Un cammino vocazionale condotto dalla Parola
Anche nella Chiesa c’è del nuovo e interessante, che non si riduca ad elementi accessori o a qualcosa di ancora incerto e indefinito o da proiettare nel futuro. Una lieta novità è la centralità della Parola dentro la comunità e nella vita dei singoli cristiani. Ne è passata di acqua sotto i ponti dai tempi in cui Lutero lamentava la “Parola incatenata”… Siamo tuttavia a un punto critico che può pregiudicare o rafforzare il cammino già fatto. Punto critico perché ancora non è chiaro, non è abbastanza evidente e di fatto visibile il peso della Parola nella vita di tutti i giorni di coloro che la leggono e proclamano (e raccomandano agli altri). A che serve il culto d’un libro per quanto sacro se non esprime persone che attraverso la Parola incontrano Cristo vivo e il suo Spirito che dà un indirizzo alla vita e al futuro, anche cambiando precedenti progetti autogestiti?[1] A che serve la conoscenza biblica puntuale e pignola, magari, se la Parola non diventa prima teofania e poi e sempre più rivelazione anche dell’io, misteriosamente nascosto in essa e ogni giorno nuova? È proprio questa esperienza, tale contatto vivo che prende cuore e mente e sensi esterni e interni, che abilita poi un credente a farsi guida di altri credenti. Perché la Parola cresca e il credente con essa, in essa scoprendo la sua propria identità e vocazione.
C’è, infatti, un nesso molto naturale tra vocazione e Parola, tra cammino vocazionale e ascolto della Parola: se la vocazione è chiamata che viene da Dio, sembra logico cercare e attendere questa chiamata nella sua Parola, nel dialogo con lui, e dunque diviene indispensabile formare a tale dialogo per disporre la persona alla scelta vocazionale. Tale formazione implica vari aspetti sul piano anzitutto spirituale, del rapporto vero e proprio, ma pure a livello psicologico, della risonanza profonda dentro di sé di questa Parola. Ed è proprio la sintesi o l’incontro dei due aspetti, senz’altro già variamente evocati dalle precedenti relazioni, ad arricchire o complicare, dipende dal punto di vista, la questione. Scopo di questa condivisione, allora, è il tentativo d’analisi del significato psico-dinamico e spirituale di questa relazione, per poi cercare di definire un possibile cammino vocazionale condotto davvero dalla Parola.
PAROLA E CAMMINO VOCAZIONALE: IL PANE NELLA BISACCIA
C’è un problema di metodo e uno di contenuto in questo rapporto. Ci deve dunque essere una educazione non solo a leggere, comprendere, interpretare la Parola, ma a coglierne la funzione nella propria vita, a riconoscerne il ruolo, a darle un certo posto. Non basta, insomma, insegnare formalmente a fare la lectio, magari con sussiegosa precisione, ma aiutare a capire ancor prima a cosa serva la lectio e quale sia il percorso che consenta d’incrociare la Parola e renderla feconda nella propria storia e nella propria ricerca vocazionale. Se il credente è un pellegrino che cammina nei sentieri del tempo e della storia alla ricerca della sua propria identità vocazionale, la Parola è il pane che il Padre-Dio gli pone nella bisaccia ogni giorno, pane fresco di giornata per sostenerlo nella fatica del cammino e della ricerca. Vediamo allora d’identificare alcune caratteristiche di questa Parola, come pane che sfama e Parola-che-chiama, in quanto Parola vocazionale, per cogliere già in queste sottolineature alcune indicazioni di percorso formativo del giovane e di metodo di ricerca del giovane stesso.
La Parola come soggetto chiamante
(l’attenzione a chi parla)
Anzitutto non sarà mai sottolineato abbastanza il fatto che dietro alla Parola c’è un essere vivente che parla, c’è il Signore Gesù, Verbo del Padre, colui che parla sempre, perché è sempre a ricevere e manifestare l’amore del Padre. “Se il Figlio è il Logos ciò sta a dire che la Parola costituisce il cuore della stessa esistenza divina”[2].
Noi non crediamo in un Dio ineffabile, ma in un Dio che si è detto e si dice in continuazione; crediamo nel mistero divino come mistero buono, che si lascia toccare e vedere, almeno da tergo (cfr. Elia), che manda segnali e messaggi, per chi li sa leggere e accogliere. La Parola, allora, che il giovane impara a leggere nella Scrittura, non è inanimata, ma è ispirata, attraverso essa Dio “respira”, come dicevano i Padri nel tentativo di rendere in linguaggio semplice il senso misterioso dell’ispirazione, ossia Dio è lì attivamente presente e parlante, e totalmente rivolto col suo volto a colui che legge quella Parola, come se quella Parola l’avesse detta e la stesse dicendo solo per lui. In essa, come dice Guardini, c’è “il cuore della esistenza divina”, o lì “ha lasciato la sua voce scritta”, secondo Erri De Luca[3]; in essa c’è dunque il suo amore e la sua passione, la sua premura e preoccupazione per la singola creatura che cerca la propria strada, ma c’è anche l’indicazione di quella strada e la spinta a seguirla. Insomma c’è lui, il Cristo vivente e chiamante, il Signore Dio che chiama-perché-ama, che non potrebbe fare a meno di chiamare, che dunque chi-ama sempre e chi-ama tutti. Che chiama per nome, come quando si svela, dopo la Resurrezione, a Maria (cfr. Gv 20,1118), o comunque attraverso una Parola preparata per ognuno nella quale è inciso, misteriosamente ma realmente, un nome sempre nuovo, il nome del chiamato (cfr. Ap 2,17).
La Scrittura è una persona, non un libro! O lo è nel senso che sempre Guardini dà a questo termine: “i libri sono esseri viventi. Singolarmente viventi. Oggetti piccoli, eppure pieni di mondo che stanno lì senza muoversi e senza far rumore, e tuttavia pronti in ogni momento ad aprire le proprie pagine e a cominciare un dialogo: forte o tenero, pieno di gioia o di tristezza, un dialogo che racconta del passato, che rimanda al futuro o che invoca l’eternità, e tanto più inesauribile, quanto più ne sa attingere colui che ad esso si avvicina…”, tanto più questo si può dire del “libro per eccellenza, la Bibbia… Essa parla ad ogni uomo, poiché, anche se è stata scritta in epoche determinate, essa viene tuttavia dall’eternità e perciò è sempre contemporanea”[4].
