I movimenti ecclesiali tra consenso e sfiducia
Additati come l’antidoto alla secolarizzazione, come l’unica via di salvezza dinanzi a una cristianità in crisi, quelli che siamo soliti chiamare i “movimenti” – diversissimi nella nomenclatura e nell’ispirazione – godono antiteticamente di un incondizionato consenso o di altrettanto radicale sfiducia. In verità, il fenomeno non è nuovo. Nella Chiesa i movimenti ci sono sempre stati. Talora sono stati fatti propri dall’istituzione ecclesiale, tal altra ne sono stati o se ne sono posti al margine. Il che ci riconduce alla tensione permanente di istituzione e carisma; alla dialettica permanente tra l’articolarsi strutturato della istituzione e il soffio imprevedibile e gratuito della Spirito. A mio avviso però il nodo non è tanto questo, quanto il respiro universale, “cattolico”, della comunità ecclesiale, che può promuovere o accogliere istanze diverse, comunque ripropositive del suo “mistero”, ma non può, pena la perdita della sua cattolicità, richiudersi o esaurirsi in una “parte” come prevaricazione o disattenzione al “tutto”.
Quali i caratteri dei movimenti?
Innanzitutto la spontanea aggregazione di soggetti, diversi per condizione o cultura, che si ritrovano attorno a una personalità carismatica riconosciuta come leader. Tale aggregazione spontanea può essere anche attivata da un insieme di convinzioni, di idealità, grazie a cui il gruppo si riconosce come portatore di una sua propria identità. Se ciò caratterizza un qualsiasi movimento sotto il profilo sociologico, a fare la differenza, nel caso dei “movimenti ecclesiali” è l’aggregarsi di credenti i quali così si ripropongono approfondimento comunitario della fede, e, soprattutto, la sua traduzione pratica secondo un modello radicale.
Sia che a raccoglierli sia un leader, non importa se chierico o laico, uomo o donna, sia che li unisca un insieme di principi, questo elemento aggregante è sempre interpretato in termini di spiritualità. Detto altrimenti, i movimenti ecclesiali nascono dalla dichiarata volontà di tradurre la fede in modo più autentico. Il che si accompagna ad altrettanto dichiarata presa di distanza dalle modalità ordinarie del vivere la fede, spesso ritenute inautentiche o insufficienti. I movimenti, dunque, se si inseriscono nell’alveo della straordinaria vitalità della Chiesa e ne costituiscono un segno, vogliono altresì farsi interpreti dell’oggettivo disagio che travaglia la cristianità. Il che è evidente a partire da quelli che potremmo additare come i loro caratteri comuni: laicalità, senso vivo e forte della comunità, primato dell’esperienza, integrazione di fede e vita.
Il primo di questi caratteri, l’istanza di laicalità, costituisce il tema obbligato della storia tutta dei movimenti ecclesiali. Solo raramente la loro leadership è stata affidata a chierici. Anche in questo caso, il vero soggetto dei movimenti sono e rimangono i laici. Ciò per la sottesa domanda di vivere da protagonisti la fede, soprattutto mettendo in atto quell’autonomia che distingue, appunto, i laici rispetto ai religiosi e ai chierici. La laicalità dei movimenti manifesta la crescita, “l’emancipazione» dei solamente battezzati, anch’essi membra vive della Chiesa, anch’essi dei portatori di carismi (cfr Lumen gentium 12).
Quanto al senso della comunità, anche questa è una costante. Nessun movimento ecclesiale è mai sfuggito all’utopia del ricondursi alla comunità autentica, alla nostalgia della comunità delle origini, da attualizzare nel presente. Questo senso della comunità chiama anche in causa la dinamica dei rapporti, il vivere all’unisono nel segno della condivisione. Della koinonia i movimenti perseguono non solo l’istanza teologica ma anche quella esperienziale: essere e sentirsi comunione e, dunque, conoscersi, incontrarsi, camminare insieme. Si persegue la comunità come rete esperita di rapporti, come realtà quotidianamente vissuta. Il che è assai importante in un tempo come il nostro bisognoso di punti caldi di appoggio da contrapporre alle tante insicurezze d’indole psicologica, sociale, addirittura religiosa. Questo primato dell’esperienza nella molteplicità delle sue forme si configura spesso secondo moduli enfatici di sentire, vedere, parlare, agire.
