe. Come Abramo, anche Giacobbe – che poi si chiamerà Israele e con lui si identificherà l’intero popolo di Dio – è un punto di riferimento decisivo per la storia e l’identità dei credenti. Anche la nascita di Giacobbe, assieme al suo gemello Esaù, si inscrive nell’alveo dell’impotenza umana e del dono della vita che appartiene a Dio solo: infatti Rebecca sua madre viene all’inizio presentata come sterile (cfr. Gn 25,21).
La fraternità è difficile per i due gemelli fin dal seno materno (cfr. 25,22: “Ora i figli si urtavano nel suo seno ed essa esclamò: se è così perché questo?”), e fin da allora si presagisce la sorte dei due che veicolano con sé le sorti di due popoli (cfr. 25,23: “Il Signore le rispose: Due nazioni sono nel tuo seno e due popoli dal tuo grembo si disperderanno; un popolo sarà più forte dell’altro e il maggiore servirà il più piccolo”). La scelta di Dio si posa su colui che – per le concezioni del tempo – è il minore, e dunque non conta nulla, perché non è tramite della benedizione, appannaggio del primogenito. Le scelte di Dio sono assolutamente libere ed anche immotivate. Giacobbe non è migliore di Esaù e tutto la dinamica del racconto lo dimostra in pieno. Non sono dunque i meriti personali ad essere presi in considerazione, ma la libertà di Dio testimonia la sua assoluta gratuità nell’elargire i suoi doni.
Così Giacobbe, l’imbroglione, il “soppiantatore”, diventa portatore delle promesse di Dio. All’inizio Giacobbe “carpisce” con l’inganno la benedizione ad Isacco: è la furbizia umana che si ritiene più efficace delle vie di Dio, in questo caso vie “naturali”, legate alla condizione della nascita.
Ma, nonostante la sua furbizia – o forse proprio per essa – Giacobbe deve lasciare la terra. Anche se in maniera indiretta, diventare depositario della benedizione lo pone immediatamente in una condizione di pellegrino ed esule. Ma nel suo pellegrinare Giacobbe incontra il Dio di suo padre Abramo e di suo padre Isacco. A Betel Giacobbe fa l’esperienza personale e diretta di Dio e viene posto nel solco della benedizione e delle promesse ai padri. Ciò dice la fedeltà di Dio, nonostante la pochezza dell’uomo e la protervia dei suoi mezzi. Ma il cammino della benedizione è lungo e Dio compie la sua opera inserendosi nelle tortuosità dell’esistenza dell’uomo, a volte determinate dallo stesso agire umano. La lontananza dalla terra diventa per Giacobbe una palestra di vita, in attesa del compimento delle vie del Signore. Il Signore sembra un po’ defilarsi, tranne che per il prosperare di Giacobbe, anche questo considerato dono divino.
Ma c’è un momento in cui le esigenze dell’essere tramite della benedizione fanno irruzione, con tutto il loro carico di urgenza. Giacobbe, per comando divino, deve tornare nella sua terra di provenienza (31,3). Ancora una volta, l’obbedienza alla parola rende pellegrini, quando già ci si era acclimatati in un altro luogo e in un altro ambiente. A questa esigenza Giacobbe obbedisce, ma la parola lo mette di fronte alle sue responsabilità: tornare nella terra significa affrontare le conseguenze della propria meschinità, affrontare l’ira di Esaù che aveva giurato vendetta, fino all’ultimo sangue.
Anche Giacobbe obbedisce alla parola. Contrariamente ad Abramo, di Giacobbe si sottolinea però la grande paura, tutta umana, di fronte alle esigenze della obbedienza al Dio che gli si fa incontro (cfr. 32,1-22 specialmente vv. 8.12). Ecco, dunque, emergere il rapporto estremamente conflittuale tra le esigenze della assoluta obbedienza a Dio e al suo progetto, che ci vuole co-protagonisti, e la consapevolezza dolorosa del proprio limite, che rende impossibile vivere la parola di Dio con le sole nostre forze. Fino a questo momento Giacobbe ha in qualche modo pianificato lo scorrere degli eventi; anche adesso cerca di mettere in atto tutte le risorse della sua intelligenza per sventare il pericolo mortale rappresentato da Esaù, ma non sono le sue capacità a risolvere positivamente la paura e la situazione. La parola di Dio lo ha messo davanti alla sua verità: egli è uno che ha soppiantato il fratello, rubandogli con l’inganno il ruolo primario nella trasmissione della benedizione paterna. Al suo attivo ha solo l’astuzia, ma ora è consapevole che essa è ben poca cosa. Di fronte alla verità subentra la paura, sintomo della reale percezione della povertà umana di fronte alle esigenze di Dio, ma anche espressione di una difficoltà a smettere di continuare a confidare nella propria abilità.