La Parola come purificazione delle parole
(il silenzio dinanzi al mistero)
Per questo motivo la lettura della Parola comporta per natura sua un’ascesi che il giovane deve recepire nel suo significato profondo e pure nella sua funzionalità: l’ascesi della parola e, in positivo, il silenzio dinanzi al mistero. Regola vecchia, si dirà, oggi però nuovamente invocata e raccomandata dal “Manuale per la sopravvivenza” in questi tempi di cacofonie assordanti e parole invadenti. Nell’onda magmatica dei messaggi vomitati da televisione, giornali, reti e agenzie (dis)informative, proclami improbabili di politici incredibili (=non credibili), presunte fonti di verità e di senso più o meno improvvisate e spesso in aperta contraddizione reciproca…, il giovane spesso non sa cosa selezionare e soprattutto quale scala di valori identificare, a meno che non decida di cliccare dove gli capita. Tutto si dissolve in un polverone che rende tutto indistinto e opinabile, oscurando la verità e la possibilità di accedervi, rendendoci tutti solo fruitori o falsamente interattivi, e svuotando la stessa parola di senso e dignità (lo stesso vocabolario sembra consapevole di questo processo d’indebolimento generale del processo comunicativo, ormai divenuto oggi micro-comunicazione che viaggia su “telefonini” e produce “messaggini”). Il silenzio oggi è solo un disturbo dell’udito, una patologia da evitare, un vuoto da riempire in fretta.
La Parola di Dio chiede subito, per natura sua, il silenzio, “suona il silenzio” nella giornata umana; è, potremmo dire, la più grande maestra di silenzio, anzi è silenzio, quel silenzio che è “il contenuto segreto delle parole che importano”[5], ma anche il loro grembo fecondo, la condizione per la loro comprensione, o la condizione perché Dio parli, come capita a Giobbe. Finché ha replicato ai suoi interlocutori, Dio è rimasto in silenzio. Ma dopo che all’ultimo di essi, Elihu, Giobbe non replica, allora sorge la voce di Dio che dilaga per 125 versi. Così il giovane che impara a leggere la Parola sentirà bisogno di silenzio, e viceversa, chi imparerà a rispettare e amare il silenzio si sentirà misteriosamente attratto dalla Parola e apprenderà a leggerla e gustarla. Nella Parola, con un po’ d’impegno regolare e una vertigine di silenzio, dentro di sé più che intorno, egli potrà ascoltare il frammento che gli illumina il giorno. Così come l’educatore che ha imparato a nutrirsi della Parola non temerà di chiedere il silenzio, né sarà troppo invadente con le sue parole; e, al tempo stesso, il formatore che conosce i silenzi di Dio saprà pure educare ad ascoltare il mistero che c’è in quel silenzio, quella parola muta che Dio non cessa di pronunciare e che è udibile solo quando tutto all’intorno tace.
Ma soprattutto Parola di Dio e silenzio dell’uomo formano una coppia vincente e feconda: solo dalla loro unione può nascere la forza della decisione, e in particolare di quella decisione così difficile oggi come la decisione vocazionale.
La Parola come mediazione per la ricerca vocazionale
(l’ascolto patiens-obaudiens)
In ogni caso la Parola è passaggio indispensabile nel cammino di ricerca vocazionale. Il credente può avere accesso alla sua propria identità solo attraverso la Parola, come diremo tra breve, e dunque si pone in ascolto della Parola stessa, con ascolto ob-audiens e patiens. Non è un ascolto qualsiasi, ma un “porgere l’orecchio”, come fa chi è profondamente interessato all’ascolto, chi sa che non può permettersi di perdere una sola parola, un cenno, un segnale né di confonderli con altre parole, cenni, segnali; non sono orecchie qualsiasi che garantiscono questo tipo di ascolto, ma le …orecchie da caccia di un profeta, che non è quello che legge il futuro ma chi ha imparato e sta imparando a cogliere Dio presente …nel presente.
Il giovane seriamente interessato al proprio cammino di vita sa che solo il Maestro ha le parole della vita, sa che se la Sacra Scrittura è l’indicatore stradale, Cristo è la strada, come dice Kierkegaard, sa che solo lui gli può svelare il posto che nella vita egli ha da occupare, così come non pretende di capire subito tutto né s’attende rivelazioni sbrigative che eliminino la fatica della ricerca e riducano il tempo dell’attesa. Ha bisogno d’avere accanto a sé un educatore “paziente” con la Parola, che ha imparato a “soffrire” la Parola, e non le impone i suoi ritmi, ma ha imparato ogni giorno a cogliere in essa anche solo un piccolo seme da far fiorire o un frammento da ritrascrivere per sé.
Un’autentica ricerca vocazionale è per natura sua paziente; ma lo è la preghiera stessa cristiana. Senza pazienza non s’apprende a pregare, a meditare, a riconoscere la voce di Dio, ad ascoltarne il silenzio, ma neppure ad ascoltare se stessi e il proprio cuore, le proprie domande e attese, gli altri e i loro problemi… D’altro canto la Parola è punto di riferimento dell’attesa paziente, perché quest’ultima non divenga, come spesso oggi accade, tempo inutile e sprecato, vuoto d’indicazioni e mediazioni, per una decisione che non viene mai.
