N.02
Marzo/Aprile 2003

Il percorso vocazionale, cammino di identità e rigenerazione

 

 

(Il testo è ricavato da registrazione e non è stato rivisto dall’Autore)

 

Il vangelo che questa liturgia del 4 di gennaio ci propone, ha una tale evidenza vocazionale da lasciare quasi interdetti nella riflessione. Chissà quante volte lo avrete utilizzato nelle vostre proposte vocazionali, questa pagina iniziale del vangelo di Giovanni. Cercherò tuttavia di mettere a fuoco tre aspetti di questo vangelo e completarli con un piccolo riferimento alla prima lettura, che ci aiuta anche a correggere il pericolo di leggere solamente – diciamo così – “in progresso” quello che è la pagina evangelica che ci è stata proposta. L’esperienza che facciamo ci dice, infatti, che spesso non è così facile incontrare, chiamare e trovare immediata sequela da parte delle persone che il Signore ha chiamato.

La dinamica che la pagina di vangelo ci propone è ben conosciuta. C’è anzitutto un “cercare” da parte della gente. “Chi cercate?” dice Gesù. I due discepoli stanno cercando qualcosa, lo hanno dimostrato già seguendo Giovanni il Battista; ora lo dimostrano ulteriormente reagendo all’annuncio del Battista e mettendosi alla ricerca di Gesù. C’è un “cercare” che ha bisogno di essere completato, però, in un “venire” (dice Gesù) o in un “andare” (dice l’Evangelista), attraverso il quale ci accostiamo a quello che è la meta della nostra ricerca, la persona stessa del Signore. Ma non basta ancora: il terzo passo – lo sappiamo – è anche quello di “vedere”: “Venite e vedrete” dice Gesù. Non basta venire, occorre anche porre uno sguardo nuovo sulla persona di Gesù, su quello che egli è per ciascuno di noi. E non basta ancora questo. Occorre un quarto passo che è quello del “dimorare”. “Dove dimori?” dicono i discepoli… andarono, videro dove dimorava e quel giorno “dimorarono” presso di lui, così i verbi più strettamente tradotti.

La prima cosa da sottolineare è proprio che tutti questi momenti vanno ribaditi come un necessario completamento del cammino vocazionale. C’è molta gente che va alla ricerca e che chiude tutta la sua esistenza in una ricerca senza esito. C’è molta gente che va, va e viene, fa mille esperienze senza mai fermarsi, senza mai guardare con profondità. C’è magari anche gente che non solo ha cercato, è andata, ha anche visto, ma non si è lasciata talmente attrarre, talmente invaghire da “dimorare”, cioè da mettersi in una situazione di comunione. Tutti questi momenti vanno ribaditi e direi che forse una buona pastorale vocazionale inizia dal percepire l’importanza di tutti e quattro questi momenti e della loro successione. Però occorre non dimenticare le radici e l’esito di questo movimento perché questo movimento, questa dinamica vocazionale, questa dinamica della sequela sta all’interno di un punto di partenza e di un punto di arrivo.

Il punto di partenza è aver ascoltato una testimonianza. La testimonianza del Battista che dice: “Ecco l’agnello di Dio” e i due discepoli, udendolo, ascoltandolo parlare così, seguirono Gesù. Non ci può essere sequela se non a partire da una testimonianza che viene ascoltata. E non c’è un’autentica sequela se essa non si traduce a sua volta in una parola che viene detta agli altri e diventa annuncio, testimonianza per gli altri. Andrea, fratello di Simon Pietro, incontrò suo fratello “e gli disse…”. C’è un udire e un dire, c’è – globalmente – un testimoniare, che stanno alla radice e al culmine del cammino della sequela.

E così siamo ricondotti a quello che è il tema fondamentale della pastorale di questi dieci anni della Chiesa italiana, che è il tema del “comunicare”. Non si dà vocazione, non si dà sequela di Cristo senza comunicazione, se non c’è qualcuno che mi comunica Cristo, che mi dice: “Ecco l’agnello di Dio”, se io, dopo aver incontrato Cristo, non comunico agli altri e non dico: “Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)”. Allora, la prima domanda che vorrei porre a me e a tutti voi è: quale testimonianza viene concretamente offerta oggi dalle nostre comunità, perché tutti possano ascoltare, perché tutti possano sentire la comunicazione della fede, cioè la comunicazione del Vangelo, cioè la comunicazione di Cristo? Quale testimonianza, nei contenuti e nei modi? Perché occorre prendere atto che ciò che è in crisi non è soltanto semplicemente la modalità con cui noi testimoniamo, parliamo, comunichiamo Cristo; ma è in crisi oggi lo stesso contenuto della testimonianza.

