Vocazioni, interculturalità e multireligiosità
Il Vangelo ha una grande ambizione
Le riflessioni di p. Cagnasso, nel numero 2 del 2002 della rivista Vocazioni, iniziano ricordando l’immagine di Babele e Gerusalemme che il rettore di una comunità formativa ha usato per descrivere le difficoltà che si incontrano nel campo educativo quando si deve coniugare identità e multiculturalità. Le osservazioni che egli presenta sono di grande interesse e mostrano la complessità dell’opera educativa e nello stesso tempo la sua urgenza. Per parte mia, consentendo con molte delle idee espresse nell’articolo, offro qualche riflessone più generale che peraltro si inserisce nella più ampia frontiera che l’intera Chiesa è chiamata a vivere in questo inizio di secolo.
C’è una riflessione previa da fare a riguardo del modo di porsi di fronte ai giovani oggi e quindi anche ai chiamati al sacerdozio o alla vita religiosa. Non di rado si vedono educatori che corrono dietro i giovani piuttosto che essere loro padri, quindi tesi più ad attrarli che a proporre la fatica del cambiamento del cuore e del mondo. Non c’è dubbio che ci troviamo in una società che fa fatica a mostrare ai giovani ideali alti, esigenti. Il Vangelo, invece, non ha paura di chiamare i giovani a scelte radicali. E lo fa correndo anche il rischio del rifiuto. Del resto educare è sempre un rischio, appunto perché richiede una scelta e quindi un possibile rifiuto. È lo stesso rischio che corse Gesù, come mostra il brano evangelico del giovane ricco, quando gli disse: “Se vuoi essere perfetto, va vendi quello che hai e dallo ai poveri, poi vieni e seguimi”. Sono parole esigenti, non v’è dubbio, e possono apparire anche irritanti o troppo coinvolgenti. Ma nel cammino cristiano non c’è altra strada. E la ragione sta nel fatto che esse nascono da un amore altrettanto esigente. Un amore che costrinse Gesù a dare la sua stessa vita. Solo chi è disposto a dare la vita può chiedere altrettanto. Ebbene, di un amore così hanno bisogno i nostri giovani. Spesso, invece, sono lasciati soli, abbandonati al loro destino, anche se li aduliamo, li inseguiamo, li carezziamo, li blandiamo. C’è bisogno più che mai, oggi, di radicalità evangelica e di appassionato impegno. Spesso, invece, i giovani sono lasciati a loro stessi, un po’ come quelli della parabola di Matteo 20 rimasti sulla piazza perché nessuno li aveva chiamati a giornata. Se noi idealmente seguissimo quel padrone che va in cerca di operai per la sua vigna, e visitassimo come lui le tante piazze di questo mondo, troveremmo migliaia e migliaia di giovani che ci ripeterebbero: “Nessuno ci ha preso a giornata”. Spesso infatti i giovani sono del tutto estranei alla costruzione del loro stesso futuro, senza una robusta coscienza di che senso dare alla vita o semplicemente come spendere le loro giornate. Solo l’ideale della santità li salva dalla mediocrità. È quanto Gesù continua a chiedere ai giovani, a tutti i giovani, particolarmente a quelli che chiama al ministero sacerdotale o alla vita religiosa.