Quanto al rinnovato rapporto di fede e vita, la spiritualità dei movimenti assai spesso rischia di tradurlo in chiusura, in integrismo, ora affidandosi a un modello di spiritualismo disincarnato, ora scegliendo la militanza sociale e politica con le asprezze che le sono proprie. Proprio l’enfasi su tutti questi elementi suona quasi come un atto di accusa nei confronti della Chiesa del presente. I movimenti ecclesiali non si ritrovano nelle strettoie delle associazioni tradizionali, ma neppure – e ciò è assai più grave – nelle modalità giuridico-istituzionali del disegnarsi territoriale della Chiesa. Il movimento scavalca facilmente la diocesi, dandosi un respiro tutto suo. La Chiesa del post-concilio, invece, avrebbe dovuto avere un respiro “locale”. È, infatti, nella concretezza del luogo che si manifesta la “cattolica”, la Chiesa nella sua interezza, soprattutto allorché si raccoglie come “assemblea” attorno al suo vescovo per celebrare l’eucaristia (cfr. Sacrosanctum concilium 41; Lumen gentium 13 e 26; Christus dominus 11).
Una Chiesa alternativa?
È indubbio che i movimenti tutti si facciano carico, ciascuno a suo modo, di istanze spirituali negate o di fatto perdute nelle macro-comunità disattente ai bisogni dei singoli, impossibilitate quasi ad assicurare, a tutti e a ciascuno, senso e coscienza ecclesiale. Ma i diversi movimenti hanno talmente radicalizzato i temi e i modelli della loro spiritualità e del loro esserci ecclesiale, da rischiare di configurarsi, quasi, come una Chiesa alternativa. Se occorre recepire le loro esigenze autentiche, la loro coraggiosa denuncia di immobilismo, invisibilità, anonimato, occorre anche pensare la Chiesa come realtà sinfonica che si edifica nella concretezza di un tempo e di un luogo attraverso il riconoscimento dei carismi che sono propri alle stesse singole comunità ecclesiali e alle diverse persone che ne fanno parte, oltre che ai gruppi, alle associazioni e agli stessi movimenti.
A mio parere, insomma, non ci si può unicamente ricondurre – e riconoscersi emotivamente o praticamente – alla visibilità attiva dei movimenti, pur se vanno recepite le istanze di cui sono portatori. Basterebbe pensare a quel gioco al massacro che è la «massa» che i movimenti catalizzano e raccolgono. La folla entusiasta di centinaia di migliaia di appartenenti, magari ricca di vocazioni che le comunità ordinarie non riescono più a produrre, non comporta una certa anestesia delle coscienze, una certa perdita di sé? Che garanzie offre alla Chiesa nel senso forte del termine questo raccogliersi informe? Sono tutte teologali le corde che evoca? E, in ogni caso, il futuro è fatto di queste modalità? La Chiesa a venire – quella radicale e minoritaria tanto temuta, ma forse anche desiderata – può avere solo queste forme? Non corriamo piuttosto il rischio di una Chiesa parallela, pronta a rispondere alla nostra voglia d’esserci e di contare, ma proprio nella sua estrema mobilità incapace di assicurare la durata, la permanenza stessa delle comunità cristiane?
Non credo proprio che i movimenti siano “la” Chiesa. Piuttosto bisognerebbe sempre verificare se sono “nella” Chiesa. Non si starebbe a stilarne i “criteri di ecclesialità” se non fosse evidente il rischio di fraintendimenti pratici e teologici (cfr. Nota pastorale della CEI del 1981 su Criteri di ecclesialità dei gruppi, movimenti, associazioni e quella del 1993 su Le aggregazioni laicali nella Chiesa). E, tuttavia, nell’ottica delle dinamiche ecclesiologiche ed ecclesiali, il problema vero non è questo dello sviluppo e della enfatizzazione dei movimenti, ma quello di un “dire” e di un “vivere” la Chiesa, rispetto a cui i soli movimenti non possono bastare. La questione è del dire e testimoniare la fede, dell’essere e del sentirsi la Chiesa nella contestualità liminare della mutazione culturale in atto. Occorre rimettersi più globalmente in discussione – il che tocca i soggetti tutti (chierici e laici) e le strutture tutte (parrocchie, diocesi, metropolie, conferenze episcopali e i loro rispettivi organismi pastorali) -; occorre osare linguaggi nuovi, promuovere esperienze nuove. La vitalità dei movimenti, a fronte di una situazione di crisi e di ristagno, può facilmente apparirci come “la” risposta. Ma il nuovo linguaggio, la nuova sintesi di vita e fede, la globalità e il primato dell’esperienza, il modello autentico e integrale di comunione non possono toccare soltanto cristianità di élite. Bisogna aprire il cantiere ecclesiale nel senso forte del termine e chiedersi che ne è stato della profezia del Vaticano II. Detto altrimenti, il problema vero resta quello di una progettualità profetica, globalmente e propriamente culturale, condizione imprescindibile per il futuro della Chiesa nel terzo millennio.