N.05
Settembre/Ottobre 2002

Vocazioni e territorio: la comunità cristiana locale luogo di scoperta e maturazione vocazionale

Procedo, anzitutto, con alcune osservazioni di carattere generale, ma non generico, che riguardano lo sfondo del problema, per passare poi a toccare alcuni aspetti che più specificamente intercettano le dinamiche delle comunità territoriali e delle altre realtà ecclesiali: comunità, movimenti, ecc.; perché questo è ciò che è stato indicato come tema. Anche la prima parte, tuttavia, è trattata sotto il profilo strettamente attinente a questa angolatura.

 

 

PROSPETTIVA GENERALE

È evidente che la questione delle vocazioni, e in particolare delle vocazioni – chiamiamole così – ecclesiastiche, la cui crisi numerica è grave, è preoccupante, come dice la NMI, in certi paesi di antica evangelizzazione questo problema si è fatto addirittura drammatico; anche in Italia ce ne accorgeremo rapidamente nel volgere dei prossimi venti anni, quando andranno a esaurimento le ultime propaggini delle generazioni delle classi numerose, di cui colui che parla è uno degli ultimi scampoli… Nella mia Diocesi, dopo la mia classe, nessuno ha raggiunto quel numero; credo che questo sia un dato abbastanza generalizzabile. Dunque questa problematica non si comprende e non si affronta come problema isolato. Ho cercato di individuare alcuni punti che maggiormente si riferiscono al problema nella sua complessità ma in relazione al territorio.

 

L’identità cristiana come vocazione: figura culturalmente sfocata

È un punto fondamentale, che devo affrontare rapidamente perché la connessione col territorio è soltanto relativa. È un discorso di campitura culturale generale, ma è un discorso, a mio modesto avviso, troppo poco osservato, e osservato troppo moralisticamente, non culturalmente: “Oggi non vogliono più impegnarsi…, oggi la società del benessere…” ecc.; tutte cose che sono vere ma che non sono la verità e che non si affrontano attraverso una riconduzione di carattere esortativo. Vorrei dire che anche la correttezza della proposta forte, cui faceva riferimento monsignor Paglia (cfr. ‘Vocazioni’ 4/2002), deve essere compresa bene, perché questo tipo di psicologia sociale è sensibile a questi tipi di proposta che però sono molto scoperti sul fianco del massimalismo e del fanatismo. Dunque, la soluzione non passa né dalla via moralistica né dalla via semplicemente della presa dal punto di vista individuale. In realtà, si sono decostruiti alcuni codici di fondo; senza la ripresa di questi aspetti, il discorso vocazionale vaga inesorabilmente, frammentato e disperso. Questi codici sono fondamentalmente:

il codice del tempo: l’idea di tempo lineare, progressivo, che ha retto fino all’altro ieri, non è più quella che guida, nella quale si comprendono i fenomeni generali e culturali del nostro tempo. Anche la frattura illuministica l’aveva conservata, per tutta la modernità, sotto la veste secolarizzata di progresso. Questa tensione escatologica per cui il tempo, la vita, la storia vanno verso un obiettivo, è terminata trenta anni fa. Questo è un punto di fondo che noi avvertiamo costantemente. Tanto è vero che la difficoltà a leggere l’esistenza come finalizzata e orientata, trova riscontro nella catturazione semantica da parte del mercato. Vengono catturati dal mercato perché termini come vocazione e missione fanno parte, oggi, – sempre in inglese, soprattutto “mission” – del vocabolario delle imprese. Ogni impresa oggi ha una “mission”; vocazione e missione sono termini che si legano a questo ambito. Quindi il tempo non è quello lineare, vettoriale, escatologico. Non è nemmeno il ritorno del tempo ciclico, tipico della società agricola, legata ai cicli delle stagioni… È un tempo che io chiamo “cronico”, nel senso che si misura con il “cronos” dell’orologio, del calendario, secondo piani estremamente pragmatici, connessi con l’efficienza. Nulla contro l’efficienza. L’inefficienza ecclesiale è patetica, ma l’efficienza non è, tuttavia, per l’interpretazione dell’esistenza.

Un altro codice scomparso è quello del sacro, che tocca tanti aspetti della vita pastorale ed ecclesiale. Certamente, quello delle figure di riferimento presbiterale e religioso/consacrato che sono sempre state interpretate – nel bene e nel male – attraverso questo codice. Nel male, mi riferisco alla concezione della inter-mediazione, che non ha nulla a che vedere con la sacramentalità cristiana del ministero ordinato, ne è una tipica sacerdotalizzazione di stampo neo-pagano. Culturalmente la connessione era posta, ed era posta efficacemente. Questa connessione è scomparsa. Quindi l’invadenza, al posto del codice del sacro, in verticale, del codice del paranormale, dell’esotico olistico e ecoteologico, panenteistico e via discorrendo… La decostruzione dei codici valoriali… Facciamo cenno anche a narcisismo, prometeismo, valore del consumo… la questione antropologica, insomma, nella sua crucialità. Io sono convinto che, senza un’azione culturale forte su questi fattori, il discorso vocazionale non ha agganci. E anche la presentazione esortativa o “fashion” della figura di Gesù, è esposta a rischi gravissimi.

 

Una figura, quella dell’identità presbiterale, sociologicamente decentrata, delocalizzata

Detto brevissimamente: da figura centrale dell’assetto socio-culturale del vissuto di una comunità a figura decentrata. Non dico marginale, ma dico decentrata perché non sta più al centro; così come la parrocchia non sta più al centro. Né l’una né l’altra – la Parrocchia e il Parroco – sono le realtà a cui ci si riferisce per interpretare, progettare e attuare l’esistenza. Non sono, magari, realtà di secondo o di terzo piano, ma hanno assunto un altro profilo. Tutto questo ha portato alla restrizione teoretica della concezione di azione pastorale, coperta pateticamente dalla teologia del “triplice munus”, e al rimbalzo sulla figura presbiterale, rubricata, più o meno consciamente, nel ruolo del funzionario. Perché questa è attualmente la ricezione dal punto di vista psico-sociale della figura presbiterale: è il funzionario di una valida agenzia fornitrice di servizi. L’apprezzamento che persiste, persiste a prezzo di questo grave snaturamento. Dico subito: vorrei sapere chi, per fare il funzionario mal pagato del sistema ecclesiastico, si sottopone a tali e tante condizioni: deve avere qualche malattia!