Volentieri, oggi, – siamo consapevoli sempre più di questo – la Chiesa si sta riducendo a comunicare dei valori: comunichiamo la pace, comunichiamo la giustizia, comunichiamo i valori, non comunichiamo più la persona, la persona di Cristo. E fino a che la comunicazione non diventa comunicazione della persona di Cristo in tutta la sua integralità, non è vera comunicazione della fede, non può far sorgere nessuna sequela. Non si seguono le idee, si seguono le persone. Ovviamente il problema poi è anche quello dei modi. Non voglio sottovalutarlo, questo aspetto: la nostra pigrizia nel ricercare i linguaggi più adatti per comunicare Cristo agli uomini.

Secondo livello di riflessione che vorrei proporre a voi sempre a partire da questo brano. Siam soliti utilizzare il brano – dicevo – come quasi una evidente dimostrazione dei passi del seguire il Signore, di questa dinamica vocazionale. E ci dimentichiamo che così come ce lo propone l’evangelista Giovanni, la dinamica della sequela si inscrive a sua volta, all’interno di questo brano, all’interno di un’altra dinamica, che è quella del riconoscimento. Prima ancora del problema del seguire, e del seguire “chi”, il problema è del “chi”, il “chi” di Gesù, il “chi è” di Gesù e il “chi è” dei suoi discepoli. C’è un fissare lo sguardo da parte del Battista, che suscita in lui la scoperta dell’identità di colui che sta passando. Fissando lo sguardo su Gesù che passava, Giovanni disse: “Ecco l’agnello di Dio”. E c’è un fissare lo sguardo da parte di Gesù sui suoi discepoli, in particolare su Pietro, per cui Gesù, fissando lo sguardo su di lui disse: “Tu sei Simone, ti chiamerai Cefa”. È un problema di riconoscimento.

Riconoscere però è frutto del contemplare. Noi siamo così ricondotti a un altro tema fondamentale di questo decennio pastorale delle nostre Chiese in Italia, il tema della contemplazione. Si può riconoscere solo ciò che si contempla. Il riconoscimento è il frutto di una conoscenza profonda, diremmo di quella conoscenza che scaturisce dal dimorare reciproco di Cristo in noi e di noi in Cristo. Questa è l’esperienza di Andrea, il quale, dopo aver dimorato con Gesù, è capace di dire a suo fratello Simone: “Abbiamo trovato il Messia, il Cristo”. La contemplazione che scaturisce dal dimorare, cioè dall’entrare nel mistero della persona, la persona di Gesù, la nostra persona illuminata dallo sguardo di Gesù, porta alla scoperta della identità: “Egli è l’agnello di Dio”, “Egli è il Cristo”, “Tu sei Pietro”.

Ecco allora una seconda esortazione che vorrei fare a me e a voi. Quella di far percepire il percorso vocazionale anzitutto come un cammino di identità. Prima ancora del fare, il problema è quello dell’essere. Prima del chiederci che cosa Dio ti chiama a fare nella sua Chiesa, nel mondo, nel suo Regno; “chi”, e prima ancora del “chi sono io”, il “chi è” di Gesù. Elemento fondamentale di un sano percorso vocazionale è anzitutto quello della scoperta della identità di Gesù, quell’identità di Gesù che fonda poi la nostra identità. Solo il Cristo può dire ad un uomo: “Tu sei Simone, ma d’ora in poi tu sarai Pietro”.