L’identità tra globalizzazione e autoreferenzialità
L’inizio di questo nuovo secolo rappresenta un momento opportuno per l’intera Chiesa. Potremmo dire che questo tempo chiama la Chiesa ad un rinnovato impegno. Il secolo passato – e lo sappiamo bene – è stato un secolo che tante volte ha fatto a meno di Dio. Sicuramente è stato il secolo meno religioso di tutta la storia dell’uomo. Per secoli e secoli, infatti, il mondo è stato immerso nella religione: la vita civile, in tutti i suoi aspetti, era piena di riferimenti a Dio. Tutto veniva visto in una sfera religiosa: la nascita e la morte, la vita e la malattia, il rapporto tra uomo e donna, ma anche il lavoro, la politica e il resto. Ebbene, tutto questo è scomparso, e le conseguenze le abbiamo viste: il Novecento è stato uno dei secoli più tragici della storia umana. E le sue ombre buie si sono proiettate anche sul secolo appena iniziato. Non è questa la sede per approfondire questa analisi, ma certo è che l’insicurezza diffusa spinge a ripiegarsi su se stessi e a chiudersi nel proprio “particolare”. Nel bagaglio esistenziale della gran parte della gente di oggi non sembrano esserci più i grandi sogni, le grandi utopie, le grandi visioni. Crescono invece delusioni, prudenze, realismi. E questo clima, che avvolge anche le giovani generazioni, spinge a pensare solo a se stessi, a fermarsi alla frontiera dell’io. Del resto l’accentuazione del soggetto, dell’individuo, è una delle acquisizioni più importanti del Novecento e tra le eredità che vengono consegnate al nuovo secolo. In questo terreno che, è ovvio, ha un valore non poco importante prosperano, tuttavia, preoccupanti risorgente razziste e xenofobe. C’è un forte senso di autoreferenzialità che porta individui, gruppi, etnie a ritrovare la propria coesione e a viverla in modo fondamentalista. Il che vuol dire una cosa molto semplice: chi non è uguale a me non ha scelta, o si adatta o diviene un “nuovo nemico”. Ed è quanto sta serpeggiando, e talora affermandosi, in Europa. Insomma, il mondo sono io, il mio gruppo, la mia etnia, la mia nazione, la mia cultura, la mia fede. E il realismo diviene assenza di cambiamento e rassegnazione sull’esistente. Le montagne restano montagne… e non c’è nessun seme e nessuna preghiera che possa spostarle. La tragedia dell’11 settembre ha come radicalizzato questo ripiegamento su di sé. E se è vero che si è allargato il fronte contro il terrorismo sono però cresciute l’insicurezza e la paura e si rischia di radicalizzare la diversità.
D’altro verso, sempre più viviamo immersi in un mondo che vede la compresenza di persone di culture e di fedi diverse. Non è più il tempo del “cuius regio eius religio”, anche se non mancano nostalgici in questo senso, non importa se religiosi o laici (vedi la Fallaci). Il mondo, e quindi anche la Chiesa, è ormai costretta a vivere in una società pluralista. È impossibile non convivere con persone di fede e di cultura diversa. La questione, pertanto, non è se possiamo scegliere di vivere o no in tale situazione, ma come viverci: se lasciare libero corso allo scontro (c’è chi ha teorizzato lo “scontro di civiltà”) o, invece, trovare i modi per convivere. Quale sia la via da scegliere mi pare ovvio. Il problema è apprendere l’arte del convivere. E si tratta di una vera e propria arte che richiede disciplina, studio, comprensione, conoscenza dell’altro, stima…
È questa la sfida che la Chiesa (come pure la società) deve affrontare all’inizio di questo secolo. La deve affrontare non solo per se stessa, ma anche per il mondo, perché ha scritta nei suoi cromosomi l’arte del convivere; essa infatti, è radicata fin dall’inizio nelle due dimensioni: locale e universale. Ciascun credente, e quindi ciascun chiamato deve essere nello stesso tempo un uomo della sua terra e assieme un uomo universale. Se non si ha questa ambizione corriamo il rischio dell’evanescenza del Vangelo. Intendiamoci: questo è vero da sempre. È vero da quando i Comuni italiani, dalle origini medioevali in poi, hanno lottato per la supremazia gli uni sugli altri. O anche quando nell’Europa le divisioni linguistiche e quindi culturali hanno portato, faccio l’esempio del Belgio, a dividersi fra valloni e fiamminghi sino al grottesco smembramento della biblioteca dell’università di Lovanio. Per giungere ai drammatici conflitti tra cristiani di diversa etnia come abbiamo visto, ad esempio, in Ruanda. Capita ancora oggi che in qualche seminario ove sono presenti ambedue i gruppi sia evidente la permanente ostilità tra loro. So bene che non si possono eliminare le proprie radici, ma l’ambizione di fare di ogni credente, e a maggior ragione di ogni chiamato, anche un uomo e una donna universali è assolutamente ineliminabile. Questo è il messaggio che la Chiesa è chiamata a vivere e a testimoniare in questo inizio di secolo.
Un’esistenza dialogica
Non è una questione di tecnica, ma di vita, che io chiamerei “dialogale”… insomma arte del convivere.