La Parola come fonte di verità
(l’io ideale nella Parola)
Ma la Parola non è solo mediazione e tramite indispensabile per la ricerca della propria identità, ma è il punto d’arrivo, in qualche modo, di tale ricerca. Come il Verbo coglie la sua propria identità nell’esser Parola, Verbo del Padre, così l’adulto nella fede scopre il proprio nome e la sua missione in Cristo stesso, Parola del Padre e in ogni parola che esce dalla sua bocca. Non basta dunque educare il giovane a legger la Parola, a interpretarla sapientemente o magari a citarla frequentemente, ma occorre suscitare questa convinzione e stimolare verso un tipo di rapporto ben più che oggettuale o culturale o devozionistico o moraleggiante…, la Parola è una persona, abbiamo detto, ma non è solo un “tu”, è l’irriducibilmente Altro nel cui mistero è nascosto anche il mistero dell’io. Questo è passaggio indispensabile in una genuina formazione vocazionale. È educazione all’esperienza del “solo tu hai le parole della vita” (cfr. Gv 6,68), del “sulla tua parola getterò le reti”, del “nessuno mai ha parlato come parla quest’uomo”, perché in lui e nella sua pasqua di morte e resurrezione c’è tutto il senso della vita (e della morte) ed è raccontata la vita e la morte di tutti, e la sua Parola è “la patria del significato del mondo”[6], la fonte d’ogni vocazione.
Cammino vocazionale significa processo d’identificazione dell’io, fino al punto di riconoscersi nella persona vivente del Cristo, nel suo mistero e nella sua Parola, così come ce li presenta la Scrittura, l’uno (il mistero della sua vita) a supporto esplicativo dell’altro (la Parola che da quel mistero è spiegata e che pure contribuisce a render comprensibile). Il mistero senza la Parola sarebbe enigma indecifrabile, la Parola senza il mistero finirebbe per esser intesa solo come ideologia vuota e astratta, interpretabile a piacimento. Allo stesso modo cammino vocazionale significa il mistero del proprio io che si lascia raccontare dalla Parola.
La Parola come spada a doppio taglio
(l’io attuale nella Parola)
Continuando sempre lo stesso discorso la Parola manifesta la sua tensione veritativa non solo perché svela all’uomo quello che è chiamato a essere, ma anche quello che è, il suo io attuale. È il versante penitenziale, del confronto o del giudizio; nulla come la Parola ci sottopone a giudizio e ha il potere di mettere a nudo il nostro cuore, penetrando “fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla, e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12). Potremmo dire della Parola di Dio quello che F. Kafka diceva del libro in genere, che deve essere come “l’ascia che spezza il mare ghiacciato che è dentro di noi”[7].
È la funzione educativa della Parola, cui il giovane va reso sensibile o docibile: la Parola e-duca, tira fuori la sua verità, rendendogli noti in particolare gli aspetti meno positivi, le sue debolezze e fragilità, ciò che lo rende impermeabile all’appello vocazionale. Ed è solo quest’azione previa, o questa disponibilità a lasciarsi scrutare-giudicare-educare dalla Parola che consentirà poi alla Parola stessa di svolgere l’altra funzione, quella formativa, di indicare e proporre una forma di vita, un modo di essere e di vivere in linea con l’identità del Figlio. Rigorosamente parlando, dunque, la pedagogia della Parola suppone prima una fase e-ducativa e solo poi quella più esplicitamente formativa.
La Parola come centro di convergenza
(dinamismo d’integrazione)
La Parola ha valenza vocazionale, ancora, nella misura in cui le viene riconosciuto un ruolo centrale nella vita del giovane credente non solo a livello ideale e astratto, ma nell’ispirazione della vita concreta, delle scelte quotidiane, dell’interpretazione della realtà, dello stile relazionale, dello stabilire una gerarchia di valori, ciò che è essenziale e ciò che lo è meno… Torneremo su questo punto nella seconda parte della nostra conversazione, ma chiariamo e sottolineiamo ora che l’essere umano ha bisogno d’un centro, d’un baricentro esistenziale che gli dia equilibrio e stabilità, che gli consenta di affrontare ogni situazione, che gli dia coraggio e libertà di confrontarsi anche con le situazioni difficili, asimmetriche e contraddittorie della vita; ha bisogno d’un centro come punto di partenza e d’arrivo, come fosse la propria casa, da cui partire e verso cui tornare. E al tempo stesso che funzioni un po’ come …“centro di raccolta” della sua personalità, dei dinamismi del suo essere, psicologici e spirituali, positivi e pure negativi, consci e inconsci…, cioè come ciò che la mente cerca continuamente di comprendere-contemplare, che il cuore scopre sempre più nella sua bellezza, che la volontà traduce in gesti e rinunce, che i sensi esterni trasmettono ai sensi interni per coglierne lo spessore di senso, che emozione e sensibilità della persona gustano e assaporano nel suo splendor veritatis. È incredibile il potere che ha la Parola di unificare i dinamismi intrapsichici e di raggiungere tutto l’uomo, coinvolgendolo e provocandolo a livelli profondi.
Ed è solo a questo punto che la Parola svolge un ruolo vocazionale. Solo se viene attivato questo costante raccordo: dalla Parola alla vita, dalla vita alla Parola, o dalla Parola alla personalità nella sua globalità e viceversa. Ma ne parleremo nella parte metodologica.
La Parola come attesa d’una risposta
(il dialogo come metodo)
Infine occorre vivere il rapporto con la Parola in modo consequenziale: la Parola (di Dio) suscita parola (dell’uomo), la provoca e sollecita, non può restare senza risposta e riscontro. Insomma, il giovane deve imparare a dialogare con la Parola di Dio, in tutte le forme possibili di dialogo: dalla risposta immediata a quella lungamente riflessa, dall’approfondimento all’interrogazione ulteriore, dall’accoglienza della Parola all’espressione della propria incomprensione d’essa o della fatica di viverla o del dubbio da essa suscitato…
Diventa molto più semplice lo stesso pregare se si apprende a dialogare con la Parola, evitando quel vezzo giovanile, o almeno tipico di certi gruppi e incontri giovanili, vezzo odierno un po’ sofisticato, d’improvvisarsi contemplatori estatici del Trascendente, mistici aristocratici subito rapiti dal mistero e dalla sua ineffabilità al punto da disdegnare la parola, strumento troppo umile e limitato, e da rimanere lì assorti e rapiti in improbabili visioni, senza accorgersi che dopo l’iniziale mezzo minuto estatico la mente comincia a correr dietro a galoppanti fantasie e il mistero sparisce dall’attenzione.