Così Giacobbe deve lottare e lottare da solo. Fa passare tutti e poi affronta da solo il combattimento con il fantasma proiettato dalla sua angoscia: l’ordine di Dio di tornare in terra e di affrontare il vendicativo Esaù. Il fantasma assume concretezza, ed egli lotta con Dio e con gli uomini: con la parola di Dio che si concretizza nella necessità di incontrare il fratello temuto.
La lotta di Giacobbe, in Gn 32, 23-33, è uno dei capolavori letterari, teologici e mistici di tutti i tempi, fondamentale per l’esperienza di ogni chiamato ad un servizio particolare. È una lotta atipica, a bella posta significata dal suo accadere nella notte e dal suo snodarsi dalle tenebre, all’aurora, alla luce del sole.
È una lotta in cui Giacobbe di fatto soccombe: è colpito all’articolazione dell’anca e quindi non può più stare in piedi; ma continua a lottare, trascinando l’altro in una specie di corpo a corpo. È costretto a confessare il suo nome: Giacobbe, il “soppiantatore”, conferma del suo trovarsi alla mercé del vincitore, del suo essere ormai costretto a guardare in faccia la spiacevolezza della sua verità e a confessarla apertamente. Eppure il racconto lo designa come un vincitore. In che cosa allora vince? Nell’ottenere la benedizione. Alla fine del combattimento non è più colui che ha estorto con l’imbroglio la benedizione, non è più “Giacobbe”; ottiene il nome nuovo, segno del suo rapporto obbediente con Dio, segno dell’aver saputo riconoscere e accettare infine la povertà dei mezzi derivati dalla sua furbizia; segno dell’avere ottenuto da Dio stesso la benedizione. Allo spuntare della luce Giacobbe è un uomo nuovo, segnato per sempre dal suo lottare con Dio, depositario della benedizione, frutto della sua lotta corpo a corpo con Dio e con gli uomini, liberato dal suo peccato e capace di essere padre di un popolo che si chiamerà come lui: Israele, come lui popolo sempre in lotta tra le esigenze della fedeltà a Dio e la propria paura umana; popolo che non ha al suo attivo nessuna dote umana di cui vantarsi (cfr. Dt 7,7-8), ma solo la benedizione di Dio che lo assiste continuamente.
Il progetto di Dio spingerà ancora Giacobbe a farsi pellegrino: infine scenderà in Egitto, dove morirà circondato dai suoi figli ma lontano dalla terra della promessa, sorta di anticipazione di morte/speranza di resurrezione (cfr. Gn 46-49). Come Abramo, anche Giacobbe muore nella speranza che la sua discendenza erediterà la terra, affidandosi alla parola di Dio che compirà la promessa, anche se in un tempo che egli non vedrà personalmente, ma solo nei suoi discendenti.
Anche a proposito dell’esperienza di fede di Giacobbe si possono cogliere dati interessanti che si aggiungono a quelli precedentemente osservati per Abramo e arricchiscono le indicazioni per un orientamento all’amore verginale: le scelte di Dio sono assolutamente libere ed anche immotivate; non tengono conto dei meriti umani; diventare depositari e tramiti della benedizione, nell’obbedienza sempre nuova alla parola di Dio, pone sempre e ripetutamente in una condizione di pellegrini ed esuli; l’obbedienza incondizionata alla parola di Dio conduce ad una lotta incessante con Dio, che continuamente spinge al superamento della paura connessa con la consapevolezza del proprio limite creaturale; arrendersi totalmente a Dio significa diventare vincitori, uomini nuovi segnati per sempre dal contatto personale con Dio, trasmettitori di novità di vita; vivere di e nella fede vuol dire assumere fino in fondo il mistero di morte/ resurrezione nella speranza.