 

La identità della vita consacrata: una figura psicologicamente anomala

Lo stato di vita espresso dai tre classici voti, nella sua variegata differenziazione, raccolta difficoltosamente sotto il lemma di “vita consacrata”, risulta impenetrabile ai codici di comprensione, di comunicazione diffusi. Impercorribilità del sacro, del tempo escatologico e l’accezione del tutto negativa della rinuncia, sotto la quale viene interpretata la scelta dei tre voti,… l’insieme costituisce, configura una diversità che non provoca, che non è controculturale ma semplicemente estranea alla cultura diffusa. È vigente una concezione della vocazione che riduce il fatto vocazionale a questione soggettiva e psicologica, cioè compressa dentro il perimetro angusto e chiaroscurale della realizzazione di sé o del proprio sentire (“io mi faccio prete… mi faccio frate… mi faccio suora”), dove viene distorta l’autentica comprensione del fatto vocazionale cristiano, che certamente è realizzazione di sé – e guai se non lo fosse – ma non in quel senso, in un altro senso: “Chi vuol tenere per sé la propria vita la perderà”; quello è il concetto sbagliato, rovesciato di realizzazione. Ma pare che i rovesciamenti siano stati fin dall’inizio il volto preferito del peccato…

Questi fattori salienti, che connotano i processi educativi nella famiglia e nella scuola e invadono l’universo variegato della comunicazione mediatica, mettono in evidente difficoltà ogni seria prospettiva vocazionale. L’insidia è ancor più evidente se si considera che tutti questi processi non tolgono plausibilità sociale alle figure vocazionali specifiche e speciali (presbiterale, consacrata, ecc.)… non tolgono plausibilità sociale ma, appunto, la distorcono, ne snaturano la fisionomia, per cui la irrilevanza di queste figure sotto il profilo simbolico profondo (simboli che riguardano il senso della vita) viene compensata attraverso la rilevanza dei servizi sociali; questo è corrispondente, del resto, alla pastorale dei “clienti”, fornitrice, appunto, di “servizi”, in quella società moderna che già Hegel prefigura come “società dei bisogni”, e quindi delle relazioni sociali come fondamentalmente relazioni di espressione di bisogni e di risposta ai bisogni, in questo senso, con molto acume. Ed è dentro questo quadro che permane la plausibilità di tutto il sistema specifico delle figure ecclesiali. È evidente che, da questo punto di vista, urge una ridefinizione dei profili ecclesiali, ministeriali e degli stati di vita specifici e speciali. Per “specifici” voglio dire che sono degli stati di vita particolari, quindi sono specifici; e quando dico “speciali” mi riferisco particolarmente alla vita consacrata nelle sue varie forme, che è una vita speciale.

Questo per quanto riguarda la prospettiva generale. Secondo me, per un buon lavoro, ce ne sarebbe d’avanzo, se ci si vuole fermare non soltanto a livello di intuizione della questione, ma di confronto vero e proprio con la questione medesima. Perché io ho l’impressione che poi il richiamo alla santità, alla spiritualità, ecc., più che necessario, funga troppo spesso da copertura di questa problematica. Cioè, molto spesso si mette in evidenza questa problematica…, fatto questo, si passa, schizofrenicamente, a proporre la via della santità. Questa è schizofrenia, e come tale va curata! Questi problemi si risolvono solo affrontandoli e prendendoli dal di dentro. Diversamente, è anche inutile fare la diagnosi. Io vado dal medico e mi dice: “Lei ha questo, questo e questo”, e poi mi saluta e mi dice: “Cerchi di stare bene, su con la vita”. Insomma! Il modo di procedere è generalmente di questo tipo. Io credo che si debba fare lo sforzo… io sono il primo ad essere sguarnito, sotto questo profilo, però non voglio, con questo, nascondermi dietro un dito e dire: “Si risolve così, così e così”.

Elementi necessari, assolutamente necessari, ma assolutamente non risolutivi, come dimostrano tante figure di santità eccelsa, anche del nostro tempo, che non risolvono questo tipo di problema. Certo, mi si dirà che se fossero di più sarebbe meglio… ma il problema va affrontato dentro le dinamiche che si sono poste.

 

 

 

PROSPETTIVA TERRITORIALE

Per passare rapidamente a toccare più da vicino il territorio, ecco un esempio di quella che a me sembra affermazione ineccepibile ma… “La parrocchia è il luogo per eccellenza in cui va proclamato l’annuncio del vangelo della vocazione e delle singole vocazioni, tanto da doversi pensare come comunità vocazionale, ministeriale e missionaria”. Bene. E cioè? Vorrei rovesciare la questione di prima, a proposito dei progetti e programmi. La progettualità vuol dire confrontarsi con le questioni concrete e sapere che cosa concretamente si può fare; per non scrivere uno dei due grandi tomi inutili che la pastorale scrive quotidianamente, cioè, oltre al libro delle lamentazioni, il libro delle buone intenzioni. Non hanno bisogno di pagine aggiuntive e di supplementi! Ne hanno già a sufficienza. È evidente l’evanescenza parenetica di tutto questo.

Il territorio, invece, si configura come luogo reale in cui si esprimono le vocazioni cristiane e si configurano in maniera corretta quelle di servizio ecclesiale. Cioè, in concreto mi sembra che questo voglia dire non solo una esortazione alle comunità locali a far sorgere vocazioni; ma anche a sfuggire alla genericità. La connessione con il territorio è anche una tipicità che non può essere disattesa e che in fondo apparteneva ad una sapienza antica, superata poi dalla mobilità, ma non, forse, con tutta intelligenza, cioè, quando determinate attribuzioni, anche canoniche, venivano date al prete, al parroco di un luogo, di una realtà, di una chiesa locale e non di un’altra. [Si pensi, per esempio, a certe norme che anche a me, tanti anni fa, da giovane, sembravano un po’ peregrine, a proposito delle facoltà della confessione, ecc. …che invece ritengo norme rinsecchite canonicamente, allora senza senso; ma comprese ecclesialmente e teologicamente ricche di significato.] Così è anche per le vocazioni. E probabilmente dovrà diventare così anche per la differenziazione dei profili attraverso i quali si realizzano. Noi, da questo punto di vista, abbiamo anticipato la globalizzazione, abbiamo tendenzialmente prodotto figure ecclesiastiche valide dovunque e comunque, “prodotti standardizzati”, così escono dalle nostre “fabbriche”, solo ne escono molti di meno… Anche questo, se da un lato mantiene il valore della universalità del servizio ecclesiale, per cui non ci si può in alcun modo sottrarre, dall’altro attenua eccessivamente la connessione di un servizio ecclesiale posto in una determinata situazione.