Ciò non vuol dire però che l’essere debba essere separato da fare. Qui la terza riflessione. L’essere non è altra cosa dal fare. La nostra vocazione – come dice il titolo della 40a Giornata delle Vocazioni – è servire: “Servi per vocazione”. E così ci viene presentato immediatamente Gesù dal Battista, egli ci dice che Gesù è “l’agnello di Dio”. Noi sappiamo che agnello e servo, in aramaico, vengono designati con la stessa parola e probabilmente nella designazione da parte del Battista e dell’evangelista Giovanni, di Gesù come agnello di Dio, c’è questa voluta ambiguità del dire l’agnello e il servo, la stessa ambiguità che nasce alla lettura del capitolo 53 del Cantico di Isaia: Gesù è l’agnello, Gesù è il servo, colui che offre nella pazienza della sua vita innocente, la sua stessa esistenza, che realizza la sua esistenza con una sofferenza redentrice per noi. Ma altrettanto proiettato sugli altri e sul servizio è l’identità di Pietro. Pietro è roccia, egli è l’ancoraggio sicuro non per se stesso ma per i fratelli ai quali dovrà svolgere il servizio di essere colui che conferma nella fede. L’identità che noi scopriamo, sia di Cristo sia nostra, è un’identità dunque che si proietta immediatamente sul servizio, sul fare del servizio.

Ecco allora la terza esortazione che vorrei proporre a me e a voi, quella che i nostri cammini vocazionali aiutino a superare la scissione tra l’essere e il fare, che è un’altra delle tipiche scissioni della cultura contemporanea; la nostra cultura che spesso è pronta ad affermare le ragioni dell’essere, ma non è altrettanto consequenziale a far scendere da esse quelle del fare; o, viceversa, si getta nel fare negando l’esistenza stessa dell’essere. Certo, tutto questo è difficile, soprattutto all’interno ancora di una cultura che è aliena a tutta la dinamica propria del servizio. Siamo all’interno di una cultura dell’autonomia, siamo all’interno di una cultura del dominio. È difficile portare le persone a capire che essere è servire. Direi però che lo dobbiamo fare con il coraggio, con il coraggio pieno anche di una proposta di servizio che si esplichi anche nelle forme proprie del ministero (ministero presbiterale, ministero diaconale) e di quelle della testimonianza per il Regno, la testimonianza della carità per il Regno.

Ultima riflessione quella con cui vorrei correggere un pericolo che è insito nell’isolare questa pagina del vangelo di Giovanni, e proporla semplicemente come un paradigma vocazionale, e cioè quella di vedere tutto questo soltanto come una realtà in progresso. In realtà – come ci ricorda la prima lettura – tutto questo si attua all’interno di una dinamica di giustizia e di peccato che è caratterizzante – direi – la vita e l’esistenza cristiana, e che la prima lettera di Giovanni rivela in tutta la sua radicalità. “Chi pecca è dal diavolo, chi è invece nato da Dio, non può peccare”. Non può peccare. Non si dice che si nasce dal diavolo, si nasce soltanto da Dio, ma si può appartenere al diavolo, e sono i nostri peccati, è il peccato che ci colloca nel regno delle tenebre, mentre invece si dice che nasciamo da Dio. Ed è nascere da Dio, è l’essere generati da lui che fa giungere in noi, rende presente in noi una forza invincibile di bene. Da una parte, dunque, la costruzione del male è l’opera della nostra malvagità e ci getta nelle mani del diavolo, dall’altra non siamo noi a generare il bene, ma è l’essere generati da Dio ci rende possibile il bene, anzi, ci rende impossibile il male. Lasciarci generare ogni giorno da Dio mediante quello che qui è chiamato il germe divino che dimora in noi, cioè lo Spirito Santo secondo alcuni, la Parola di Dio, secondo altri – ma alla fine io penso che sia la stessa cosa, perché la Parola di Dio è la parola dello Spirito, da lui ispirata e da lui resa comprensibile nel nostro cuore; non c’è comprensione della Parola al di fuori dello Spirito –. Per cui lo Spirito e la sua Parola, il germe divino che dimora in noi, diventano il principio del bene che può nascere nella nostra vita. 

E così mi sembra che siamo ricondotti al principio teologico di ogni vocazione. Non ci può essere un progetto buono, ci può essere un progetto buono però nessuna vita dell’uomo se non a partire da Colui che ci genera al bene, e non c’è quindi nessun autentico percorso vocazionale che non nasca da una esperienza profonda di Dio, da un sentire dentro di noi agire quel suo Spirito, un lasciare dentro di noi agire il suo Spirito, secondo quello che appunto è il principio di ogni bene.