Giuseppe
All’interno della storia di Giacobbe si inserisce, quasi come un approfondimento, la storia di Giuseppe, in Gn 37-50. È un racconto molto diverso dalle storie patriarcali che l’hanno preceduto, ma che aggiunge un ulteriore tassello nel cammino verso l’approfondimento del rapporto totalizzante con Dio. La presentazione letteraria, una storia eminentemente di stampo sapienziale, dipinge Giuseppe come il perfetto sapiente, il personaggio ideale. Anch’egli non è il primogenito, e ciò ribadisce l’assoluta libertà della scelta di Dio. Inoltre, con l’insistenza sui suoi sogni – elementi esoterici considerati nella Scrittura sempre veicolo di rivelazione soprannaturale – la sua appare fin dalle prime battute come una chiamata a realizzare un progetto che umanamente lo trascende e si inserisce nel mistero della volontà di Dio (cfr. Gn 37).
Infatti, dopo i primi momenti in cui il ragazzo viene presentato con i tratti del figlio prediletto e viziato, Giuseppe campeggia nella sua fede senza scosse e senza incertezze. Affronta le situazioni peggiori: tradimento dei fratelli; perdita della libertà; calunnia e infamia; prigione; dimenticanza di coloro cui ha fatto del bene. Eppure si dice sempre che Dio fu con lui in tutte queste traversie (cfr. 39,21), e soprattutto mai ci viene presentato un momento di scoraggiamento, o soltanto di smarrimento. Giuseppe non sembra lamentarsi mai; sembra confidare imperterrito in Dio, perfettamente consapevole che Dio agisce nella sua storia personale anche quando non se ne percepisce la grandiosità; che sta realizzando il suo progetto a favore dell’intero suo popolo, anche servendosi di gente pagana. La sua è una visione di fede radicale, che va immediatamente oltre ogni possibile apparenza, oltre ogni percezione limitata dell’esperienza di Dio e si proietta in una fiducia cieca e incondizionata, testimonianza della capacità di un cuore sapiente di custodire le tracce, a volte invisibili, della presenza di Dio e trasformare in lettura positiva e benedizione per i fratelli i frutti amari di tutte le difficoltà esistenziali.
Solo in Dio la fede. Solo in Dio la speranza. Egli realizzerà tutte le sue promesse al tempo opportuno. Tale visione di fede fa superare a Giuseppe il rancore e il giudizio verso l’oggettivo peccato dei fratelli e gli apre il cuore all’accoglienza, alla comprensione, al perdono. Questi sono i frutti del saper vivere tutta la propria vita nell’ottica della donazione a Dio e ai fratelli, i frutti di un’esistenza completamente pacificata nel dono di sé a Dio e agli altri.
La frase riassuntiva di tutta l’esperienza di fede di Giuseppe è Gn 50,20: “Se voi avevate pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso”.
Sembra di sentire riecheggiare altre parole, quelle di Paolo apostolo ai Romani 8,28: “Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno”. Anche l’esistenza di Giuseppe si conclude lontano dalla terra, in Egitto, ma nella certezza che il Signore interverrà positivamente nella vita della discendenza di suo padre Giacobbe per portare a compimento tutte le promesse. Soltanto le sue ossa torneranno in terra di Canaan con la generazione dell’esodo (cfr. Es 13,19).
Conclusione
Possiamo far nostre a questo punto le parole di Eb 11,13.16: “Nella fede morirono tutti costoro, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli veduti e salutati da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra… Per questo Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio”. E possiamo ancora concludere sulla testimonianza dei Padri, che essi ci sono maestri nella radicalità della fede, della speranza e della carità, pur nella consapevolezza di portare e vivere questi tesori nella fragilità creaturale di vasi di creta.
Essi ci indicano un cammino in cui le esigenze della fedeltà al rapporto con Dio, spesso mediato dalla sua parola, vengono anteposte ad ogni altra realtà; in cui l’obbedienza totale al Dio che si rivela diventa l’unica guida attraverso le difficoltà dell’esistenza e attraverso le crisi inevitabili nel processo stesso di maturazione e di affinamento della fede e dell’incontro personale con Dio.
Ancora, essi ci mostrano già nella loro esperienza concreta che l’incontro personale con Dio, e l’essere inseriti nel suo progetto di salvezza, ha sempre una connotazione comunitaria, a vantaggio di tutto quanto il popolo di Dio, con accenti talvolta addirittura più ampi. Ci additano, insomma, una vita interamente e integralmente donata a Dio per i fratelli. È questo il loro messaggio più significativo, dai connotati anticipatori del messaggio neotestamentario.
