N.06
Novembre/Dicembre 2002

La spiritualità di comunione a servizio della pastorale nel territorio: quali percorsi si aprono?

Nel programma del nostro Forum, la relazione che mi è stato chiesto di presentare è chiamata “conclusiva”: è evidente che questo aggettivo deve applicarsi ad essa solo perché è l’ultima della serie; diversamente, se cioè pretendesse di essere conclusiva nel senso di riassuntiva di quanto emerso in questi giorni, avrei dovuto scriverla durante il nostro incontro. La mia riflessione invece è nata prima e quindi, se dovessi ripensarla alla luce di quanto ascoltato e vissuto in questi giorni e se fosse davvero “conclusiva” di questo Forum sarebbe probabilmente un po’ diversa.

Nel titolo che mi è stato affidato c’è, alla fine, una domanda che mi ha subito preoccupato, rispetto alle attese degli ascoltatori: quali percorsi si aprono? Infatti questa domanda sembra esigere un taglio di “concretezza” che è un po’ sempre il nostro sogno quando frequentiamo convegni o assemblee: tornarcene a casa con qualche formula risolutiva dei nostri problemi, il che non succede quasi mai; e tanto meno succederà questa volta con la mia relazione. Penso che le formule si fabbricano – se sono possibili e necessarie – nei “laboratori locali”, il più vicino possibile alla realtà concreta, con la consapevolezza della provvisorietà e della contingenza di ciascuna di esse.

Sgombrato il campo da queste attese che potevano ingenerare equivoci, vi dico anche che ho fatto fatica a capire la differenza che c’era fra il titolo della mia relazione e quello di quelle che mi hanno preceduto, se non per la sottolineatura del concetto di “territorio”. Ho pensato quindi che la specificità del mio intervento stia nel fatto che rappresento qui la Conferenza Italiana dei Superiori Maggiori, quindi la vita consacrata maschile in Italia, con le sue risorse, i suoi travagli, i suoi cammini, le sue preoccupazioni vocazionali, il suo impegno, le sue fatiche e forse anche le sue difficoltà nella piena inserzione nella Chiesa locale, in una spiritualità di comunione. Rispetto al Forum dell’anno scorso, abbiamo oggi due documenti magisteriali che portano nuova luce alla nostra questione e, in qualche modo, la sistematizzano, dentro un cammino già avviato e di cui siamo consapevoli.

Si tratta del documento pastorale della Chiesa italiana “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”, che presenta gli Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il primo decennio del 2000; e della recente Istruzione della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica: “Ripartire da Cristo”. Penso che ogni cammino di Chiesa e ogni riflessione ed impegno della vita consacrata debbano situarsi dentro queste indicazioni, che hanno come sfondo la lettera del santo Padre “Novo Millennio Ineunte”.

Noi come Istituti di vita consacrata maschile stiamo realizzando un percorso di riflessione comune, in profonda sintonia con questi cammini: ne è prova il tema della prossima Assemblea Generale della CISM, che si svolgerà a Palermo nel prossimo novembre che ha per tema: “Vivere secondo lo Spirito: nuovi percorsi e linguaggi per comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”, e anche il convegno organizzato dalla nostra area animazione della vita consacrata a Collevalenza, sempre per il prossimo novembre: “Protesi verso il futuro… per essere santi”.

Dico questo in questa sede per segnalare che non hanno fondamento le affermazioni che qualche volta si sentono e si leggono, che i consacrati sono lenti se non pigri nel prendere atto del cammino di rinnovamento pastorale proposto dalla Chiesa italiana e, soprattutto, non è vero che nelle assemblee e negli incontri ufficiali della CISM non sia mai stata presa seriamente in considerazione la programmazione della CEI. Semmai, è ora vero proprio il contrario: il nostro impegno di Conferenza è attuare, per la parte nostra e secondo la nostra peculiarità, il cammino proposto dai vescovi.