Dunque, il territorio in qualche modo diventa il luogo nel quale prende forma la modalità concreta del seguire Gesù e del servire una comunità. A volte, alcuni disagi che si manifestano nei primi anni di ministero – con conseguenze, come si sa, anche molto dolorose – derivano dal fatto che l’immaginario vocazionale inconscio, cioè quello che la persona ha coltivato in relazione alla sua comunità di origine e alle sue comunità di riferimento, si trova completamente spiazzato in relazione alle comunità in cui va a operare. Questa relazione è profonda e non può essere “by-passata” [aggirata] attraverso il tema corretto, ma da non usare scorrettamente, del servizio ecclesiale, della disponibilità a servire la Chiesa là dove c’è bisogno. Un tema che è indubbiamente vero.

 

La comunità cristiana locale come luogo della scoperta vocazionale

Nel senso che le vocazioni ecclesiali vengono determinate non soltanto da un movimento psicologico interno, ma dall’incontro tra alcune attitudini, disponibilità del soggetto e alcune necessità concrete del vissuto della comunità. Anche sotto questo profilo, a me sembra che il territorio indichi la necessità di riprendere anche questa componente… anche nella storia della Chiesa vocazioni illustri – cito Agostino e Ambrogio – sono nate non dai progetti di quelle persone, ma sono nate – così vuole la loro biografia – da precise richieste della realtà. Io trovo sempre interessante il fatto che, soprattutto per sant’Ambrogio, il suo dies natalis non sia, come abitualmente è, il giorno della sua morte, ma sia il giorno della sua ordinazione episcopale: 7 dicembre 374. È un fatto indicativo dell’importanza che anche nella memoria liturgica si è voluto dare a questo, e questo viene da una chiamata che lui non aveva messo in conto. È vero, questo può venire anche dalla irruzione dello Spirito, per cui uno ha fatto dei progetti e poi capisce che li deve cambiare… ma questa voce dello Spirito passa anche attraverso l’esigenza della comunità. Non abbiamo più educato le persone a definire il proprio futuro in relazione non soltanto ai propri desideri ed eventualmente alle necessità economiche, a cui si piegano troppo spesso i desideri e le aspirazioni – è così che i ragazzi smettono subito di sognare – e, invece, [dobbiamo] abituare a rapportarsi alle necessità: la diaconia non è soltanto dopo la vocazione, a me sembra che stia anche all’origine della vocazione e ci sta proprio dentro la concretezza del vissuto di una Chiesa locale, parrocchiale o diocesana. Questo mi sembra un aspetto poco coltivato e che meriti maggiore attenzione.

 

La comunità locale come luogo di maturazione vocazionale

Sotto questo profilo, il tema è molto lavorato, molto arato, ma io non potevo non richiamarlo. Però mi veniva in mente il titolo provocatorio che nel 1980 padre Marsili dava ad un numero speciale della “Rivista di pastorale liturgica”, cioè: “Perché dai sacramenti non nasce la Chiesa”, titolo molto provocatorio che suscitò anche qualche irritazione dei puristi teologici che affermano: dai sacramenti nasce la Chiesa. Il che, dogmaticamente, è ineccepibile. A me veniva in mente: perché dai processi, dagli itinerari di iniziazione cristiana non nascono identità, per cui non si sentono “vocazione”? e lo dico nel senso lato, non solo quelle specifiche e speciali, ma parlo delle vocazioni nel senso lato. Io credo che questo aspetto vada fortemente rimarcato.

Se posso aprire una parentesi, sarebbe ora e tempo di riprendere in mano il tema dell’iniziazione cristiana non parcheggiandolo periodicamente tra i catechisti e i liturgisti, palleggiandoselo l’un l’altro, ma riprendendolo nella sua organicità. E anche nella sua fattibilità. Perché sono trent’anni che sulla iniziazione cristiana scriviamo il libro delle buone intenzioni. Sarebbe ora e tempo di cominciare a scrivere qualche riga su ciò che si può fare e che si vuole fare. [Magari stanando anche i vescovi, perché prendano le decisioni che devono prendere – perché honor-honus – e quindi si assumano le responsabilità che devono assumersi].

In ogni caso, senza di questo è evidente che il discorso vocazionale rimane fortemente sbiadito. Il tema dell’iniziazione, del diventare cristiani, dell’educazione e dell’educazione cristiana meritano un’osservazione molto più vigorosa. Anche sotto questo profilo, io ritengo che, a volte, giornate di preghiera per le vocazioni, di sensibilizzazione per le vocazioni, nascondano la totale evanescenza del tema da tutti gli itinerari educativi e formativi concreti. Naturalmente, non ho niente contro le giornate di preghiera… farebbero bene anche a me, che ne ho estremo bisogno… ma si capisce quello che intendo dire: questa occasionalità della pastorale vocazionale è assolutamente nefasta. È evidente che non l’Ufficio Nazionale Vocazioni, ma la dimensione vocazionale, certamente, è costitutiva e denotativa della pastorale, in particolare dell’educazione cristiana. Questi elementi non emergono in maniera sufficiente.

 

La comunità locale oltre i suoi confini

Per quanto riguarda la comunità locale territoriale, è evidente che essa, anche quando si concepisce entro confini ristretti, non è mai un orizzonte ristretto, perché per natura sua cattolica. Sotto questo profilo è evidente che ogni vocazione ha, dunque, una connotazione specifica, una fisionomia specifica in relazione a un concreto, ma nello stesso tempo è/deve essere proiettata in dimensione cattolica, universale. In questo senso è da sottolineare l’osservazione di monsignor Paglia: il venire meno della dimensione missionaria, dello slancio missionario, è penalizzante per le vocazioni di ogni tipo [cfr. ‘Vocazioni’ 4/ 2002]. Questa è una convinzione che io non ho maturato recentemente…, me lo sono sentito dire ripetutamente in seminario, e ringrazio chi me lo ha detto allora; credo che avesse ragione allora, quando numericamente il problema non si poneva, ma credo che abbia ragione anche adesso, quando il problema numerico può spingere a una forte concorrenza interna tra realtà ecclesiali.