Se pensiamo alle tensioni e ai conflitti che oggi tormentano lo scenario internazionale, non c’è dubbio che il dialogo deve accelerare il passo, l’unica via per la convivenza pacifica tra i popoli. Tale dialogo deve divenire una condizione permanente della vita; la vita stessa deve trasformarsi in un’esistenza dialogale. È significativa una testimonianza di Martin Buber: “In Palestina noi non abbiamo mai vissuto con gli Arabi, ma accanto a loro. La coabitazione di due popoli sulla stessa terra diviene fatalmente opposizione, se non si sviluppa nella direzione di un essere-assieme. Nessun cammino permette di tornare ad una pura e semplice coabitazione. È invece ancora possibile incamminarsi verso lo ‘stare assieme’, anche se numerosi ostacoli si sono accumulati su questa via”. Queste parole le pronunciò davanti ad un uditorio di personalità sioniste, a Berlino nel 1929, pochi giorni dopo che decine di ebrei erano stati barbaramente massacrati da alcuni arabi a Hebron. E le stesse parole potremmo applicarle alle tante aree del mondo ancora oggi segnate dal conflitto. Dicendo esistenza dialogale vorrei sottolineare che il dialogo non è semplicemente un metodo nel rapportarsi tra le persone, i popoli, le nazioni, bensì un modo di vivere e quindi di relazionarsi, anzitutto tra credenti.
Un cenno al dialogo intraecclesiale. Bisogna rifuggire dalla semplificazione e dal monolitismo pastorale come pure va evitata la frammentazione. Nella Chiesa è necessario dare spazio alle diverse forme suscitate dallo Spirito, senza la pretesa di convogliare tutto in unum o di appiattire le diverse forme di esperienza ecclesiale. Non bisogna avere paura della dialettica all’interno della Chiesa. E deve essere salda la fede nella forza di cambiamento del Vangelo che è più forte delle differenze culturali e delle differenze etniche. Il fatto che si viva insieme al plurale richiede una responsabilità nuova e un modo nuovo nell’edificazione delle comunità cristiane.
Se penso al dialogo ecumenico il discorso procede sullo stesso piano. È vero che oggi il dialogo appare lento e stanco, tanto che da più parti non mancano atteggiamenti di scetticismo. Non mi dilungo ad esaminarne i motivi. Forse il metodo dell’incontro tra esperti e delegati, mutuato dallo schema negoziale, che peraltro ha spinto non poco in avanti l’incontro tra le Chiese, oggi segna un poco il passo. Il rischio di giocare l’ecumenismo solo tra Chiese concepite come entità astratte e disincarnate ha talora fatto dimenticare che esse sono realtà fatte di cristiani incarnati in storie, culture, psicologie, civiltà differenti. Ci sono problemi ecumenici che sono problemi di civiltà, quindi politici, sociali e culturali, che segnano anche il presente. In particolare le frontiere tra civiltà risultano le più dolenti: basterebbe pensare al limes tra Oriente e Occidente. È necessario superare memorie dolorose e pregiudizi radicati. E questo avviene attraverso l’incontro e il dialogo continuo, attento, premuroso e pieno di carità. Questa frontiera può vedere i giovani in prima linea, anche perché liberi, se così si può dire, dai pregiudizi della storia o da quella che potremo chiamare la patologia della memoria. Il dialogo ecumenico è una dimensione di vita: lo è nel pregare, nel voler bene, nel comprendere gli altri e il mondo. È un fatto primariamente interiore, spirituale. L’amore fa vivere l’unità, malgrado le imperfezioni, le fratture e le diversità, come se l’unità fosse già perfetta. E i giovani possono scoprire, forse più che altri, quell’unità che già esiste e che le divisioni non sono in grado di scalfire.
Una prospettiva analoga si trova nel dialogo con le altre religioni. È necessario tenere insieme dialogo e missione, evitando la tentazione di sopprimere uno dei due termini. Il dibattito all’interno alla Chiesa cattolica si è fatto molto vivace e talora sposta le posizioni verso i due estremi con il rischio di una sterile e nociva polarizzazione. Fortunatamente vi è stato l’evento di Assisi. Giovanni Paolo II, di fronte alla debolezza dei politici nell’offrire la pace, con una felicissima intuizione invitò i capi religiosi ad Assisi, nell’ottobre del 1986, per un momento straordinario di preghiera. Il bisogno di pace e l’intuizione di fede hanno preceduto (anzi abbondantemente sorpassato) la riflessione teologica e hanno permesso la realizzazione di un incontro di forte emozione religiosa, offrendo anche un’indicazione di metodo.