La Parola che chiama a colloquio e dinanzi alla quale stare e restare, diventa ed è invece invito all’attenzione, rispetto per chi ti sta rivolgendo la parola, stimolo a cercare-trovare la risposta giusta, provocazione precisa e personalizzata…, e dunque diventa anche condizione e strumento d’una orazione accorta e realmente orientata verso il Padre Dio che mi parla, è ciò che le dà una disciplina e un ordo interiore, evitando il rischio di lasciarla cadere a vuoto dentro di sé, ignorandola di fatto e quasi abortendola, e di fare una preghiera solo virtuale, sostanzialmente finta.
Insegniamo ai nostri giovani a parlare nella preghiera, a non stare a bocca aperta, a reagire alla Parola con le loro parole, a concretizzare i loro stati d’animo e sentimenti con termini precisi e soprattutto rivolti a Colui che per primo ha rivolto a ciascuno la sua parola. Ne guadagnerà enormemente la concretezza e freschezza, il senso realistico e la vivacità dell’orazione e del rapporto con Dio; e il giovane non correrà il rischio, l’abbiamo più volte denunciato, di divenire un po’ analfabeta dello spirito, incapace di dirsi dinanzi a Dio, incapace di leggere la sua propria realtà interiore, incapace di consegnare il suo futuro alla fede in Cristo morto e risorto.
Se la Parola purifica le parole, d’altro canto è promotrice di dialogo. E il dialogo così suscitato, con la Parola come interlocutrice, diventa anch’esso mediazione o strumento vocazionale. Se il giovane impara a dirsi davanti alla Parola, a partire dalla Parola, prendendo posizione di fronte a essa, chiamandola, qualche volta anche lottando con essa, alla fine rispondendole… in quello scambio scopre se stesso e la sua propria identità. Questo dialogo va dunque attivato in ogni caso.
LA LECTIO VOCATIONALIS: PROPOSTA D’UN METODO
Cerchiamo allora di indicare un cammino pedagogico che conduca a questo dialogo, perché ne venga fuori un dialogo davvero vocazionale. Naturalmente pensiamo a un dialogo costante, quotidiano, alla luce d’una Parola che ci è data quotidianamente come luce e cibo, dialogo che il giovane credente deve imparare ad attivare da giovane per poi viverlo ogni giorno della sua vita, per una vocazione da scoprire costantemente, fino al giorno della morte, il momento vocazionale per eccellenza. Appare dunque subito un punto interessante di convergenza tra Parola e vocazione: entrambe hanno cadenza quotidiana, anzi, mattutina…
“Ogni vocazione è mattutina”…
Così dice il documento del Congresso europeo sulle vocazioni. Un’espressione non solo suggestiva, ma che dice la natura della vocazione, che – sempre secondo il documento – “non è solo il progetto esistenziale, ma lo sono tutte le singole chiamate di Dio, evidentemente sempre correlate su un piano fondamentale di vita, comunque disseminate lungo tutto l’arco dell’esistenza. L’autentica pastorale rende il credente vigilante, attento alle moltissime chiamate del Signore, pronto a captare la sua voce e a risponderGli.
È proprio la fedeltà a questo tipo di chiamate quotidiane che rende il giovane oggi capace di riconoscere e accogliere “la chiamata” della sua vita, e l’adulto domani non solo capace di esserle fedele, ma di scoprirne sempre più la freschezza e la bellezza. Ogni vocazione, infatti, è ‘mattutina’, è la risposta di ciascun mattino a un appello nuovo ogni giorno”[8].
È chiara e forte qui l’idea d’un cammino vocazionale che non è limitato e finalizzato esclusivamente all’opzione fondamentale dell’esistenza, ma è fatto di tante chiamate altrettante risposte, che consentiranno poi di riconoscere e scegliere la propria vocazione, dunque suppone una cultura della vocazione, un atteggiamento costantemente vocazionale, l’educazione a esser continuamente vigilanti, la convinzione che ogni giorno, prim’ancora che tu ti svegli o programmi la giornata, c’è già un dono preparato per te, e assieme una richiesta e un’attesa che viene dal Padre Dio. Formare a questa attenzione e convinzione vuol dire trasmettere una certa idea di Dio in costante comunicazione con l’uomo, suo partner e normale interlocutore, e stimolare dunque a una certa relazione con lui. Vuol dire trasmettere l’idea che Dio ha sempre il primato, perché è lui che si prende cura dell’uomo e gl’indica una strada (=la vocazione) perché sia felice, e dunque conviene all’uomo stesso dare la precedenza a Dio, ascoltare lui prima di progettare il giorno e le ore. Dire che “ogni vocazione è mattutina” ha esattamente questo significato, o sta a significare questa priorità.
E proprio qui ritrova il suo prezioso ruolo la Parola.
Anche la Parola è mattutina…
Pure la Parola ha una cadenza quotidiana, ci è data ogni giorno, come la manna che un tempo nutrì Israele nel lungo cammino del deserto, e sempre come la manna ci è preparata ogni giorno dalla provvidenza del Padre, per nutrire nella liturgia del giorno la comunità dei credenti. In quella Parola c’è un progetto di Dio, c’è un disegno che vuole compiersi, o – più precisamente – vi è svelata la volontà di Dio, o quello che il Signore oggi dona all’uomo di Sé, ma vi è svelata anche l’identità dell’uomo, quello del cammino o della costante ricerca vocazionale, non una Parola qualsiasi! Lì c’è quello di cui hai bisogno in quell’oggi della tua vita, esattamente come la manna, preparata e …confezionata “per la razione d’un giorno” (Es 16,4), in modo che ognuno ne potesse avere a sufficienza, né in più né in meno; perfino con l’attenzione del sabato, quand’era data in doppia razione. La straordinaria provvidenza del Padre!
La Parola che ci dona, infatti, è anch’essa mattutina, come dice il profeta quando parla del Servo di JHWH: “Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come gli iniziati” (Is 50,4), ovvero è Parola che apre la giornata, che ha la precedenza su tutto, che segnala ciò che deve stare al primo posto, quell’unica cosa necessaria, che dà vita al credente, che segna e deve segnare l’inizio d’ogni pensiero, desiderio (“Signore, davanti a te ogni mio desiderio” Sal 37,10), attività, operazione, progetto… Ecco perché il credente apre la sua giornata meditando la Parola, non potrebbe fare diversamente, o comunque rivolgendosi a Dio: “al mattino giunge a te la mia preghiera” (Sal 87,14). Ecco perché non fa un uso strumentale e quasi magico del testo sacro, aprendolo a caso, ma si lascia condurre da quella Parola che in quel giorno il Padre-Dio ha preparato e dona alla sua chiesa.