 

La spiritualità della comunione

Karl Rahner poco prima della sua morte, parlando della spiritualità nella Chiesa del futuro, diceva: “La comunione fraterna nello Spirito sarà l’elemento peculiare ed essenziale della spiritualità di domani. (…) Noi anziani siamo stati spiritualmente degli individualisti, data la nostra provenienza e formazione. (…) L’esperienza della prima Pentecoste non consistette certo nel casuale raduno di una somma di mistici individualistici, ma nell’esperienza dello Spirito fatta dalla comunità (…). Io penso che in una spiritualità del futuro l’elemento della comunione spirituale fraterna, di una spiritualità vissuta insieme, possa giocare un ruolo più determinante e che lentamente ma decisamente si debba proseguire lungo questa strada” (cit. in F. CIARDI, Koinonia, p. 287s).

La strada che stiamo percorrendo oggi sembra dar ragione a quanto, quasi trent’anni fa, diceva il celebre teologo tedesco. Il tempo trascorso dal Concilio Vaticano II sembra aver reso lentamente tutti più consapevoli che la Chiesa risplende nella sua luce più viva ed attraente quando la sua santità e cattolicità brillano nella dimensione dell’unità, proprio come le parole di Gesù da sempre invitavano: “Da questo conosceranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri”.

E, molto realisticamente, la realizzazione di queste parole sappiamo che passa attraverso la realizzazione di percorsi di comunione, cioè delle strade concrete che dobbiamo discernere con gli orecchi in ascolto della Parola e gli occhi che scrutano ed “ascoltano” gli avvenimenti.

 

Spiritualità di comunione e pastorale vocazionale

“La Chiesa sia Chiesa!”, sia cioè ekklesìa, popolo rad-unato (reso “uno”) dalla e nella Trinità, sembra dire con insistenza e più forza la voce dello Spirito oggi. Dall’assumere in pienezza ogni giorno di più la sua identità, dal fatto che la Chiesa sia ekklesìa, rad-uno, sembra dipendere – sempre dalle parole di Gesù – la prima testimonianza per cui essa è immediatamente percepita come intimamente legata alla persona del Figlio, come insieme di discepoli suoi.

La Chiesa-ekklesìa è la testimonianza a cui nessuno può sottrarsi. Ecco allora che la spiritualità di comunione è meno un mezzo e più un traguardo, meno un valore strumentale e più un valore finale. La pastorale vocazionale è al suo servizio… e non viceversa.

Non si tratta dunque di pensare che la spiritualità di comunione sia quasi una nuova tecnica da adoperare, visto che con tutte le altre che abbiamo adoperato fino ad ora sembra di essere giunti a scarsi risultati. Non bisognerà adoperarla per “avere” vocazioni che scarseggiano, ma adoperarsi per essa, indifferentemente dai frutti vocazionali; semplicemente per il fatto che attraverso di essa la Chiesa assume di più il suo vero volto. Dunque, forse è meglio porsi la domanda: “(Anche) la pastorale vocazionale a servizio della spiritualità di comunione nel territorio. Quali percorsi?”. Cioè anche noi ci scopriamo provocati a costruire l’unità per la nostra parte.

È bello infatti sentire s. Paolo dire agli Efesini che Cristo “ha costituito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri… al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio” (Ef 4,11ss). Così la pastorale vocazionale, con la sua opera di aiutare ciascuno a trovare il suo posto nella Chiesa, a identificare quale sia il carisma particolare che gli è dato, contribuisce a realizzare il frutto di “un corpo ben compaginato e connesso mediante la collaborazione di ogni giuntura”, un corpo armonioso che è tale perché ogni parte fa… la sua parte.

La pastorale vocazionale ha un compito specifico, quello di far prendere coscienza a ogni membro la sua vocazione funzionale (rispetto al corpo) e la sua identità (rispetto a se stesso), in modo tale che ognuno realizzando se stesso, realizzi anche l’unità del corpo e, viceversa, contribuendo a diversificare il corpo, e rendendolo più forte e vivo, trovi la propria ragion d’essere.

A questo proposito è necessario innanzi tutto prendere coscienza della genesi della comunione come parola chiave per descrivere la vita della Chiesa come tale, in misura sempre crescente nella riflessione postconciliare. Essa prende come punto decisivo di verifica l’effettivo ed affettivo riconoscimento di appartenere non a sé, ma a Cristo. Di fatto tale appartenenza sarebbe aleatoria se non si traducesse in una concreta appartenenza ecclesiale. L’impegno alla comunione esige quella mossa della libertà di ognuno per cui ci si riconosce essenziali l’uno all’altro, e proiettati così a dilatare la comunione, coinvolgendo ogni realtà ecclesiale incontrata, in un intelligente dialogo con tutti.