In quella giornata di Assisi è stata messa in comune la condizione di debolezza di fronte al dramma della guerra e la convinzione che l’unico aiuto potesse venire dall’Alto. Essere insieme, uniti dalla comune debolezza, è stata la chiave di volta di quell’incontro. Non si è trattato di mettere sullo stesso piano le verità dei diversi partecipanti, bensì la debolezza e il bisogno di salvezza; questi sì comuni a tutti. Ebbene, tali incontri non solo sono possibili, essi sono auspicabili e forse necessari, tenendo anche conto che il confronto non avviene tra sistemi teorici e orizzonti culturali (ovviamente in via generale), ma tra gli uomini che li sostengono, i quali sono portatori di istanze e problemi che vanno oltre i loro stessi sistemi di riferimento. Insomma, che il credente viva la propria fede come “vera”, quindi come assoluta, non implica che le altre fedi siano immediatamente e totalmente “false” in quanto tali e che perciò debbano essere combattute.
L’identità non si salva senza l’incontro e il dialogo con le altre identità. Ciò significa che la cordialità nei rapporti e l’esclusione di concepire l’altro come un nemico da combattere sono parte importante del proprio credere. Insomma la fede impegna “con” e non “contro” le altre tradizioni religiose. Tale condizione comporta che le religioni possano anche apprendere le une dalle altre, come con coraggio Giovanni Paolo II disse in India a proposito di Gandhi. È chiaro che in questo orizzonte è totalmente esclusa la realizzazione di una sorta di democrazia delle religioni, o di un’intesa a ribasso tra di esse.
L’orizzonte del dialogo va allargato anche ai non credenti; qui in Italia diremmo, ai laici. Anche qui non sono poche le esperienze che alcuni di noi hanno già fatto, con una notevole ricchezza. Senza alcun dubbio è anche questo un segno dei tempi nuovi. La ricerca della verità e del senso della vita, il bisogno di conforto e di confronto sono terreni propizi per l’incontro e la collaborazione tra credenti e non credenti. Non mi dilungo su questo versante che deve essere ancor più praticato.
L’unità della famiglia umana
È urgente oggi riscoprire il sogno nascosto di Dio: l’unità della famiglia umana. La chiamerei: l’ultima frontiera. È il futuro verso cui tutti andiamo e per il quale tutti operiamo. Quale debba essere questa unità non lo sappiamo, ed è davvero difficile immaginarla; forse è da pensare ad un concetto plurimo, non univoco, di unità. Ciascuna religione ha una comprensione più o meno profonda del mistero. “Né i Miei cieli, né la Mia terra possono contenerMi, ma il cuore del Mio servitore fedele Mi contiene”, è scritto nel Corano. Sembra di sentire l’eco delle parole di Gesù alla Samaritana: “Credimi, donna, è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità”. Gesù sembra prospettare una nuova umanità; potremmo dire che sposta il discorso e chiede a tutti di essere più “spirituali” che “religiosi”, più “santi” che “praticanti”. E forse a chi è chiamato bisogna chiedere fino in fondo di essere santo, prima che praticante.
Gli interventi
Le scelte vocazionali in un’esperienza di rarefazione culturale
Qualche mese fa ho letto un articolo di Vera Zamagni che diceva a quali condizioni una società dell’accoglienza resta società dell’accoglienza, e si pone anche il problema organizzativo della interculturalità e della multireligiosità. Questa problematica colpisce non solo la società italiana, ma di tutta l’Europa. Mi vorrei soffermare un po’ di più sulla dimensione giovanile. A me sembra che i giovani di oggi, appunto perché c’è questa situazione di multiculturalità, multireligiosità dove anche i saperi appaiono piuttosto strumentali che non di significato, sono – mi si consenta l’immagine – una specie di fluido senza punti di riferimento che favoriscano per essi la maturazione di un progetto di vita, di un’esperienza di fedeltà, di scelte che si siano legate a una finalità della vita che vogliono realizzare e impostare. A me sembra che questo è un problema per la pastorale giovanile e anche per la pastorale vocazionale.