Ed ecco soprattutto il collegamento naturale tra Parola e vocazione, entrambe mattutine, entrambe pensate dal Padre Dio secondo la misura del giorno, l’una (la vocazione) contenuta nell’altra (la Parola), e questa seconda resa manifesta e assolutamente personalizzata nella prima. Il giovane credente deve capire e gustare questa correlazione, capire che lì dentro c’è una regola fondamentale, una regula fidei che è tutto suo interesse rispettare, come una disciplina preziosa che consente l’accesso al tesoro, il tesoro della scoperta della propria identità!
“Le sentinelle del mattino”
Se può avere un senso l’appellativo con cui Giovanni Paolo II ha chiamato i giovani in quella memorabile veglia della GMG di qualche anno fa, al di là d’una certa suggestione legata alla veglia appena trascorsa nella distesa di Tor Vergata, credo che il senso potrebbe essere proprio questo, un senso profondamente vocazionale in sostanza, come un vegliare quotidiano sulla propria identità, per scoprirla e custodirla, per coglierne ogni giorno aspetti nuovi e inediti, per accorgersi di tutte le chiamate che costellano la vita, la vita d’ogni giorno, per impedire che la chiamata di Dio vada a vuoto o a male…
E allora, proprio per questo, il giovane credente moderno… “fa la guardia alla Parola” e lascia al tempo stesso che la Parola vegli su di lui, non vive la sua fede in modo estemporaneo e istintivo, così come gli viene, ma ha un preciso e vincolante punto di riferimento, e non ogni tanto ma ogni giorno, e non in qualche modo, ma seguendo un metodo altrettanto preciso, che gli consenta di avere un rapporto costante con la Parola, lungo tutta la giornata, proprio come dice il salmo: “tutto il giorno la vado meditando” (Sal 118,97). Per un cammino vocazionale finalmente costruito attorno a qualcosa di solido.
Vediamolo questo metodo. È quanto mai importante oggi non aver paura di parlare di disciplina e di proporla, nel senso più alto del termine[9], e dunque indicare un metodo oggettivo, una regola, in una cultura come la nostra, ove tutto, anche nell’ambito spirituale, sembra lasciato alle improvvisazioni del singolo e regolato in base al suo sentire, ove tutto, anche il senso di Dio o il rapporto con lui sembra ed è debole proprio perché solo soggettivo, spesso solo emotivo e banale, ove pure l’esperienza spirituale non riesce mai a diventare sapienza perché legata alle intuizioni del momento e a gusti molto superficiali e mai evangelizzati, e dunque è instabile e assolutamente incapace di supportare un cammino vocazionale. D’altro canto, come abbiamo visto, l’attenzione alla Parola consente di esprimere e dare il giusto spazio anche all’aspetto soggettivo, poiché nulla come la Parola attiva la partecipazione del singolo e il suo coinvolgimento diretto e immediato.
Non è fuori luogo ricordare che la capacità di proporre, da parte della guida, un metodo e d’indicare una disciplina sapiente è legata alla verità e realtà del cammino spirituale della guida stessa; nessuno può guidare ove non è mai stato, così come nessuno può solo indicare cammini senza accompagnare nel percorso; per questo ogni cammino proposto a un fratello minore diventa per la guida stessa nuova esperienza di Dio.
La ragnatela della Parola negli eventi del giorno
Rendiamo questo metodo con questo termine singolare, la ragnatela. Perché questo metodo è fatto di connessioni, di nodi, di correlazioni; a partire da un collegamento fondamentale, quello tra Parola ed evento, tra Parola-del-giorno ed eventi quotidiani. Come ci dice e insegna la Scrittura, la Parola si compie sempre nei fatti del giorno, o comunque implica sempre un riferimento alla storia.
La Parola non può esser compresa solo con la riflessione intellettuale, a tavolino, ma solo se messa in dialogo con la storia concreta, con cui interagire liberamente: la Parola illumina la storia, rendendola comprensibile, da un lato, aggiungendole la dimensione del mistero dall’altro; la storia stimola in qualche modo la Parola, le offre il contesto interpretativo, la costringe quasi a un confronto, a volte spremendone il senso recondito. È ciò che la feconda. Assieme, Parola di Dio ed eventi degli uomini fanno la storia della salvezza, rendono salvifica questa nostra storia o ne fanno emergere limpidamente le potenzialità redentive, indicandone il compimento, ma al tempo stesso indicano anche al singolo credente lungo quale strada si realizza il suo personale progetto di salvezza.
In altri termini vogliamo dire che se la Parola s’estende alla vita e diventa sempre più sorgente di senso e di calore che dà energia al fare, al dire, al pensare, al programmare, al soffrire, all’amare…, punto di partenza e d’arrivo d’ogni moto del cuore, della mente, della volontà, della sensibilità…, allora quella stessa Parola dice con sempre maggior chiarezza la verità dell’io, lo rivela progressivamente a se stesso, è la sua manifestazione e autorealizzazione.
Anche un giovane può comprendere tutto ciò, e coglierne la logica e la bellezza, perché di fatto sta cercando punti di riferimento precisi per definire la propria identità. Ma questo avviene solo se il giovane credente impara, con pazienza e costanza, a unificare davvero la trama quotidiana degli eventi attorno alla Parola-del-giorno (Pdg), attraverso una serie di operazioni precise, fino a farle divenire prassi abituale, metodo quotidiano di “lettura” della Parola lungo l’arco dell’intera giornata, che a questo punto diventa come il grembo verginale di Maria, grembo che custodisce e partorisce una Parola sempre nuova di Dio.
Vediamo brevemente queste operazioni, come dei “verbi vocazionali”.