Perciò, se la Chiesa è Corpo di Cristo anche e in modo forte perché comunione di vocazioni, la pastorale vocazionale è un prezioso e insostituibile elemento a servizio dell’unità armoniosa della Chiesa. In quanto responsabili dell’animazione vocazionale, possiamo allora porci un paio di domande:

– oggi quali sono i percorsi che la pastorale vocazionale deve attuare per contribuire, da parte sua, a edificare sempre di più il corpo che è la Chiesa locale?

– e, prima ancora, oggi come può fare la pastorale vocazionale ad essere lei per prima tutta imbevuta di spiritualità di comunione, per poterne poi essere strumento?, ovvero, per essere ancora più concreti, cosa possiamo fare noi, nelle nostre comunità, per essere “fattori” di comunione?

Non si tratta infatti di fare cose nuove o speciali, ma di capire qual è il modo migliore per prendere consapevolezza di come la preoccupazione di costruire la comunione, che poco ci mette in ansia, sia una priorità “di progetto” e “di fatto” rispetto alla pastorale vocazionale, la quale ben di più ha il potere di toglierci il sonno; che, poi, quest’ultima ha senso e speranza di frutti, solo se proviene dalla comunione, e di perseveranza, se vi conduce.

 

Il Vangelo

La domanda, in fondo e più in generale, è: come costruire la comunione? Una domanda alla quale si è già tentato di rispondere in questi giorni, ma che vogliamo riprendere con uno sguardo che tenda a posarsi sul territorio [che è la Chiesa locale].

Girata al Vangelo questa domanda trova ad esempio queste risposte in Matteo, nel discorso che Gesù fa sulla comunità (c. 18): 

a) ci sono alcune forze dirompenti che covano nell’interiorità di ciascun individuo o ciascun gruppo e che tendono a disgregare la comunità o le istituzioni:

– quando si esercita il dominio o si sopravvalutano le proprie possibilità,

– quando non si diventa piccoli e quando si emarginano i piccoli,

– quando non ci si sente perdonati e quando non si sa perdonare;

b) viceversa, lo Spirito riesce a ricomporre la frammentazione quando si affacciano e sono accolte da ciascuno le sue prospettive, il modo di essere – nuovo per l’uomo – che il Maestro ha insegnato e vissuto egli per primo:

– quando sta davanti a ciascuno la consapevolezza della propria debolezza,

– quando si accolgono i fragili e i deboli,

– quando ci si perdona e si “fa” la correzione fraterna.

La risposta del Vangelo è la proposta di sempre di Dio per l’uomo, il quale è perennemente tentato di svincolarsi dalla sua offerta di comunione e si costruisce dei percorsi alternativi. La risposta del Vangelo fa riaffiorare le linee essenziali lungo le quali riprogettare in ogni epoca dei percorsi.

Non è fuori luogo esercitarsi incessantemente a riconoscere dove, in modo concreto, i tarli della comunione sono all’opera qui ed ora, e quale volto hanno assunto specificamente in quest’epoca fra noi. Riuscire a chiamare il male col suo nome, oltre che ad essere un esercizio di umiltà al quale non è facile abituarsi, toglie al male stesso la sua carica più potente ed astuta, quella rappresentata dal suo agire nascosto o ammantato sotto veli accettabili.

 

Sapersi fragili, ma accolti

Da sempre capita che quando le cose ci vanno bene, riponiamo fiducia in noi stessi al punto che di solito pensiamo di allentare i vincoli o le collaborazioni, convinti che esse rappresentano per lo più un peso.

Nei momenti più difficili (magari questo sarà uno di quelli?) si viene di solito a più miti pensieri e, calando le forze, ci si rimette all’aiuto che può venire dall’esterno.