L’anno scorso io scrissi una lettera ad alcuni politici perché hanno fatto una critica durissima alle persone del Sud che non si vogliono spostare per andare a lavorare nel Nord, perciò sono pigri, sono così e colà… Io ho scritto una lettera dicendo che sono del Sud e che non so se loro hanno come progetto politico di spopolare il Sud per creare una nave spaziale nel Nord dove far stare quelli che vengono dal Sud… e per quale motivo non c’è la possibilità di pensare a gestire la situazione del Sud? Forse questo è anche un problema mondiale, forse le migrazioni sono dovute anche al non voler gestire i problemi che ci sono in quei contesti culturali, senza pensare che gli spostamenti poi provocano divisioni di famiglie, disorientamento culturale e d’identità. Io ho un esempio concretissimo, proprio nel Sud due che sono impiegati nelle Poste, marito e moglie, uno lavora a Palermo e l’altro lavora a Catania e i figli stanno un po’ da una parte e un po’ dall’altra. A me queste sembrano problematiche obiettive da dover affrontare in una pastorale, in una Chiesa che vuole essere Chiesa cattolica, e che però è anche una Chiesa incarnata in un territorio. Lei cosa ci può suggerire?
Il linguaggio dello Spirito accoglie le diversità!
Volevo evidenziare, a livello giovanile, quelle che potrebbero essere delle sottolineature per la formazione della coscienza, perché mi sembra che l’intervento abbia toccato soprattutto questo: la capacità di creare delle coscienze così profondamente radicate – abbiamo usato l’espressione santità – da caratterizzare la capacità di entrare in quella verità che ha una dimensione escatologica, quindi non si esaurisce nel tempo, quindi non pretende di essere totalizzante, che non significa qualunquista, per cui: quali evidenze sottolineare? Quali priorità, proprio per ritornare a quello che in definitiva è, con immagine biblica, la tavola dei popoli, questa capacità di non credere che il linguaggio unico sia il linguaggio che Dio ci ha consegnato, perché quando arriva una sola voce e una sola parola è perché c’è il potente di turno che ha insegnato questa a tutti. Babele e anti-Babele: il linguaggio dello Spirito è un linguaggio che accetta le diversità. Quali priorità dare e soprattutto questo accettare ed abitare la conflittualità all’interno della nostra Chiesa, che significa anche la passione di dirci le sottolineature diverse proprio perché questo pluralismo ci provoca a non avere delle soluzioni uniche. Crescere con i nostri giovani e con la nostra Chiesa nella capacità di spendersi anche in soluzioni che sono diverse: secondo me su questo bisognerebbe lavorare molto, perché lei ha fatto una specie di battuta sul programma pastorale… I programmi pastorali sono uno strumento utilissimo ma sono uno strumento. C’è la comunione, c’è il regno, c’è la verità, come facciamo a dircele queste cose, con la passione di chi ci sta male, e che vuole la comunione?
Come realizzare cammini condivisi nella prassi pastorale?
Visto che si parlava di fluidità nel mondo giovanile, di incapacità ad orientarsi, ad avere dei valori, delle scelte… non le sembra che ci sia fluidità anche a livello di Chiesa, di episcopato, di prassi pastorale, riguardo a questo tema del dialogo, della interculturalità? Come possiamo pretendere dai giovani ciò che a livello proprio di prassi pastorale, di visione di Chiesa, è così fluido, dispersivo… per cui non si riesce davvero a capire qual’è il pensiero della Chiesa, soprattutto a livello di prassi e di scelte riguardo a questo tema della interculturalità. Penso che dovrebbe diventare proprio l’orizzonte di interventi pratici, di programmi pastorali, nella catechesi, nella predicazione, diventare cioè quasi l’interesse predominante e, per fare questo, credo che sia necessario intendersi, riuscire cioè ad avere dei cammini comuni, dei punti, come quello che lei ci ha presentato, il dialogo come la necessità della propria identità. Se questo principio fosse condiviso – e non mi pare che lo sia – e potesse diventare la trama pastorale quotidiana, credo che la Chiesa potrebbe offrire un grande servizio all’umanità.
Come sostenere negli educatori il “cambiamento”?