LA VOCAZIONE DI GEREMIA
Ci sia lecito aggiungere, alla presentazione di queste figure patriarcali, una delle pagine più conosciute e amate dell’Antico Testamento, quasi come l’offerta di una sorta di calco vuoto che possa facilmente tratteggiare e contenere i lineamenti essenziali di tutti i grandi chiamati: il racconto della cosiddetta “vocazione” di Geremia (cfr. Ger 1,4-19). Si tratta della codificazione scritta di un’esperienza “tipica”, e quindi capace di significare tutte le più grandi esperienze di vocazione: i Patriarchi su cui ci si è soffermati, ma anche tanti altri e soprattutto il grande Mosè. Non a caso le due figure di Mosè e Geremia sono presentate nella S. Scrittura in modo speculare, pur nella loro differenza ed entrambe additano il loro compimento in Cristo. La vita di entrambi è totalmente segnata dalla presenza divorante della parola di Dio e delle sue esigenze, fin dal seno materno. Lo stesso si può dire per altri personaggi quali il profeta anonimo di Is 49,1-6, il Battista (cfr. Lc 1), Paolo (cfr. Gal 1,15-17). Sulla loro scia, ognuno è legittimato ad inserirvi anche la propria vicenda personale di “chiamato” ed “inviato”.
Molto si potrebbe e dovrebbe dire, con rigore esegetico, su questo cosiddetto “racconto della vocazione” di Geremia. Qui ci limiteremo soltanto a sottolineare quei dati portanti che consentono quella riflessione ad ampio raggio di cui si è detto. Innanzitutto Geremia è, nell’A.T., l’unico vero esempio concreto di “celibato” per richiesta del Signore (cfr. Ger 16,1-9), ma resta difficile collocare questa sua peculiarità nella prospettiva dell’amore verginale, perché rimane figlio del suo tempo e soprattutto di quell’impostazione antropo-teologica presentata all’inizio di questa relazione. La condizione di Geremia è piuttosto un segno della grande sventura che si abbatterà su tutto il popolo: meglio non avere moglie e figli perché sono destinati a morte straziante. Eppure, in modo molto implicito e larvato, anche questa particolare realtà di celibato si inscrive nella fedeltà alla relazione con Dio e nella obbedienza alla sua parola ed ha valore in quanto segno per tutto il popolo.
Ma più importante per il nostro tema è la sottolineatura del rapporto intimo e speciale di Geremia con la parola di Dio. In Ger 1,4 la Parola fa irruzione con tutta la sua soggettualità. Si dovrebbe infatti tradurre: “E fu la Parola di Dio su Geremia”. La Parola è un evento che “accade” nell’esistenza di qualcuno, un Qualcuno che si fa presente, che diventa la nostra storia, inserendoci nella storia di salvezza, come d’altra parte si è già osservato a proposito dei Patriarchi. “Prima di formarti nel grembo materno ti ho conosciuto; prima che tu uscissi alla luce ti ho consacrato; profeta alle genti ti ho dato” (Ger 1,5).
La parola di Dio rivela all’uomo la sua verità. Non è una verità che si aggiunge alla verità dell’essere umano, quasi giustapponendosi ad essa, ma è l’unica verità che costituisce l’uomo e determina la sua piena identità. Potremmo dire dunque che, alla luce di queste parole bibliche, il cosiddetto “momento della vocazione” altro non è se non il momento in cui la propria verità costitutiva viene ad essere esplicitata e posta davanti ai propri occhi. Il rapporto tra Dio e il suo chiamato, “ti ho conosciuto”, è infatti primordiale, originario, precedente il momento stesso del venire al mondo: presiede allo stesso formarsi dell’uomo nel seno materno. Precede perfino la relazione viscerale del bimbo con la madre. È un “prima” assoluto. Si comprende così ogni esigenza derivata da questa conoscenza così intima, che ha quasi diritto ad avere delle pretese pure nei confronti di coloro che hanno generato fisicamente. Si illumina a questa luce il detto di Gesù: “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me” (Mt 10,37).
Anche la “consacrazione” è costitutiva ed originaria. Nel linguaggio dell’A.T. “consacrare” significa “essere messo a parte, essere attratto nella sfera di un rapporto privilegiato con Dio, per un servizio da compiere verso tutto quanto il popolo di Dio”. Qualunque consacrazione equivale ad una missione nei riguardi dell’intera comunità dei credenti, dell’intero popolo di Dio, perché si realizzi sempre più e sempre meglio la realtà di comunione del popolo con Dio: “profeta alle genti ti ho dato (donato)”.