Le situazioni di successo (per un certo verso, sarà anche questa una di quelle, magari pensando ai mega-raduni che funzionano o a una stima per la Chiesa che ci troviamo diffusa attorno) spingono lentamente a considerarsene artefici, a confidare nella posizione raggiunta e a dimenticarsi di chi fa più fatica. Ma per fortuna una maggior trasparenza delle istituzioni e dei rapporti, dono del nostro tempo, fa sì che – se lo si vuole – non manchino a nessuno le occasioni e i motivi per un maggior realismo. 

Sono tanti gli aspetti e i fatti, che ci fanno tener desta la coscienza che come comunità di credenti non siamo sempre abitati da persone eccezionali o esemplari, un po’ come suggeriva in modo illustre e degno di fede Paolo, ma da piccoli, da perduti e da peccatori che sono stati accolti per grazia. La comunione nella Chiesa, fatta di tanti figli, ha come sua prima radice la riscoperta instancabile per ognuno e per ogni gruppo del fatto che, come si è stati accolti pur non essendone stati degni, così ora si è accolti pur non essendone degni.

La duplicità del fatto, indegnità e accoglienza, costituisce una nuova realtà: l’essere Chiesa; il far passare questa duplicità dal piano dei fatti a quello dell’esperienza personale, di percepirsi indegni e di percepirsi accolti, attiva la consapevolezza di essere Chiesa.

Potrebbe sembrare strano, ma non a questo punto, che il terreno fecondo per la nascita della comunione è proprio quello che noi invece di solito ci limitiamo a deprecare e condannare. Per questo è necessario che, ad ogni livello, valorizziamo le difficoltà, le incomprensioni, gli individualismi e le barriere che esistono, facendocene carico, amandole e comprendendole.

È nel momento stesso in cui viene partorita la Chiesa che ciò ci è indicato: la comunità dei credenti riconciliata e costituita nell’unità intima con il suo Sposo nasce infatti dal costato di Cristo che, appeso sulla croce, era da tutti incompreso, deriso ed abbandonato, persino dal Padre. Nella derelizione assoluta dell’abbandono sulla croce, nel momento, da un punto di vista umano, più ridicolmente lontano dall’unità e dalla comunione, in questo momento l’abbandono amorevole di Gesù crea la comunione, forse anche per insegnare a noi in quel modo silenzioso e drammatico cosa è davvero la sorgente dell’unità.

Sebbene il linguaggio della croce stoni sempre ai nostri timpani, i nostri limiti personali, comunitari e istituzionali non sono più così degli ostacoli, ma le opportunità decisive da accogliere e superare perché in modo misterioso nasca la vera unità.

 

Farsi piccoli, accogliere i piccoli

Abbandonare ogni posizione di forza nei rapporti tra noi è susseguente alla rinascita che ci propone Gesù: “Il più grande tra voi si faccia vostro servitore”, cioè chi è forte si faccia piccolo per poter scendere ed accogliere ad altezza conveniente – e forse anche, come fanno i papà inginocchiandosi, da più in basso ancora – chi è piccolo. Il più piccolo è il più grande.

La famiglia naturale, quando è una famiglia serena, rappresenta un bell’esempio di come può succedere che delle persone o delle istituzioni stiano insieme: seduti attorno a un tavolo, si dà più ascolto e si lascia parlare di più chi ha meno titoli per farlo. La famiglia naturale diventa una famiglia serena quando riscopre, occasione dopo occasione, la scintilla che l’ha originata: l’accoglienza reciproca. 

Reciproca non nel senso che è bloccata sulla corrispondenza “biunivoca” del dono, ma nel senso che la forza che la fa diventare reciproca sta nell’essere sempre all’inizio unilaterale, disimmetrica e impari: a chi è più debole si danno più attenzioni. La Chiesa nasce e rinasce come comunità di fratelli nell’accoglienza che, sperimentata e risperimentata insistentemente su di sé da parte del Padre, viene donata gratuitamente a chi sta accanto, proprio perché meno se la meriterebbe. “Chi accoglie uno di questi piccoli, accoglie me”: i più piccoli fra noi sono i più deboli e i più fragili fra noi.

Un fatto che spesso lascia disorientati è il percepire che forse il desiderio di comunione è poco diffuso, o almeno resta alquanto implicito se non addirittura è stato messo da parte perché magari per esso si sono già patite troppe delusioni. Il replicare l’unione della Trinità potrebbe sembrare in molte nostre realtà un obiettivo davvero poco adatto a una situazione “terrestre” come la nostra.