I verbi per… tessere la tela vocazionale
La lectio, uno dei frutti più belli del recuperato amore per la Parola di Dio, è un metodo che suppone la continuità quotidiana della lettura, la cosiddetta lectio continua. Noi pensiamo che l’aggettivo (continua) debba riferirsi non solo al contenuto oggettivo della lettura e alla sua sequenza logica, senza salti e cesure, ma pure al tempo lungo il quale la lettura è distesa o che dovrebbe abbracciare. Se la Parola ci è data ogni giorno “per la razione d’un giorno” allora tale misura temporale è segnata dalla giornata, ovvero la lectio deve essere continua anche nel senso che deve in qualche modo continuare lungo il giorno. Non avrebbe tanto senso una meditazione o lectio relegata e confinata in uno spazio ben preciso. Non torneremo per caso a “incatenare la Parola”? La lectio mattutina, in una logica di formazione permanente, rappresenta il cosiddetto tempo concentrato (nella tensione di tutto l’essere verso ciò che è centrale nella sua vita come, per l’appunto, la Parola), tempo che tende a diventare disteso-narrativo quando quell’evento centrale viene in qualche modo diffuso e irradiato, quasi raccontato e ancor più compreso nel resto della giornata, per divenire infine tempo compiuto quando i due tempi si succedono tra loro senza più stacchi e soluzioni di continuità, quasi scivolando l’uno nell’altro[10].
Se inoltre abbiamo detto che l’incrocio tra Pdg ed eventi è fecondo, allora possiamo considerare davvero Maria immagine ideale di questo tipo di lectio, la Vergine che si fece cava per accogliere la Parola di vita certamente non solo nel giorno dell’Annunciazione, o a partire da quel mattino fino al giorno della passione e morte del Figlio.
Attendere-desiderare
Anzitutto la Parola va attesa e anche con una certa ansia, con la consapevolezza del bisogno che il credente qualsiasi, e quello in ricerca vocazionale particolarmente, ha di essa. Tale consapevolezza deve essere anch’essa oggetto di formazione, forse il primo obiettivo formativo in un percorso vocazionale. Ottima cosa è invitare a leggere la sera prima le letture del giorno dopo, quasi affidando alla notte e depositando nel cuore che veglia nella notte la Parola stessa. Non significa forse anche questo l’esser “sentinelle del mattino”, quasi anticipando l’aurora (cfr. Sal 118,148)?
Per suscitare quest’attesa e questo bisogno è necessario sempre partire da quella catechesi sulla Parola e sulla Pdg come il punto di riferimento del proprio cammino vocazionale e della propria identità. Il giovane può e deve arrivare a pregare così: “non restare in silenzio, mio Dio, perché, se tu non mi parli, io sono come chi scende nella fossa” (Sal 28,1), ovvero non capisco più chi sono e dunque sono come un morto. “La verità è principio della tua parola” (Sal 118,160), e il giovane ha bisogno di verità, per questo attende la Parola ogni giorno come pane fresco e profumato, pane di giornata, per saziare la sua fame di verità. L’immagine della fame dice misura e intensità di questo desiderio.
Riconoscere-riconoscersi
L’attesa ha una risposta a condizione che il credente s’accosti alla Parola con questa convinzione: lì si parla di me. Come il salmista: allora ho detto: ecco, io vengo. Sul rotolo del libro di me è scritto… (Sal 40,8). Così è per chi legge la Parola con fede: scopre parole che riguardano proprio lui, si trova in certi episodi e personaggi, nel figlio prodigo e in quello maggiore, nell’adultera e in chi la vuole lapidare…, si sente nominare e chiamare, come Natanaele (cfr. Gv 1,47ss) che si sente chiamato da Gesù quando gli dichiara d’averlo visto sotto il fico: il suo scatto di fede verso Gesù non viene dall’averlo visto, ma dall’essere stato visto da lui. Così fa la Parola di Dio; non sei tu che la leggi e contempli, ma è essa che ti guarda, ti fissa, ti rivolge uno sguardo tenero, ti accusa, ti ferisce, ti risana, ti salva, ti chiama. Per questo la Bibbia appartiene a chi la legge, perché ogni lettore pretende che in un rotolo del libro ci sia qualcosa scritto su di lui e per lui. Lo ricorda molto chiaramente anche Kierkegaard: “Si esige, quando tu leggi la Parola di Dio, che tu ricordi a te stesso di continuo: è a me che si parla, è di me che si parla”[11]. O Clemente Alessandrino quando dice che “la Parola di Dio è lo specchio del cristiano”.
Grazie a questa convinzione ogni lettura della Parola consente di riconoscere in essa la rivelazione progressiva e quotidiana della volontà dell’Eterno su di sé, e dunque anche di riconoscersi in essa, o di scoprire poco a poco in essa la propria identità e vocazione, come Maria che accoglie le parole dell’angelo e si riconosce in esse (cfr. Lc 1,29-38), e inizia a capire la sua missione, che capirà poi solo progressivamente, fino a quando accoglierà la Parola del Figlio ai piedi della croce, ove quella missione sarà pienamente rivelata.
Masticare-nutrirsi
Quando si medita e si coglie e riconosce una verità rilevante per la propria persona in ciò che si legge è importante, diceva Bossuet, non passare da un pensiero all’altro, da una verità all’altra, “tenetene una, stringetela finché penetri in voi; legate a essa il vostro cuore, estraetene, per così dire, tutto il succo a forza di strizzarla con la vostra attenzione”[12]. La propria identità vocazionale è in qualche modo quel succo che gocciola da una verità tenuta stretta e strizzata.
La tradizione spirituale dell’Oriente cristiano ha comparato la meditazione alla masticazione: “Come la masticazione degli alimenti – insegnava Teolepto, vescovo di Filadelfia, nel XIII secolo – rende la degustazione piacevole, così le parole divine girate e rigirate nell’anima danno intelligenza, dolcezza e gioia”. È la tecnica antichissima della ruminatio, che vuol dire anche ripetizione, ripetizione di parole, di formule, di versetti. Solo chi capisce la posta in palio ha l’umiltà di ricorrere a questi strumenti. Anche grazie a essi la Parola lentamente diventa cibo che nutre.