D’altro canto, emerge anche il tema, che tocca specificamente le fisionomie delle vocazioni ecclesiastiche, della revisione dei confini territoriali delle realtà locali. È un tema, questo, a cui si è dedicata particolare attenzione negli anni recenti, in particolare da parte del COP, sia per la sua tradizione in ordine alla parrocchia, sia, poi, a partire dal 1993, dal Convegno di Assisi, a proposito del tema delle unità pastorali. Come ebbi a dire già in quel Convegno, suscitando qualche irritazione, la prospettiva necessaria, utile, importante, era esposta e rimane esposta a grave rischio. Cioè: il rischio è che la ridefinizione del territorio produca una ulteriore spersonalizzazione e burocratizzazione delle figure di riferimento ecclesiale. Questo è un rischio assolutamente non ipotetico. Detto molto semplicemente: che la figura presbiterale e le figure degli operatori pastorali più rilevanti – che in generale, attualmente, sono ancora figure di religiosi e religiose – finiscano per non essere più considerate in relazione a una comunità concreta, ma una sorta di centro servizi. Allora mi era venuta l’espressione un po’ birichina che “dopo i fasti delle unità sanitarie locali, forse avremmo visto anche quelli delle unità pastorali”… La provocazione era sufficiente a illustrare il pericolo. Questo può accentuare l’aspetto di burocrazia, l’aspetto di “funzionario”, già messo in evidenza, che è, a mio parere, uno dei fattori che maggiormente penalizzano il discorso vocazionale. Nessuno si apre con interesse verso prospettive poco attraenti.

Inoltre, bisogna sottolineare un altro rischio sotto questo profilo: che la concentrazione di alcune figure insieme – questo riguarda in particolare il ministero presbiterale, meno la vita religiosa, che per natura sua è così – dia spazio a quella pseudoteologia che si è venuta propalando qua e là, secondo la quale la comunità presbiterale è fatta da due o tre preti che vivono insieme. Si tratta, in quel caso, di convivenza di presbiteri, che non è come quella non coniugale, quindi è consentita, e forse anche consigliata e lodevole, ma la comunità del prete (del non religioso) è il presbiterio attorno al vescovo ed è la gente alla quale è inviato come pastore. Basta! Il resto sono relazioni utili, necessarie… Sotto questo profilo, a mio parere, anche qui si annodava una insidia.

Il territorio allora rimane una realtà forte di correlazione ecclesiale, ma anche relativa, che deve essere superata e che prospetta la fisionomia vocazionale di servizio ecclesiale come dinamica, come capace di relazioni molteplici, come capace di interazione. È tutto un ampio capitolo che deve essere sviluppato nella attrezzatura formativa e pedagogica.

 

La correlazione tra la comunità territoriale e le altre realtà ecclesiali

Sotto questo profilo, sono più attrezzati, normalmente i movimenti e anche le congregazioni religiose, che di per sé, naturalmente hanno una connessione territoriale molto più dinamica, molto meno connessa a confini circoscritti. In questo senso offrono un contributo.

Bisogna assolutamente evitare che la diminuzione numerica, la carenza numerica, catturi i religiosi dentro servizi che non sono loro congeniali, a meno che scoprano di avere sbagliato vocazione e la cambino, …allora è un altro discorso. Ciascuno deve dare, senza purismi, senza irrigidimenti, ma ciascuno deve mantenere la propria fisionomia e il proprio ruolo. E questo ruolo è dimostrare la varietà dei doni e delle vocazioni. Certo, da un punto di vista generale si potrebbe anche pensare che questo oggi è garantito sufficientemente dalla comunicazione mass-mediale. Voglio dire, in parole povere: quando la vita era statica, la gente vedeva il parroco, se c’era, un vice-parroco, un cappellano, vedeva sempre quelli. Quando arrivava il predicatore, vedeva un altro… Le figure ministeriali erano molto ristrette. Oggi, si penserebbe, attraverso i mezzi di comunicazione, se ne vedono di tutti i colori. E nella televisione è vero in senso letterale, oltre che in altri sensi. Per cui si potrebbe pensare che l’offerta è garantita, nella sua varietà, dai mezzi della comunicazione. Mi sembra, per la mia esperienza – che quindi è uno spaccato limitato: non ho presente nessun tipo di indagine sotto questo aspetto –, che in realtà, nell’immaginario diffuso ci sia appunto un “immaginario diffuso” e fortemente confuso. Per cui le figure di ministerialità ecclesiale specifiche e speciali sono tra loro confuse e intercambiabili. È vero, c’è stata la sacerdotalizzazione dei religiosi, e, per quanto è stato possibile, anche delle religiose; c’è stata la monasticizzazione dei presbiteri. Quindi c’è stato un avvicinamento. Anche qui, abbiamo anticipato la globalizzazione, ma non è buona cosa. Sono convinto che sia di grande importanza la tipicità delle varie figure. Non vedo, per esempio, di buon occhio quando una congregazione religiosa, che ha la sua propria fisionomia – come si usa dire, abusando del termine, il carisma del fondatore -, quando si affacciano delle persone che manifestano una propensione, ma che magari sarebbe meglio orientare ad altro luogo, le prende ugualmente; al punto tale che questo – mia esperienza diretta – può addirittura produrre un disagio generalizzato dentro una congregazione, perché poi una parte notevole dei suoi appartenenti, non essendo stata ben orientata sul carisma specifico, ad un certo momento avanza tutta un’altra sensibilità, quindi pone in campo tutta un’altra prospettiva. Io sono convinto che, da questo punto di vista, sia veramente importante prospettare l’ampia varietà delle vocazioni anche specifiche e speciali. La differenza un po’ curiosa degli abiti – che era maggiore un tempo – garantiva sufficientemente questa informazione, anche perché la gente è curiosa: se voi le date il libro delle regole del fondatore probabilmente non lo legge; se vede uno che è vestito in un modo un po’ più strano di un altro, si domanda: Perché? Cos’è? Cosa vuol dire?

Veramente, le nostre istituzioni ecclesiali devono mostrare la tipicità del loro servizio ecclesiale. Anche questa è una strada fondamentale. L’appiattimento sul generico, quella pastorale dei “clienti”, l’inseguire le “richieste di mercato”, è una forte debolezza. Le realtà ecclesiali, antiche e nuove, che si sono e sanno proporsi con una fisionomia molto precisa, ottengono riscontro di significatività. Non è detto che questo equivalga immediatamente a un riscontro numerico. Però questa è una strada di rilevanza indubbia. Quindi la risposta a un territorio, a una cultura, a una fisionomia, una risposta che però supera quei confini, una risposta che, superandoli, tuttavia, non si perde nella genericità e nell’indistinto, nell’indifferenza, ma vive di differenza.