E certe situazioni possono scoraggiare anche i più ardimentosi. Per questo una strada da perseguire potrebbe essere quella di costruire o incentivare dei laboratori di comunione. Gli obiettivi di questi “laboratori” potrebbero essere molto semplicemente due: farsi carico, in ogni modo possibile, delle situazioni di divisione altrui che esistono in quella situazione o luogo e cercare di realizzare tra loro un’unione vera. L’importante per chi vi aderisce non è di trovare degli “affini”, ma trovare chi è sinceramente disposto a giocarsi per l’unità.

Queste comunità o gruppi che desiderano mettere questo ideale in cima alle loro preoccupazioni sono dei laboratori perché possono indicare che vivere nella comunione, non perché impeccabili ma perché ci si accoglie, è qualcosa di realmente possibile per chi ci rischia.

 

Il perdono e la correzione fraterna

L’accoglienza ha una sua componente essenziale e specifica nel perdono; per questo Gesù ci tiene a sottolinearlo. Parlare di accoglienza può indurci facilmente, infatti, a considerare e a disporci nei confronti di chi ci è simile, gradito o conveniente; il perdono invece ritorna sopra al fatto e sottolinea con forza l’accoglienza per chi è differente, sgradito o importuno e dunque anche da evitare.

Di fatto c’è chi pensa di essere accogliente limitandosi a chi è “accoglibile”, mentre l’orizzonte del perdono suppone una realtà fatta di limite, di differenza e di peccato. Sentirsi perdonati perché ci si è scoperti abitanti “dentro” una realtà di questo genere, cioè fatta di limite, differenza e peccato, dà l’avvio a ciò che è l’accoglienza secondo il Vangelo perché ci permette di giudicare gli altri non tanto con la misericordia che abbiamo ricevuto ma con quella che, dopo aver ricevuto, abbiamo sperimentato.

Ciò che mantiene davvero la comunione nelle nostre comunità o nelle nostre Chiese non è l’accordo impeccabile, quello che “tiene dentro” chi non ha molto da rimproverarsi e magari anche dolcemente tiene distanti gli altri, ma il perdono ricevuto ed accordato, quello che minimizza i motivi di contrasto perché ha sempre presente che sono state minimizzate e guarite le proprie ferite.

Le divisioni, che se non si è ciechi si vedono e si percepiscono abbastanza diffuse un po’ a tutti i livelli, non hanno altri motivi che l’incapacità di perdonare, forse perché non si è fatto esperienza e memoria del perdono già tante volte abbondantemente ricevuto. Le nostre comunità, istituti e Chiese forse dovrebbero sentirsi di più graziati rispetto al loro passato, ma forse il passato è piuttosto dimenticato che fatto oggetto di memoria.

Da questo punto di vista la liturgia ha senza dubbio un’importanza veramente grande: essa può costituire il punto di arrivo del ri-assumere la storia personale, comunitaria e locale in un itinerario che preveda la conoscenza di ciò che ha fatto ed è stata la Chiesa in quella storia e in quel luogo, per celebrare, insieme al riconoscimento delle mancate accoglienze, anche i doni ricevuti reciprocamente attraverso la presenza di ciascuno. Un’indagine serena sulla storia spirituale delle comunità o delle istituzioni non è qualcosa che fa parte delle nostre abitudini, ma è necessaria se si vuole poi celebrare questa storia. La memoria della storia spirituale di una comunità, nel suo duplice aspetto penitenziale e di ringraziamento, potrebbe diventare l’aspetto liturgico più vero di una giornata della comunione che potrebbe essere istituita ad ogni livello; giornata, questa, che senza aspettarsi di vedervi tutti, dovrebbe essere semplicemente la raccolta di tutti coloro che credono nella crescita della comunione e che, in quell’occasione, riflettono e si giocano per farla crescere tra loro e anche in chi manca. 

 

La Parola al centro

Abbiamo visto finora un esempio di come la Parola, in questo caso il discorso sulla comunità del vangelo di Matteo, può interrogarci riguardo a come concretamente possiamo diventare lievito di comunione lì dove siamo. In realtà la Parola è la stessa che suscita l’ekklesìa, che da essa appunto è stata chiamata (ek-kaleo), convocata e rad-unata.