Lasciarsi interrogare-trafiggere
Se, come abbiamo detto prima, la Parola è rivolta al singolo e parla di lui è necessario lasciarla libera anche di rivolgere domande, anche indiscrete, di mettere in crisi, di provocare, addirittura di “trafiggere” il cuore del lettore, come successe a coloro che udirono Pietro parlare il giorno di Pentecoste (cfr. Atti 2,37). Dicono gli Atti che costoro, trafitti dalla Parola, furono provocati a porsi la classica domanda decisiva della vita: “che cosa dobbiamo fare?”.
Se una meditazione non partorisce questa domanda o non la fa nascere in cuore, non merita tale nome, né può dirsi espressione della fede cristiana, ma è solo divagazione mentale, tra il culturale e l’ideologico… (e la stessa cosa potremmo dire di omelie, catechesi, liturgie ecc)[13]. È il problema di tanta pastorale oggi, pastorale “light” o “soft”, pastorale debole in tempi di pensiero debole, che accarezza semplicemente i timpani e non turba né disturba nessuno, pastorale che finisce miseramente senza domande, senza cercare l’incontro o lo scontro col singolo, né mettergli dentro alcun pungolo che lo scuota, alcun rovello che gli guasti il sonno, alcuna inquietudine che mantenga viva la ricerca. È proprio vero che occorre vocazionalizzare la pastorale, e che vocazionalizzare significa lasciare alla Parola tutta la sua forza provocante, far sì che trafigga il cuore di chi ascolta.
Queste prime quattro articolazioni rappresentano le fasi della lectio – meditatio – oratio.
Conservare-custodire
Una volta finita la meditazione o comunque la lettura della Pdg, il giovane credente si tuffa nel quotidiano, o il pellegrino riprende il cammino solito di ogni giorno, ma non è più solo, nella bisaccia ha qualcosa d’importante, ha la Pdg, il dono per lui preparato dal Padre Dio. La custodisce in cuore come tesoro prezioso e misterioso, come Maria dentro sé anche ciò che la sua mente non aveva afferrato del tutto (cfr. Lc 2,19.51). Quella Parola ora è stata affidata a lui, lui ne è responsabile; ha un messaggio preciso per lui e un incarico che solo lui potrà portare a termine. È assolutamente fondamentale che il giovane senta tutto il peso di questa responsabilità, anche se non ha afferrato del tutto quel compito.
La meditazione non è necessariamente il tempo della comprensione piena della Parola, questa comprensione verrà in un secondo momento, quando la Parola è posta a contatto della vita; quello che è importante ora è che il giovane se la porti con sé, la custodisca in cuore in tutto quel che fa, per esser a sua volta custodito da essa e posseduto dalla sua potenza. “Se conserverai e custodirai la Parola… in modo che scenda nel profondo della tua anima e si trasfonda nei tuoi affetti e nei tuoi costumi…, non c’è dubbio che tu pure sarai conservato da essa”, dice infatti s. Bernardo.
Rimanere-radicare
Qui si rende più esplicito il raccordo tra Pdg ed eventi quotidiani e, grazie a questo raccordo, la Parola si svela o svela nuovi aspetti del suo significato. Non si tratta, per il giovane, di fare grandi cose, ma d’imparare a rimanere ben piantato in quella Parola che gli è stata donata e che ha aperto la sua giornata, così come il tralcio è legato alla vite (cfr. Gv 15), in modo che la Parola stessa, quella Parola particolare, sia anche la radice di ogni gesto, parola, pensiero, progetto…, sia ciò che dà forma all’essere e all’agire della persona.
In tal modo gli eventi sono affrontati con uno spirito e una disposizione particolari, e la Parola stessa comincia a diventare più chiara e comprensibile, come fosse “tradotta” in linguaggio esistenziale, lasciando pian piano trasparire non solo la sua capacità di dare senso alle situazioni o d’ispirare il modo d’affrontarle, ma anche l’appello particolare che rivolge al singolo credente.
Scegliere-lasciarsi scegliere
Altra espressione di questo raccordo tra Pdg ed eventi è l’attenzione a discernere e scegliere sempre rifacendosi alla stessa Parola, prendendola come criterio del proprio discernimento e come stimolo a scegliere. Se è vero che oggi viviamo in una cultura dell’indecisione ciò è dovuto senz’altro all’assenza di motivazioni forti, di convinzioni salde che diano il coraggio di prender decisioni; proprio questo clima pervasivo crea la cosiddetta “cultura antivocazionale”, in generale, o all’immagine dell’“uomo senza vocazione”[14], pure in ambito credente, tale anche a causa dell’esilio della Parola, perché è solo la Parola che chiama e chiamando dà la forza di fare decisioni, di scegliere qualcosa che magari supera le proprie forze e d’impegnativo. Per questo è importante l’educazione a scegliere ogni giorno magari con scelte non importanti, ma alla luce della Pdg, e dunque con criteri non semplicemente umani, su misura delle proprie qualità e attitudini, ma imparando a contare su un Altro, su un’altra forza, o imparando a fidarsi, a scommettere su Colui che chiama, lasciandosi da lui scegliere, perfino a rischiare in nome suo e delle grandi prospettive che il suo amore apre dinanzi al chiamato. Come dice ancora il documento del Congresso europeo, “sono le domande grandi, infatti, che rendono grandi anche le risposte piccole. Ma sono poi le risposte piccole e quotidiane che provocano le grandi decisioni, come quella della fede; o che creano cultura, come quella della vocazione”[15]. O che riconducono sempre più il problema della scelta vocazionale alla libertà fondamentale della creatura: la libertà di lasciarsi scegliere. Che è la libertà per eccellenza.
Compiere-compiersi
Il credente è chiamato a compiere la Parola, ma prim’ancora a riconoscere e scoprire quella Parola che si compie nell’oggi d’ogni giornata, come disse quella volta Gesù nella sinagoga di Nazaret (cfr. Lc 4,21). L’evento del giorno non è mai cosa neutra e indifferente, semplicemente determinata dalle circostanze esteriori, ma luogo misterioso ove si rinnova per noi il mistero dell’Incarnazione, ove palpita una inedita presenza dell’Eterno.