Il tempo che abbiamo davanti è un tempo che esalterà le differenze. Il problema delle migrazioni è problema serio, è problema molto difficoltoso che non si risolverà all’interno del vetusto, anche se ancora imperante, paradigma culturale del pluralismo tollerante. Questa è l’illusione dell’Occidente e anche di tanti cattolici che hanno bisogno dell’oculista. Quel paradigma non è adatto, non risolve. Lo è, invece, quello delle differenze. Ora, se questo tema della differenza, della tipicità, è valido già dall’interno della realtà ecclesiale, diventerà tanto più valido quanto più il confronto andrà articolandosi e aprendosi in questa prospettiva. Ecco alcune idee che ho cercato di sviluppare a partire dalla sollecitazione che mi era stata offerta, a cui spero di avere, almeno in parte, risposto.

 

Termina qui la relazione di Mons. Sergio Lanza. Al suo intervento ha fatto seguito una serie di risonanze e di interrogativi da parte dei membri del Consiglio Nazionale, del Gruppo Redazionale e degli Ospiti invitati per l’occasione. Al termine don Sergio ha risposto e concluso. Vengono qui di seguito riportati tali interventi, ricavati da registrazione e non rivisti dagli intervenuti

 

 

 

INTERVENTI

 

Il fondamentale aspetto antropologico. La tipicità di fronte ai bisogni del territorio

Mi piace sottolineare questo substrato culturale-antropologico, che diventa sempre più fondamentale, se noi vogliamo tentare di posizionare problemi-realtà non solo ecclesiali, e su cui siamo – oserei dire – maledettamente sprovveduti. Così pure mi pare molto importante l’abbinamento necessario, a cui nella formazione diamo pochissima importanza, del seguire, accompagnare, discernere le aspirazioni personali per una maturazione vocazionale e insieme leggere le richieste della realtà, le necessità del territorio, di conseguenza, quindi con una valorizzazione, anche ripresa in maniera forte, di tutto l’itinerario dell’iniziazione cristiana; se alla fine di tutto un cammino di iniziazione cristiana non abbiamo aiutato un giovane, una ragazza a indirizzarsi, a cercare di capire perché esiste, verso che cosa potrebbe orientare il significato della sua esistenza, davvero diventa problematico… Con tutto quello che ciò comporta circa l’età di una realtà di questo genere.

Un’altra dimensione che a me preme parecchio è il fatto del territorio come correlazione ecclesiale, interazione molteplice, contro – pro un appiattimento: potrebbe essere un tentativo di venire incontro piallando le tipicità, la sottolineatura di questa tipicità. Vorrei chiedere: Come mettere insieme la tipicità, che deve essere continuamente ancora sottolineata, con le necessità del territorio, che magari esigono – facciamo l’esempio dei religiosi – la richiesta enorme, da parte dei vescovi, di parrocchializzazione? Come mettere d’accordo un’esigenza di questo genere con la tipicità? Si dice: Non mascheriamo noi stessi, prendendo un’identità sfuocata, lasciando perdere le nostre caratteristiche “carismatiche”, assomigliando magari più a un parroco diocesano che alla nostra realtà di vita consacrata! Come mettere veramente insieme le due cose? Credo che tutto questo esiga una riflessione molto grande, a cui forse non si è ancora dato grandi risposte. Perché la necessità del territorio magari esige che in tanti interveniamo, però in questo intervenire è molto facile poi perdere un po’ la nostra identità tipica, su cui giustamente il professore ha fatto la sottolineatura.

 

Movimenti inglobanti le altre vocazioni: inversione di ruoli?

Io vorrei fare un cenno ai movimenti contemporanei che hanno anche al loro interno molte vocazioni, dunque ci interessano da diversi punti di vista. Sembra che una tendenza generalizzata dei movimenti che nascono sostanzialmente come movimenti laicali poi sia quella di inglobare anche le altre vocazioni, per cui ci ritroviamo dopo un po’ di tempo con i movimenti che hanno al loro interno dei religiosi, delle religiose, dei sacerdoti diocesani, dei vescovi, qualche cardinale; e alcuni di loro hanno una grande forza ecclesiale. Mi domando: Questo non va contro questa differenziazione di cui parlava prima? E ancora: a me piacerebbe che ogni Chiesa locale avesse al suo interno tutte le vocazioni e che fossero legate alla struttura della Chiesa locale, lì vedo l’unità e la differenza di tutte le vocazioni dentro quella che è la Chiesa particolare. Mentre mi sembra che i movimenti, che a volte non sono legati alla Chiese particolari e sono solo coperti in qualche modo dalla Chiesa universale, alla fine si ritrovino in nome di una spiritualità – chiamiamola così – di una delle spiritualità possibili, si ritrovino a condurre una “loro” pastorale, un “loro” stile, un “loro” modo, un po’ ecclesiale (?) in Ecclesia, come qualcuno ha anche teorizzato e ha detto che dovrebbe essere proprio così. Io non so se questo porti a delle vocazioni e poi a dei giovani che entrano nella vita consacrata, nella vita religiosa e nella vita sacerdotale, disponibili, per esempio ad essere pastori dell’insieme o ad essere domani religiosi aperti alla cattolicità.

 

Quali elementi possono aiutare la formazione in questo senso nei seminari?

Riguardo alla necessità di ridefinire gli stati di vita specifici e speciali, mi domando: come – nell’ambito della mia esperienza di Seminario, di formazione che stiamo facendo – la ratio studiorum che noi abbiamo, l’impostazione che abbiamo ricevuto, anche le ultime indicazioni date dall’episcopato italiano, vanno verso questa direzione? Quali sono gli elementi che dovrebbero essere sottolineati e aggiunti per aiutarci a fare questo?