Per questo rimane uno dei percorsi a cui dedicare maggiori energie il creare la possibilità per ognuno e per le comunità di mettersi a confronto con la Parola, attraverso tutti i mezzi che la nostra creatività potrà suggerirci o quelle strade collaudate da secoli e sicuramente efficaci, come è la lectio, sia personale che comunitaria. La comunione infatti si realizza attorno alla Parola, perché parte dalla Parola, trova motivo di confronto nella Parola e, dopo che è stata persa perché noi siamo piccoli e peccatori, si ricostruisce attorno e in nome della Parola.

 

La storia

Non solo l’ascolto della Parola ci aiuta a mettere a fuoco gli snodi dove discernere se si desidera realmente camminare più speditamente verso la comunione. Anche gli avvenimenti, la storia e le risposte profetiche che si tenta un po’ ovunque di dare, ci aiutano a percepire più chiaramente come la pastorale vocazionale deve situarsi oggi in questo disegno che ci vede collaboratori e servitori della comunione.

Se non è un difetto di vista, e dunque di lettura, sembra che oggi la pastorale vocazionale venga sospinta dalla storia e dagli avvenimenti all’incontro, a lasciare la frammentazione del “faccio tutto da me” per scoprire l’importanza della coralità della consapevolezza e dell’azione vocazionale.

È più chiaro un po’ a tutti, infatti, oggi che l’animazione vocazionale

– non è affare solo di qualche sacerdote o consacrato/a ma di tutti i credenti: ognuno è chiamato a scoprire e a collaborare nella scoperta del piano di Dio;

– non è più appannaggio o “territorio” di un istituto o di una diocesi, ma è una partita che deve essere giocata da una squadra intera.

Per questo un itinerario che sta proprio all’interno della pastorale vocazionale è quello di suscitare collaborazione in tutti i credenti, affinché i giovani che crescono percepiscano la vita come vocazione. Questo ricercare collaborazione non dovrebbe essere tanto visto nell’ottica di uno strumento possibile, quasi per avere più manodopera, ma in quanto mezzo essenziale e specifico per comunicare una vocazione che sia ecclesiale. Anzi, il primo compito di chi è responsabile dell’animazione vocazionale, più che occuparsi direttamente della pastorale vocazionale, potrebbe essere quello di rendere responsabili gli altri, credendo nell’apporto insostituibile che ogni chiamato, sia genitore che sacerdote o consacrato, ha nel ripresentare al completo la vocazione alla santità affidata a ciascuno. E ciò, anche nella convinzione che non esiste altro metodo educativo alla scelta vocazionale sul piano dell’efficacia e della correttezza al di fuori del cammino di fede.

Sembra poi che oggi sia la pastorale vocazionale stessa ad essere interrogata dai giovani, i quali sono, a detta di tanti occhi attenti che li osservano e li amano, in ricerca sincera, anche se implicita, della testimonianza viva che è bello spendere la propria vita per i valori del Vangelo. La pastorale vocazionale è perciò da loro provocata ad offrire delle comunità al cui incontro traspaiano chiare e limpide le parole e la vita di Gesù, dei primi discepoli, dei santi di ogni epoca. Di più ancora oggi il male dell’individualismo, che ci affligge tutti, rende i giovani ancor più in ricerca di comunità vive, non senza problemi, ma nemmeno cieche o rassegnate di fronte ad essi.

Al termine del documento dei nostri vescovi “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”, nell’Agenda Pastorale, ci viene chiesto di “ripensare coraggiosamente il volto spirituale che è dato incontrare, in questi anni, a chi osserva le nostre comunità: c’è forse una mediocrità da combattere e l’urgenza di pensare la vocazione universale alla santità, mirando a tradurla quotidianamente in pedagogia e pastorale della santità”.

Chi agisce nella pastorale vocazionale comprende così sempre di più che restare solo significa fallire, o meglio, ignorare l’ecclesialità della proposta e l’ecclesialità in cui si deposita ogni risposta; e poi restare solo significa sopravvalutarsi, o meglio, sottovalutare la forza del fascino che proposte più mondane ma ugualmente corali hanno su chi cresce. Chi agisce nella pastorale vocazionale ed è perciò attento alle motivazioni di scelta di molti giovani è invece sorpreso di quanta attrattiva esercita oggi un gruppo di persone che, senza essere perfetto si vuole bene, e il cui stare insieme predica da solo gli ideali in cui ciascuno crede.