Il giovane va formato a questo tipo di ricognizione, e ancor più ad affrontare le situazioni della vita ponendosi in dialogo con questa presenza del divino nascosto nella storia; è solo così che l’evento lascia trasparire il suo significato o che svela quella presenza. Ma soprattutto, per il nostro discorso, è solo così che la Parola, compiendosi nell’evento, porta anche a compimento la rivelazione dell’identità della persona, svelandola pienamente. Come abbiamo, infatti, già detto, non è a tavolino, o con la semplice riflessione, che si scopre la propria vocazione, ma solo quando si ha il coraggio di fare un’esperienza, di compromettersi con la realtà concreta, ovvero quando la Parola non solo si compie nell’evento, ma quando il singolo credente compie attivamente e responsabilmente la Parola che gli è stata affidata (è il senso, tra l’altro, del dabar biblico, come sintesi di Parola-evento cfr. Lc 2,19.51).
Queste quattro tappe rappresentano l’actio e la discretio.
Contemplare-ringraziare
Siamo ormai verso la fine della giornata, forse alla preghiera della sera. È il momento in cui riprendere in mano la giornata di fronte a Dio per rivederla con calma, e magari accorgersi di quella presenza di Dio che non è stata subito colta in tempo reale, e in ogni caso contemplare nel suo insieme “il giorno che ha fatto il Signore” (Sal 118,24), aperto dalla sua Parola, grembo in cui tale Parola s’è incarnata e compiuta, svelando a un tempo la volontà del Creatore e il suo progetto sulla creatura. Rigorosamente parlando è quello serale, al termine del giorno, il momento della massima comprensione della Parola, ora essa è più chiara, e tale è resa dagli eventi del giorno che va a finire. Ora il credente può render grazie per questa nuova rivelazione, o, come Simeone, può ringraziare il Signore perché i suoi occhi hanno finalmente visto la salvezza, o la sua mente e cuore hanno compreso qualcosa in più della chiamata di Dio. Ora il credente… può andare a letto!
Quest’ultima tappa rappresenta la gratiarum actio e la contemplatio.
La Parola e il pellegrino, il filo e il grembo
Così la giornata, la giornata qualsiasi, non solo progressivamente s’unifica attorno alla Parola, alla Pdg, ma diventa grembo, grembo mariano che accoglie e assieme partorisce una Parola sempre nuova di Dio e sull’uomo, mentre il giovane impara ad avere un punto di riferimento, un centro vitale da cui partire e a cui ritornare ogni giorno, sempre uguale e sempre nuovo, che possa quotidianamente condurlo verso la scoperta della sua identità vocazionale.
La vocazione, e la individuazione d’essa, è legata a tutte queste operazioni; suppone e vuol dire quell’unità di vita costruita anche faticosamente ogni giorno attorno alla Pdg, come un tessuto sempre nuovo cucito e ricucito ogni giorno con il filo della Parola. Nei mosaici della cappella “Redemptoris Mater”, in Vaticano, p. Rupnik ha rappresentato in maniera davvero singolare l’Annunciazione: Maria è in atteggiamento di raccoglimento, con gli occhi chiusi, non si sa se stia per accovacciarsi o se stia per alzarsi. La sua figura appare come disegnata sul rotolo del libro che l’angelo srotola, ed è in atteggiamento di ascolto. Efrem il Siro, riprendendo un’antica tradizione, dice che Maria è stata fecondata dall’orecchio. Gabriele, infatti, srotola il rotolo del Verbo e la sua mano destra è esattamente all’altezza dell’orecchio, come se annunciasse la Parola a Maria, dalla mano all’orecchio. Ed ecco l’aspetto per noi interessante: la Vergine, con le mani sul grembo, tesse un filo rosso. È il filo rosso del Verbo che assume carne; la madre sua sta tessendo la carne al Verbo. Il Verbo-Parola come un filo che progressivamente assume sembianze e fattezze precise.
Lo stesso, fatte le debite proporzioni, fa il credente che ogni giorno cerca e scopre nella Parola la sua identità, o tesse e ritesse il tessuto della sua vocazione con il filo della Parola. Con gelosa vigilanza e pazienza testarda, con senso di responsabilità e cuore pensante. Senza pretendere che ogni giorno venga fuori chissà quale ricamo, ovvero che ogni giorno vi sia chissà quale interpretazione e scoperta, ma semplicemente “accontentandosi” di scorgere o cercando d’intravedere una direzione per la propria vita in coerenza con quella Parola.
Giorno per giorno il pellegrino cammina, con la Parola nella bisaccia, per una scoperta che durerà tutta la vita e renderà ogni giorno nuovo e irripetibile, e la sua risposta alla chiamata garanzia di giovinezza perenne.
Note
[1] Cfr. AA.VV., Al centro la Parola, in “Presbyteri”, 3 (2002), 241.
[2] GUARDINI R., Mondo e persona, Brescia 2000, pp. 266-267.
[3] DE LUCA E., Avere orecchio, in “Avvenire” 5/VI/1993.
[4] GUARDINI, Elogio del libro, Brescia 1985, p. 42 (corsivo nostro).
[5] SERTILLANGES D., cit. da RAVASI G., Parola e silenzio, “Avvenire” 27/XII/1995, p. 1.
[6] GUARDINI, Mondo e persona, 269.
[7] KAFKA F., cit.in AA.VV., Una cultura per l’uomo, Roma 2001, p. 131.
[8] Nuove vocazioni per una nuova Europa, 26a.
[9] Cfr. il nostro L’arte del discepolo. Ascesi e disciplina itinerario di bellezza, Milano 2000.
[10] Cfr. CENCINI A., Il respiro della vita. La grazia della formazione permanente, Bologna 2002, pp. 58-77.
[11] KIERKEGAARD S., cit. da FORTE B., Contro i teologi sonnifero, in “Avvenire”, 4/XII/1996, 19.
[12] BOSSUET J., Méditations sur l’Evangile, cit. da RAVASI, Meditare e masticare, in “Avvenire”, 17/V/1997, 1.
[13] Cfr. Nuove vocazioni per una nuova Europa, 26.
[14] Ibidem, 11c.
[15] Ibidem, 11b.