Dunque, la “vocazione” è il momento in cui si manifesta la propria identità all’interno del rapporto con Dio; il momento in cui viene assunta pienamente e in consapevolezza la relazione fondamentale, pronta a trasformarsi in storia, e storia nuova perché segnata dallo svelamento della presenza di Dio. C’è tuttavia un “oggi” che fa da contrasto al “prima che”: è l’oggi in cui si prende coscienza di ciò che da sempre si è, della propria verità originaria, del proprio posto e del significato della propria esistenza inserita all’interno del grande progetto di salvezza di Dio per tutti gli uomini.
Ciò non vanifica le difficoltà e le resistenze: non sempre, o quasi mai, è facile accettare di compiere il cammino autentico verso la realizzazione piena della propria identità personale, in verità e autentica libertà. Per il disegno amorevole di Dio, la vera realizzazione di se stessi coincide con la propria vocazione e missione, nella collaborazione al progetto di Dio sul mondo, in Cristo. Dio non fa violenza, ma spinge incessantemente all’autosuperamento, al compimento dell’uomo vero, “dell’uomo nuovo”, con san Paolo.
Non si eliminano tutte le difficoltà dell’accettazione di una proposta che appare pressare al di là delle possibilità umane. Per questo la reazione di tutti i chiamati è porre ostacoli, resistenze: manifestare la propria paura nell’affrontare un cammino che sembra a volte forzare la natura e si percepisce impari alle capacità limitate dell’uomo e che infatti si può compiere soltanto con la forza che viene dall’alto: “Io sono con te per proteggerti” (Ger 1,8.19). Ma Dio stesso vigila sulla sua parola per compierla, per realizzare il suo progetto (cfr. Ger 1,11). Così nella vita dei grandi chiamati abbondano le difficoltà e le peripezie. Non si è immuni da esse, non si è preservati dall’incomprensione, dal tradimento, dall’abbandono, da ogni tipo di sofferenza. La forza del chiamato consiste in un abbandono senza riserve a Colui che guida la storia della salvezza, a Colui nelle cui mani sta ogni compimento della benedizione e delle promesse. Solo nella certezza che Colui che ci ha da sempre chiamati ed inviati ci precede e ci accompagna nell’amore è possibile vivere le esigenze radicali dell’abbandonarsi senza riserve. L’“oggi” del credente si regge per sempre su quel “prima che”, garanzia assoluta della fedeltà di Dio alla sua parola, anche quando i tempi si fanno difficili e addirittura dolorosi.
Tipologia di una chiamata all’amore verginale è dunque, secondo questa presentazione scritturistica, la disponibilità a lasciarsi invadere, nella propria vita e nella propria persona, dalla totalità della Parola, accogliendola con adesione incondizionata, lasciando che in noi essa produca tutta la sua fecondità e porti i suoi frutti, sia immediatamente percepibili che non percepibili, secondo il grande disegno divino in cui si colloca l’esistenza di tutti i chiamati.
LA COMPIUTEZZA DEL NUOVO TESTAMENTO
La prospettiva paolina ha offerto la trama per la rivisitazione delle figure veterotestamentarie di queste nostre pagine, in modo particolare l’impostazione teologica della Lettera ai Galati. Nella sua polemica contro le pretese salvifiche della legge giudaica, Paolo si riaggancia all’esperienza fondante dei padri, specialmente alla fede di Abramo nella promessa della benedizione a lui fatta da Dio (cfr. Gal 3,6-9). Secondo il sottile argomentare dell’apostolo, un unico filo collega direttamente Abramo e Gesù Cristo: “Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furono fatte le promesse. Non dice la Scrittura: e ai tuoi discendenti, come se si trattasse di molti, ma e alla tua discendenza, come a uno solo, cioè Cristo” (Gal 3,16). In base a questa interpretazione, la benedizione della vita e la promessa della discendenza, ad essa strettamente connessa in modo consequenziale nell’A.T., trovano il loro pieno compimento solo in Cristo. Per altro verso, in questo si raggiunge anche il dato giovanneo: “In principio era il Verbo”… “In lui era la vita” (Gv 1,1.4): la Parola ha in sé la pienezza della vita, ha in sé tutta la forza fecondatrice che genera la vera vita.