Un altro itinerario che chiaramente si presenta è dunque quello di non smettere di credere nella costituzione di équipes vocazionali miste di istituti o a livello di diocesi, équipes che non considerano l’apporto delle vocazioni laicali come un optional o un “disturbo” agli scopi che si vogliono raggiungere, e ricordano che più che le attività poste in essere, sarà la comunione reale che regna in esse il vero annuncio trasmesso.

 

Percorsi e priorità

Mi pare che dal documento dei vescovi “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia” e da “Ripartire da Cristo” emergano alcune indicazioni che sono altrettanti percorsi, e che vorrei sintetizzare in tre punti: ascoltare, testimoniare, ridare speranza.

 

Ascoltare

Il documento della CEI presenta a questo riguardo alcune pagine davvero convincenti. Credo che ogni impegno di pastorale vocazionale in comunione non possa che partire dall’ascolto del presente, attraverso cui discernere l’oggi di Dio. Il documento nei nn. 37-39 indica le opportunità di fronte alle quali ci troviamo e le enumera parlando del desiderio di autenticità, di prossimità, di solidarietà; di una rinnovata ricerca di senso che si potrebbe anche chiamare, almeno in certi casi, un anelito alla trascendenza; di un’accresciuta sensibilità ai temi della salvaguardia del creato; delle nuove e grandi potenzialità della comunicazione sociale.

Allo stesso tempo, nei nn. 40-43 segnala rischi e problemi: l’analfabetismo religioso delle nuove generazioni, l’eclissi del senso morale e il diffondersi, nella legislazione e nella mentalità comune, di posizioni lontane dal Vangelo; la scarsa trasmissione della memoria storica. Non mi soffermo su questo, se non per indicare un metodo e un percorso che è quello dell’ascolto, dell’attenzione amorosa al tempo che viviamo e ai suoi fermenti, della vicinanza solidale con i giovani nel loro impegno e nella loro fatica a capire e a capirsi, dentro la trama dell’esistenza.

Non è sempre necessario parlare, è più importante ascoltare e farsi compagni degli uomini nella loro fatica, nella loro ricerca, nella loro incertezza, anche nei loro dubbi e nelle loro delusioni.

 

Testimoniare

L’istruzione “Ripartire da Cristo” dedica all’animazione vocazionale il n. 16. Dopo avere ribadito che il primo impegno della pastorale vocazionale è la preghiera, afferma che la via maestra della promozione vocazionale è la testimonianza, “quella che il Signore stesso ha iniziato, quando ha detto agli apostoli Giovanni e Andrea: Venite e vedete (Gv 1,39)(RC 16). Dunque per la vita consacrata l’impegno a testimoniare con gioia la propria consacrazione, a costruire comunità accoglienti, capaci di condividere il loro ideale di vita con i giovani, al servizio di tutte le vocazioni.

Quel “territorio” che è la Chiesa locale – afferma il documento – è il luogo dove “tutti i ministeri e i carismi esprimono la loro reciprocità e realizzano insieme la comunione nell’unico Spirito di Cristo e la molteplicità delle sue manifestazioni” (RC 16).

 

Ridare speranza

La speranza è la virtù più fragile e più forte. Oggi la più necessaria, in particolare nell’ambito della pastorale vocazionale. Ad essa ci incita il santo Padre nella Novo Millennio Ineunte con il noto “duc in altum” e i nostri vescovi nel programma pastorale del decennio, mettendola proprio nell’agenda pastorale: “Si tratta di cogliere l’originalità e la ricchezza teologica e pedagogica della speranza, in un contesto culturale, come quello attuale, che ne è molto povero; individuare atteggiamenti e scelte che rendano la Chiesa una comunità a servizio della speranza per ogni uomo”.