Mi ha colpito, eccellenza, quando lei parlava degli educatori, anche per riportare un po’ la nostra riflessione nell’alveo del nostro impegno particolare, quello della animazione vocazionale, della pastorale vocazionale nelle nostre Diocesi. A proposito degli educatori, degli animatori e di tutti coloro che hanno un
compito educativo, lei diceva che in questo contesto in cui l’interculturalità a volte può spingere a chiudersi, a sigillarsi nel proprio mondo, diventa difficile per gli educatori operare, perché scopo dell’educatore è quello di favorire il cambiamento, portare a delle mete educative. Allora, due domande. Primo: quale suggerimento agli educatori, agli animatori vocazionali per poter operare in questo contesto in cui il cambiamento è difficile? Per assurdo, in un mondo che cambia così rapidamente, sembra, come lei diceva, che poi la difficoltà più grande è proprio questo non voler cambiare, come stare immobilizzati sul proprio sedile in un treno che corre a rapidissima velolcità.
Un’altra richiesta. Come aiutare gli educatori e i giovani oggi a vivere questo contesto interculturale in cui siamo immersi, anziché come difficoltà, e quindi con le conseguenze negative della chiusura, della mancanza di dialogo, a cui lei faceva riferimento, come opportunità anche nel campo vocazionale? Grazie.
Interculturalità e multireligiosità possono diventare un’opportunità antropologica?
Se la radice delle vocazioni al ministero ordinato e alla vita consacrata è l’unica vocazione dell’uomo, cioè la vocazione all’amore e al dono sincero di sé, molto probabilmente parlare di interculturalità e multireligiosità significa parlare di una grande opportunità antropologica. Se sappiamo utilizzare questo appuntamento che la storia ci ha dato, comunque, molto diverso dal periodo che abbiamo vissuto in difesa ognuno della sua cultura e della sua religione, troveremo in esso una grande opportunità di utilizzare questo evento per educare a vivere l’immagine che si ha di sé proprio nel dono. Io ho sentito trapelare da quello che ci è stato detto prima da Mons. Paglia, proprio questa dimensione: lasciarsi tutto sommato provocare nel profondo, forse era anche questo che si voleva dire con vocazione alla santità. Anche noi abbiamo celebrato la GMPV dicendo: Chiamati alla santità, santi per vocazione, dai volto all’amore. Forse parlare di una cultura che ci costringe a misurarci con la diversità e una varietà di esperienze religiose può essere una grande opportunità.
Interviene e conclude Mons. Paglia
Quale sia il pensiero della Chiesa mi pare chiaro: io seguo il Papa. Quanto il Papa insista in questa prospettiva è evidente sia nei documenti che nella sua prassi pastorale. Poi è anche vero che nella Chiesa non c’è il monolitismo applicativo, però io credo che qui bisogna evitare il rischio di un clericalismo esagerato. Quando io ero giovane, negli anni Sessanta, qui a Roma c’era una specie di fermento pazzesco e tutti pensavano che la Chiesa sarebbe cambiata, per esempio, se il Papa avesse preso come tutti l’autobus, il 64 per andare… Oppure se il Vaticano fosse diventato più povero Roma si sarebbe convertita. Idiozie. Non è vero per niente. Era una concezione clericale, nel senso che la Chiesa sono i vescovi. So bene le difficoltà, ovviamente, però quello che voglio sottolineare è che la responsabilità dell’edificazione delle comunità cristiane è nelle mani di ciascuno di noi. Quindi, così come non abbiamo sostituito lo Spirito Santo con il piano pastorale, così pure non abbiamo sostituito lo Spirito Santo con la gerarchia. Grazie a Dio latius patet Spiritus Sanctus… Cioè voglio dire che questa prospettiva è per certi versi nuova nella Chiesa, anzi, se mi è permesso dire, la nuova situazione nella quale viviamo è essa stessa una chiamata, una vocazione. Questo tempo non è un accidens, è una chiamata, un segno dei tempi, chiamiamolo come vogliamo, ma è certamente per tutti noi una chiamata, perché offre alla Chiesa l’opportunità di dare un contributo efficace, non solo intra-ecclesiastico, ma culturalmente rilevante per quella civiltà dell’amore che già Paolo VI e Mons. Bonicelli, che allora era giovanissimo vescovo, se lo ricorda… Cioè la traduzione in termini un po’ ecclesiastici di questo nostro discorso è come costruire la civiltà dell’amore, dove anche il nemico non è più nemico, dove il perdono fa parte essenziale, se no Israele e i Palestinesi i morti se li contano tutti i giorni. Solo in una nuova dimensione di civiltà che blocca anche la vendetta è possibile la civiltà dell’amore. Ecco perché io credo che c’è bisogno veramente di veder fiorire, ovunque sia possibile, queste prospettive di incontro, di dialogo. Tale dialogo non solo ecumenico, ma interreligioso è un’esperienza che mostra non l’indebolirsi della fede, se mai il radicarsi. La nostra stessa esperienza è nata come esigenza, frutto di questa tensione di universalità e di rapporto vero con chiunque noi incontriamo. Ecco perché secondo me il pensiero della Chiesa teoricamente è chiarissimo, anche se nella prassi pastorale non dovunque è calato. A mio avviso è da vivere come una chiamata, quindi come una vocazione, quindi anche un’energia. Presentata in questo modo, è una dimensione che affascina il mondo giovanile.