 

Catechesi, liturgia e carità per costruire itinerari ed iniziative per l’integrazione

Vorrei dare la mia testimonianza sulla base dell’esperienza della Cappella Universitaria di Siena. In relazione all’intervento di mons. Paglia (cfr. 4/2002), non ritrovo dentro la comunità ecclesiale tutte queste problematiche, che possono essere politiche e che leggo indubbiamente nei giornali, ma che non ritrovo lì. I fatti oggettivi rendono ragione di quello che sto dicendo. L’università di Siena ha due atenei, l’ateneo normale e l’Università per stranieri, dove convergono da tutte le parti del mondo. La Cappella Universitaria, che è fatta da una comunità di sacerdoti, religiosi e giovani, che prende di fatto il territorio, raccoglie anche studenti che sono musulmani, che sono di ogni ordine… Domenica scorsa il vescovo ne ha battezzati 5 in cattedrale, provenienti da un percorso, da un cammino dentro la Cappella Universitaria. Un giovane della Tanzania entrerà in seminario in Tanzania, seguito all’interno della Cappella Universitaria…

Dunque un percorso che raccoglie indubbiamente i 3 ambiti fondamentali ai quali ho sempre tenuto: catechesi, liturgia e carità. Dentro questi 3 percorsi noi abbiamo costruito tutti i nostri itinerari, programmi, dalle iniziative liturgiche a quelle formative e a quelle dello stare insieme. L’integrazione di questi ragazzi all’interno della Cappella Universitaria c’è stata, diversamente, per esempio, dal seminario di Siena, dove attualmente ce ne sono 2 che non accettano questa integrazione con i ragazzi della Tanzania. Mentre i giovani dentro la comunità ecclesiale non si fanno tutti questi problemi. Domenica scorsa i ragazzi dell’Università hanno confezionato torte e le hanno vendute davanti alla cattedrale di Siena per un ospedale della Tanzania. Tutto questo di fatto nasce da un’attenzione ai bisogni dei ragazzi che noi all’inizio dell’anno facciamo; i bisogni normali, cioè: la casa, l’accoglienza; un bisogno d’amicizia… pertanto immediatamente vengono ricondotti dentro il percorso della Cappella Universitaria, nel vivere momenti d’insieme, come può essere, per esempio, la festa che hanno fatto per questi 5 ragazzi del battesimo di domenica scorsa, dove i nostri ragazzi hanno preparato insieme la festa.

Ora sono 2 le cose fondamentali che reggono di fatto questa struttura: la testimonianza, che è il fatto di ritrovarsi insieme, dello stare insieme, del pregare insieme, del vivere momenti anche ludici; e poi – la seconda cosa che ritengo fondamentale – una compagnia di amicizia che accoglie questi ragazzi, che aiuta questi ragazzi e che accompagna questi ragazzi. Questo non solo per quanto riguarda i terzomondiali, ma anche per quanto riguarda tutti gli altri che di fatto vengono dal Sud. Anche se, indubbiamente a Siena una grande difficoltà è di fatto l’accoglienza da parte dei senesi stessi nei confronti dei ragazzi del Sud. Però questo è un percorso che ritengo davvero fondamentale. Ecco perché queste 2 linee, sia della testimonianza che della compagnia di amicizia, dentro questo percorso, favoriscono questo cammino di integrazione con questi ragazzi e nello stesso tempo anche le vocazioni. In 11 anni di Cappella Universitaria, 8 giovani sono entrati nei seminari italiani, 3 negli istituti religiosi e quest’anno abbiamo la fortuna di un ragazzo della Tanzania. Certo, dietro questo c’è anche tutto il percorso che giornalmente fanno sia le suore che l’altro attuale vicedirettore della Cappella Universitaria, della direzione spirituale e della confessione, che ogni giorno in Cappella Universitaria si tiene.

 

Quale riflessione culturale può produrre un “immaginario” evangelico e non stereotipato?

Mi ha colpito molto la riflessione, in tutte le sue dimensioni. Un rilievo: forse potrebbe essere esplicitata di più, per l’importanza che ha, la dimensione relativa al fatto che tutte queste trasformazioni, decodificazioni, sono un problema di tipo culturale e non semplicemente di strategie.

Riguardo all’immaginario diffuso sulle figure di persone che hanno una particolare vocazione: tante volte mi sono interrogata, per esempio, sull’immaginario del presbitero, che viene diffusa anche attraverso i seminari. Legandomi un po’ alla dimensione di Pastores dabo vobis, ricordo che un giorno, facendo una riflessione con alcuni operatori, dicevo: Questa figura di prete mi spaventa, perché non si dice mai che questo prete chiede perdono, chiede consiglio, cioè è troppo sublimato a livello di immaginario simbolico che viene comunicato nei seminari, mi sembra che sia troppo elevato e poco concreta l’esperienza della vita cristiana come semplicità, come umiltà, come debolezza; forse farebbe anche del bene il ridimensionare alcune prospettive. Mentre, per esempio, l’immaginario collettivo sulle religiose è sempre stereotipato, penalizzante, a volte anche in alcuni documenti, quando si vuole superare questa immagine stereotipata, si dice: che cosa può fare di più la religiosa nella Chiesa? Cioè si torna un’altra volta nel funzionalismo, nell’immagine funzionalistica dei servizi, che potrebbe anche “muovere” alcune personalità deboli, fragili a livello psicologico, con un immaginario sublimato espresso attraverso i servizi, per cui facilmente ci possono essere degli ingressi nei seminari oppure in congregazioni religiose in cui i servizi, le funzioni sono più chiare, più concrete, e che soddisfano di più… come operare questo tipo di riflessione culturale, perché davvero questo ordine simbolico, questo immaginario sia evangelico e non sia un cedere ad alcune attese?

 

L’accompagnamento per far emergere le specificità. Che cosa è “territorio” per la comunità di oggi?

La prima osservazione è a proposito della globalizzazione delle vocazioni, per cui sono indistinte, o meglio, appiattite e uniformate le une alle altre, anche a livello educativo: vengono fuori dai seminari preti che vanno bene sia al Nord che al Sud, per ogni comunità, un anticipo di globalizzazione. Questo credo che interpelli un accompagnamento personale a livello di cammino educativo, formativo, vocazionale. Però credo anche che sia importante che questo accompagnamento non porti la persona ad entrare in schemi già prestabiliti che l’educatore, i ragazzi o altro possano fornire, ma siano espressione di un impegno nel far emergere la specificità che ognuno si porta dentro, uno stesso ministero, un medesimo servizio, un’unica vocazione che si è chiamati a vivere dentro la Chiesa. Accompagnamento non quindi come ingabbiare la persona dentro degli schemi, ma piuttosto, nel senso etimologico dell’educare, del far emergere le specificità, pur restando fedeli all’identità vocazionale.