Nell’A.T. l’accoglienza della parola di Dio ha via via determinato, nell’esperienza dei grandi chiamati all’interno del popolo di Dio, la trasmissione della benedizione di Dio assieme e nella trasmissione fisica della vita. In quest’ottica, l’anello finale ed anche culminante è Maria, la vergine di Nazaret che, accogliendo totalmente la Parola, ha dato perfetto compimento al significato antropo-teologico della fecondità anticotestamentaria, generando nella sua stessa carne la Parola a cui ha fatto spazio in se stessa: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me secondo la tua parola” (Lc 1,33). Ecco perché Maria è il compimento della fede di Abramo e di tutti i patriarchi; ecco perché Maria è la realizzazione piena e la risposta perfetta della Figlia di Sion, cioè dell’intero popolo di Israele, da sempre e per sempre chiamato a rispondere nella fede con la totalità dell’accoglienza della parola di Dio. Ecco perché Maria non poteva che essere “vergine”, la Vergine, dal momento che ha accolto in sé tutta quanta la fecondità della Parola.
Maria è l’espressione somma della fede del popolo eletto che genera la vita nell’obbedienza alla Parola. Così l’hanno compresa gli stessi evangelisti. Luca pone sulle labbra di Elisabetta, che la saluta, il riconoscimento del compiersi della benedizione nel frutto che porta in grembo: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo” (Lc 1, 42), cui si accompagna una beatitudine significativa: “E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore” (Lc 1,45). Vi fa eco l’episodio riportato in Lc 11,27-28: “Mentre diceva questo, una donna alzò la voce di mezzo alla folla e disse: Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!. Ma egli disse: Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!”.
Questi brani sottolineano quanto siamo venuti dicendo: la benedizione si compie nella vita che è nel grembo di Maria e la sua beatitudine non consiste nella maternità fisica ma nella sua capacità di accoglienza di quella Parola che sola costituisce la pienezza della vita. Le parole di Gesù sono in verità il più grande elogio di Maria, perfetta credente e discepola, grande più per questo che per la sua fecondità sul piano umano.
In Maria avviene dunque la svolta definitiva dall’Antico al Nuovo Testamento nell’apertura all’amore verginale. La prospettiva dell’Antico Testamento ha trovato in lei il suo sbocco naturale, svelando al tempo stesso la sua profonda verità: la fecondità che trasmette la benedizione che genera la vita si trova solo nell’accoglienza sempre più totale di quella stessa Parola che ha in sé la forza di chiamare all’esistenza. La perfetta fecondità è quella della Credente che con tutta se stessa ha accolto la Parola che è Vita e per questo ha fatto sì che assumesse la carne dell’uomo.
Da questo momento in poi l’amore verginale significa porsi nel solco tracciato dai grandi chiamati dell’A.T.; riproporre nell’oggi il compimento in Maria in un continuo incarnarsi della Parola nel mondo, attraverso una dedizione assoluta e radicale di tutto quanto l’essere, nella sua unità psico-fisica e spirituale. L’integrità della persona umana, nella sua unificata totalità, diventa così segno della “nuova creazione”, che ha il suo capostipite nel “nuovo Adamo”. La “nuova” fecondità dell’amore verginale nasce paradossalmente proprio dal superamento della fecondità dell’amore di coppia, perché dice non la semplice trasmissione della vita biologica, ma il progressivo incarnarsi in ogni tempo e in ogni spazio della parola di Dio, Gesù il Cristo, che tutto vivifica con lo Spirito, fino all’avvento definitivo del regno della vera comunione: l’abbraccio del Padre e del Figlio nell’Amore.
Scommettere sull’amore verginale, nel dono senza riserve di sé al Signore che tutto si è donato, nell’apertura radicale alla sua parola, significa credere non solo alla totalità dell’amore sponsale tra Cristo e la sua Chiesa da vivere e testimoniare (cfr. Ap 21,1-2.9; 22,17), ma anche credere ad una fecondità i cui frutti non cadranno mai e dureranno per sempre (cfr. Ap 22,1-2)
Significa, in ultimo, inserirsi a pieno titolo nel dinamismo che prolunga ed attua la preghiera di Gesù: “Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto, questi sanno che tu mi hai mandato. E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e ancora lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro” (Gv 17, 25-26).