Noi tutti sappiamo, cari confratelli e care consorelle, se parliamo dei nostri seminaristi, tutti noi conosciamo la loro fragilità, tutti noi conosciamo la loro debolezza, e anche la loro tendenziale chiusura. Ma noi con grande delicatezza, ma con grande determinazione dobbiamo spingerli oltre, magari accompagnandoli. Quando vado o sono andato a predicare nel Seminario regionale di Assisi, io non ho paura di dire che loro non stanno lì per realizzare se stessi, ma per diventare discepoli di Gesù, per diventare testimoni del suo amore fino alla fine. E questo li affascina di più, anche perché io sento il bisogno che ai giovani dobbiamo dare più felicità, gli dobbiamo dare più pane saporoso, meno ecclesiasticismo e più tensione per cambiare la vita, se stessi, il mondo, e far loro vedere che è bello. Allora l’apertura al mondo intero è determinante. Perché la Chiesa olandese è andata in crisi? Perché non ha più missionari, perché si è bloccata in questioni ad intra: la democrazia interna, etc… Una Chiesa olandese che aveva missionari a centinaia. Finita quella tensione la Chiesa sta morendo, e io con terrore temo che la Chiesa italiana rischi di attutire la tensione missionaria. I giovani debbono vivere con una tensione mondiale. Già nei nostri consigli pastorali, se noi stiamo sempre a discutere delle stesse cose, ma chi ci viene?… Ma perché ci devono venire? In questo senso a mio avviso, quando il Papa nella Novo Millennio Ineunte ci dice che il piano pastorale c’è già, non ne dobbiamo inventare uno nuovo, è Gesù da conoscere, da amare e da seguire, qui è il fascino che noi dobbiamo trasmettere ai nostri seminaristi o alle nostre ragazze, o ai ragazzi, che desiderano la vita religiosa. È il fascino di Gesù, uomo davvero universale, donna davvero universale. La priorità è questa tensione che il mondo loro non da. In questo senso anche i nostri seminari debbono ritrovare una tensione verso i poveri, i deboli, verso il Vangelo, verso il mondo. Bisogna far leggere i giornali, bisogna appassionarli per le questioni della vita. In questo senso l’interculturalità e la multireligiosità poi si deve tradurre anche nel non restare bloccati e chiusi. Non è che basta andare il sabato e la domenica in parrocchia per aprirgli il mondo, perché poi vanno in parrocchia e fanno i chierichetti… Ecco perché il problema a mio avviso è ridare uno spessore alto, forte, anche nei nostri seminari e nella nostra pastorale vocazionale, ridando a tutti il gusto di una vita ampia, che cambia, che rende… Se vedono un anziano che è contento quando loro lo vanno a trovare, quello è già rompere la chiusura.
Non so se ho risposto. Però i punti di riferimento sono Gesù, su questo insisto, il fascino di Gesù e i modi, le realtà da incontrare che in qualche modo scardinano quella chiusura nella quale tutti siamo come spinti ad entrare nella nostra società. Oggi non pochi giovani si stanno imbevendo di questo tipo di cultura che cerca rassicurazione, tranquillità, e quindi conservatorismo, che poi è l’egoismo tradotto in termini culturali. Però ciascuno di noi, compresi i giovani, siamo tentati al conservatorismo. Ed ecco perché va rotta questa tendenza che oggi è certamente maggioritaria. L’urgenza di mostrare ai giovani un mondo nuovo e diverso. Il Papa, ancora una volta, con grande audacia, quando fa questi grandi raduni, affida il mondo ai giovani, e questo secondo me è un grande coraggio che noi dovremmo riscoprire.