 

 

Le conversioni necessarie

Per essere concreti e realistici, non possiamo nasconderci che la comunione, nella pastorale vocazionale sul territorio, è più un desiderio e un impegno che un traguardo raggiunto. Però il fatto che, ormai, così spesso ne parliamo e ci riflettiamo sopra, significa che il desiderio è sincero e che verso il traguardo siamo in cammino. Il fatto che ne parliamo così spesso significa che qui tocchiamo un nervo scoperto della vita della Chiesa, proprio sul territorio.

Qualche giorno fa è giunta alla sede CISM, credo in rapporto a questo Forum, la richiesta di rispondere a qualche domanda. Una di queste era così formulata: “La spiritualità di comunione è il cardine della vita cristiana in genere. Sembra essere un punto assodato, eppure è un elemento di continuo ritorno nei dibattiti, nei convegni e nella vita interna dei singoli istituti. Come mai, secondo lei, questo ritornello sulla comunione?”. Perché – e credo di averlo spiegato nella prima parte della riflessione – vivere la comunione significa stare ogni giorno nell’atteggiamento della conversione, che è il nostro cammino ed impegno quotidiano.

Ci sono delle conversioni, anche istituzionali, che ci sono richieste, e se guardo, per esempio, la VC, le sue esperienze e le sue espressioni nella Chiesa particolare, mi sembra di poter dire che ci sono conversioni richieste agli istituti religiosi e ai loro responsabili e conversioni richieste alle diocesi e ai loro responsabili.

Anzitutto vorrei ribadire al riguardo che la Chiesa particolare è, per tutti coloro che vivono in quel determinato territorio, l’unica Chiesa che hanno: nessuno, penso, può dire di appartenere alla Chiesa universale se non a partire dal sentirsi pienamente inserito nella Chiesa particolare: quindi, noi consacrati, per esempio, nella Chiesa particolare, possiamo essere “esenti”, ma non “assenti”!

Quali dunque le conversioni reciproche:

a) per gli organismi diocesani e i loro responsabili

– considerare i consacrati pienamente appartenenti alla diocesi e, nel caso dei religiosi sacerdoti, pienamente appartenenti al presbiterio diocesano,

– coinvolgere i consacrati e le consacrate nella programmazione e nella verifica pastorale e non considerarli soltanto manovalanza o supplenza apostolica,

– rispettare, favorire e promuovere la vita comunitaria come i carismi degli istituti;

b) per gli istituti religiosi e i loro responsabili

– assumere la diocesi come la propria Chiesa “toto corde”, incarnandosi pienamente in essa,

– non venire mai meno al carisma proprio, evitando di fare tutti tutto, pur di fare qualche cosa,

– mantenere alto il carisma della vita comune, contro l’individualismo personale e pastorale. Direi che proprio ai consacrati e alle consacrate nella Chiesa locale è richiesta una speciale testimonianza nella spiritualità della comunione.

Credo sinceramente che siamo dentro questo cammino: ma se queste sono “conversioni”, sono impegno quotidiano, mai concluso, traguardo sempre avvicinato e forse mai del tutto raggiunto.

 

Conclusione

Ho letto, credo in un testo di Paul Claudel, l’espressione: “A che serve una strada se non porta a una Chiesa?”. Concludendo questa riflessione mi viene da dire: “A che serve una Chiesa se non c’è una strada che conduce ad essa?”. È la strada che conduce alla Chiesa, credo, la nostra fatica e il nostro impegno comune: una strada da costruire, da indicare, da percorrere con gli uomini e le donne del nostro tempo.

Mi viene in mente la strada verso Emmaus: una strada che conduceva ad una locanda che divenne una Chiesa e una cena che divenne un’Eucaristia, perché Gesù, compagno dei due pellegrini, facendo emergere i loro guai, interpretandoli con la Parola, testimoniando prossimità, fu egli stesso, sulla strada, la Strada.

Un po’ quello che dovremmo essere noi, come Chiesa, nella pastorale vocazionale per i giovani del nostro tempo. Ma “insieme”: lo dico con le parole dei vescovi: “Assumendo decisamente una prassi di comunione che, a partire da una costante educazione del sensus fidei, allena al ‘discernimento comunitario’ cristiano, riconoscendo in tal modo tutti i doni che lo Spirito effonde e percorrendo insieme, pastori e fedeli, i sentieri del Vangelo”.