L’altra domanda. Il legame con il territorio. Quale legame? Certamente non possiamo pensare ad uno schema tipo medioevo, dove c’era una economia chiusa, si nasceva, viveva, lavorava in uno stesso territorio… oggi non c’è più questo essere chiusi dentro un territorio, oggi si lavora in una città, si vive in un’altra, si va in vacanza in un’altra, c’è una mobilità estrema. In che senso allora la comunità è chiamata ad essere attenta al territorio, se per territorio non intendiamo soltanto una zolla di terra, ma intendiamo la vita, i problemi, le necessità delle persone che vivono in quel territorio, ma che non vivono solo in quel territorio?

 

Interviene e conclude don Sergio Lanza

Riprendo rapidamente questi interventi che pongono questioni di un certo rilievo. Per esempio quella della pressione sui religiosi ad assumere incarichi di carattere pastorale territoriale. È chiaro che non si deve irrigidire nulla: l’ottimo è nemico del bene, il purismo è nemico della purezza, e così via. E tuttavia quando si fa una scelta che non è di per sé ottimale, bisogna saperlo! Bisogna averlo ben presente. Una delle altre mie perplessità nei confronti di certe realizzazioni delle unità pastorali fu proprio questa: di sbandierare come grande progresso ciò che era il risultato della penuria di preti. Se si deve fare, si faccia; se omnibus perpensis (?), quella è la soluzione migliore. Vogliamo lasciare che delle parrocchie rimangano senza parroco perché il religioso deve restare nella sua comunità? Ma certamente no, però si sappia, sia ben chiaro che questo non è ciò che si dovrebbe fare.

A fortiori questo vale per il famoso canone 517 paragrafo 2, a volte anch’esso proclamato come il non plus ultra del riconoscimento della dignità dei laici, cosa dissennata totalmente: si tratta di una emergenza, di una triste necessità, di una supplenza che deve essere contenuta nel minor tempo possibile, non è quello l’ambito in cui il laico ottiene la propria valorizzazione ecclesiale. A meno che noi vogliamo sempre che i laici, per essere valorizzati, debbano per forza somigliare ai preti, se no non sono valorizzati. Dunque bisogna essere molto attenti. Il giudizio poi è prudenziale, però, sapendo questo, sempre bisogna mettere in atto tutto ciò che è necessario e opportuno perché si sta facendo una scelta che non è quella ottimale. Le idee chiare sono importanti per fare quello che si può fare, al meglio.

Il problema dei movimenti come ambienti vocazionali inglobanti è un problema reale, che del resto la Chiesa conosce già, nella sua storia, perché spesso ordini e congregazioni religiose sono nati un po’ in questo modo. Soprattutto in una fase in cui non è ancora ben chiaro che cosa sia una realtà, cioè non è ancora configurata come un corpus ecclesiale specifico, tutto questo può rappresentare effettivamente una anomalia. Penso che un movimento che rimane tale deve coltivare vocazioni per la Chiesa, nelle sue diverse realtà, non per se stesso; non ha ragione di avere vocazioni proprie, se non in alcune tipologie che siano servizio di quel movimento. Ma normalmente, se è una vocazione presbiterale, è una vocazione presbiterale per il servizio della Chiesa locale, e non è per il servizio interno; questo vuole la sana impostazione ecclesiale. Naturalmente, quanto più un movimento viene assumendo la fisionomia di congregazione religioso-laicale, un po’ atipica, come sta avvenendo nel nostro tempo, allora si possono prospettare anche figure presbiterali e, se del caso, episcopali, per la guida stessa di quel movimento. Però questo suppone una codificazione. Se non c’è una codificazione, questo è anomalo e come tale deve essere considerato.

Codificazione si ha, per esempio, quando è eretta una prelatura nullius, quando quella determinata fraternità è riconosciuta, allora sì, perché quella è una destinazione specifica. La cosa che a me sembra, però, più grave è quando delle figure ministeriali vengono ad assumere una fisionomia di un singolo movimento e vanno a riprodurla come vincolante e univoca nella loro azione pastorale. Questo è molto più grave. Io penso che con la varietà e la tipicità, l’identità e la differenza, non devono far dimenticare che il ministero pastorale del presbitero non può privilegiare nessuno. Questo è un dato, secondo me importante. Il presbitero che non capisce questo – detto brutalmente – ha bisogno di una riconversione, perché mostra chiaramente di non capire qual è il suo ruolo. Non è questione di dirgli: stai attento, fai un po’ meno… No.

È un segno chiaro che è fuori strada, come tale va ripreso, a mio modesto avviso… anche in maniera forte, perché questo è uno snaturamento. Un conto è la spiritualità personale, un altro conto è l’impostazione di una pastorale che soffre quando chi deve avere – come è stato detto felicemente – non la sintesi dei carismi ma il carisma della sintesi, invece non ha il carisma della sintesi. Allora vuol dire che è adatto per fare qualcos’altro, e se uno è adatto per fare qualcos’altro, è bene che faccia qualcos’altro.

Questo vale anche per le parrocchie affidate a religiosi, che non possono dare alla parrocchia una fisionomia troppo marcatamente legata alla propria congregazione, perché questo non è corretto. È evidente che deve essere uno spazio in cui c’è posto per tutti… poi è chiaro, ciascuno è se stesso e come tale si presenta. Ma un conto è la propria identità personale, altro conto è l’impronta che si da [delimitando?]. È un punto che ho sottolineato perché tante volte poi le questioni nascono da qui e non da altro. Basterebbe questa accortezza per evitare tantissime questioni. Bisogna sempre ricordare che l’ordinazione presbiterale è per un servizio ecclesiale concreto.

Si discute teologicamente se il canone 6° di Calcedonia che dichiara invalide le ordinazioni assolute, sia un canone dogmaticamente vincolante oppure no. Ordinazione assoluta vuol dire senza una ordinazione per un territorio. Tanto è vero che prudenzialmente, per i vescovi, la Chiesa sempre ha proceduto attraverso ordinazioni almeno formalmente non assolute, cioè sempre legate ad una …(chiesa?). Anche se quel canone è discusso, però esprime una realtà concreta: uno non può essere ordinato se non per il servizio ecclesiale.

La ratio studiorum, l’impostazione di seminario: secondo me c’è da lavorare molto, sotto molteplici profili. Per restare a quello che era il nostro profilo, io credo che noi facciamo una teologia eterea, anche quando è fatta bene, cioè non contestuale. E la contestualità, certo, è culturale generale, e la contestualità è anche quella legata al proprio territorio. Una persona che viene formata, se viene formata in loco, non può non conoscere il territorio… È chiaro, poi fa altre esperienze… ma anche le altre esperienze dovrebbero servire ad arricchire questa capacità, cioè, di rapportarsi ad una situazione reale, concreta. Questo è un lavoro grande da compiere. Bisogna curare che la teologia sia ritrattata “in relazione”… perché l’inserimento avviene attraverso l’approfondimento delle questioni, delle realtà, che conducono a comprendere perché si devono studiare determinati ambiti. Questo punto mi sembra importante, così come progressivamente, nella formazione, maturare alcune attitudini ecclesiali specifiche, cioè valorizzare quelle che sono determinate caratteristiche: una persona è più adatta per una certa realtà, uno per un’altra… Anche qui, con molta flessibilità: nessuno deve pensare che gli abbiano costruito la nicchia, però in fondo, con molta saggezza, noi dobbiamo imparare dalla gestione manageriale.

Sto preparando un convegno per il mio istituto per l’anno prossimo sulla “leadership”, che vorrei trattare dai diversi punti di vista, proprio perché manca questa trattazione, dal punto di vista della conduzione della comunità cristiana, dal punto di vista della conduzione di un’industria, dal punto di vista della guida sotto il profilo politico… cioè fare un ventaglio di specialisti che analizzino tutto questo. In questo, come in altri casi, credo abbiamo da imparare con l’attenzione a non lasciarci poi dominare da schemi che non hanno la caratura teologica e la loro specificità.

L’aspetto culturale è il punto nodale. Tutto sta o tutto cade in relazione alla nostra capacità di mordere questa realtà. Su questo mi pare facciamo troppo poco, bisogna spendere molto sotto ogni profilo, a cominciare dalla cura per la dissennatezza dei frequentatori di studi televisivi che – può sembrare una battuta, ma non lo è – fanno un danno gravissimo all’immaginario, e quel danno è pari soltanto a quello degli spot televisivi. Abbiamo due danneggiamenti feroci delle figure ecclesiastiche. Uno è dato dalla presenza di preti sconsiderati dentro gli studi televisivi e l’altro è dato dal moltiplicarsi di questi spot, che da un lato mostra la grandissima possibilità che noi abbiamo; siamo in una stagione promettente – non è vero che siamo in una stagione perdente – in questo campo specifico: lo dimostra il fatto che non hanno a disposizione una simbolica e quindi non sanno dove attaccarsi, e uno dei pochi campi di simbolica disponibile sono ancora preti, frati e suore, [figure purtroppo presentate in modo] radicalmente distorto, e allora è chiaro che noi dobbiamo mettere in campo un’azione forte. Varrebbe la pena, probabilmente, di mettersi lì con attenzione e vedere quali sono gli interventi che si possono fare sotto i diversi profili dell’immagine, della preparazione, dell’azione culturale in generale, e via discorrendo, in modo tale che si possa contrastare tutta questa deformazione. Questa deformazione c’è e senza vincere questa battaglia non si vince quell’altra: senza vincere questa battaglia avremo – la dirò grossa – più facilmente dei reperti che delle vocazioni, che sono tutta un’altra cosa!

La globalizzazione delle vocazioni: quale legame con il territorio? In parte ho già risposto. Si tratta non di stare in una economia chiusa, indubbiamente. Sotto questo aspetto, [ci vuole] una formazione fatta bene, che consideri il territorio non evanescente, cioè che non prepari il prete, la suora, come uno buono per tutte le stagioni,… noi abbiamo inventato la flessibilità molto prima del mercato… poi è vero che c’è stato anche l’essere disponibili a tanti ruoli, un conto era lo stato di vita, un conto le varie modalità: normalmente siamo stati abituati a cambiare ruolo. Questo però non avviene attraverso il vuoto, la indifferenza. Una persona che è ben preparata per un certo ambiente può prepararsi bene anche per un altro. Una che è preparata per tutti gli ambienti, non è preparata per nessuno. Certamente, quindi, questo legame non può essere in alcun modo restrittivo, non può essere implodente. Deve essere già messo in cantiere, come è stato detto, giustamente, – uno dei miei cavalli di battaglia, oggi – . “Va’ qui, va’ là”, non può essere l’idea del ministero, soprattutto presbiterale, legato alla cura della comunità parrocchiale circoscritta; la parrocchia tridentina è morta, c’è qualcuno che non se n’è ancora accorto, ma è morta. Non è morta la parrocchia. La parrocchia non solo può: deve vivere. Però il rinnovamento della parrocchia passa attraverso le sue trasformazioni; senza le trasformazioni il rinnovamento non è possibile. Ovviamente, le figure di riferimento ministeriali devono essere da subito preparate a tutto questo. Non è una cosa che va bene, vedere come giovani preti appaiono costruiti ancora con l’idea di residenzialità, su cui venivamo costruiti noi. Mi sorprende che ancora oggi, tutto sommato, la costruzione psicologica delle figure ministeriali sia ancora questa: legata ad una comunità stanziale, tutta raccolta all’ombra del campanile. Il mio riferimento al territorio certamente non voleva indicare una visione di questo tipo. È una visione sostanziale, non una visione introversa, inclusiva. Anzi bisogna attrezzarsi a questa mobilità. Io uso spesso in questo senso il termine “articolazione”, nel senso che noi non dobbiamo abbandonare le fisionomie comunitarie anche di piccola dimensione, …però dobbiamo imparare che ormai la mobilità ha creato relazioni territoriali che sono multiformi, che sono articolate, e la pastorale – quella territoriale – può rinnovarsi soltanto articolandosi. Io sono convinto che questa forma – che richiede una revisione sotto vari profili – dovrebbe migliorare anche la connessione tra territorio e movimenti e realtà religiose a vasto campo, perché quando le realtà territoriali si immaginano e vengono gestite in forma articolata, è più facile integrarsi anche con il resto. Naturalmente il peccato originale non è ancora stato abolito e quindi i problemi di conflitto ci saranno sempre. Però a quel punto sono problemi che non hanno valenza strutturale-teologica, ma appartengono alla realtà del peccato e vanno trattati da quel punto di vista.