N.03
Maggio/Giugno 2003

Le componenti antropologiche dell’amore e dell’affettività nella Bibbia: prospettive pedagogico-spirituali

Il mondo greco conosce tre parole per parlar d’amore: erôs, philia, agapê designanti rispettivamente passione erotica, amicizia e dono di sé. Anche la Bibbia conosce questo triplice amore che coinvolge la persona nella sua totalità, a partire dalla categoria fondamentale della “carne” (sarx). Non solo “corpo” (sôma), “anima” (psychê) e spirito (pneuma), ma anzitutto proprio la “carne” (sarx). E quindi “viscere” (splanchna), “reni” (nephros), “cuore” (kardia), prima ancora che “mente/intelletto” (nous) e “coscienza” (syneidesis).

Mi sembra importante come momento introduttivo al discorso chiarire il codice semantico di base, vale a dire il lessico antropologico che incrocia le voci del desiderio e della passione, della ricerca e della esperienza amorosa. Lo farò attraverso qualche assaggio, a modo di rapida incursione in alcuni testi particolarmente rilevanti per il nostro tema (sono obbligata ovviamente a restringere il campo). La breve chiarificazione semantica servirà da base al secondo momento che non si accontenta di descrivere le componenti antropologiche in astratto, ma vuole coglierne la personale messa in gioco. Osserveremo a grandi linee il percorso affettivo di Davide che tocca spesso le vette della generosità e del perdono, ma conosce anche i lati oscuri, i meandri della passione e l’abisso del peccato. Percorso comunque affascinante perché evidenzia un cuore umile e innamorato che piace a Dio.

Volgeremo quindi l’attenzione a Gesù Messia, figlio di Davide e di Maria (Mt 1,1-16). La natura e i limiti del presente intervento impongono la scelta di un approccio sintetico narrativo che procede per grandi affermazioni, di panoramica più che di scavo esegetico. Cercherò di offrire semplicemente alcuni stimoli e suggestioni per un ordo amoris nella prospettiva del Cantico dei Cantici, interpretato in modo eminente da Gesù, “il pastore bello” che depone la vita (psiche) per le sue pecore (Gv 10,11). Perché “nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita (psiche) per i propri amici” (Gv 15,13).

 

 

Il codice semantico di base

Mi pare che il discorso sulle componenti antropologiche dell’amore debba confrontarsi anzitutto con il duplice racconto della creazione, dove troviamo gli elementi imprescindibili dell’antropologia biblica: carne, spirito e parola.

 

A immagine di Dio, maschio e femmina

Nel primo racconto della Genesi l’uomo è creato direttamente dalla Parola di Dio, come tutte le altre creature. Risuona per l’ottava volta il ritornello: “E Dio disse” (wayyo’mer’elohim, 1,3.6.9.11.14.20.24.26). E il suo dire è qui particolarmente solenne, in prima persona plurale: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza” (Gn 1,26). L’autore sacro commenta con stupore: “Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò” (Gn 1,27). Si noti il passaggio dal singolare al plurale, come a dire che l’unica immagine divina è presente in duplice edizione! La differenziazione sessuale non è data come immagine di un Dio a sua volta sessuato (come ritenevano ad esempio gli antichi popoli d’Oriente), ma come modo di essere che realizza l’immagine divina proprio nella comunione delle diversità, nella reciprocità del maschile e femminile.

 

Polvere e soffio, carne e spirito

Il secondo racconto della creazione (Gn 2,4b-25) non è meno importante per l’antropologia biblica. Come abile artista, Dio plasma l’uomo/donna (Adam) con la polvere del suolo (adamah). È impastato di argilla l’essere umano, è radicalmente terreno. Ma è reso vivente in modo diverso dall’animale grazie a quel “soffio” che Dio gli inspira direttamente: “E soffiò nelle sue narici un alito di vita” (nishmat hayyîm, Gn 2,7). L’interiorità di Adam viene dall’interiorità stessa di Dio. Dio gli fa respirare la sua stessa vita[1]. Quel soffio è come il bacio sulla bocca! Così l’essere umano comincia a vivere di ciò che esce dalla bocca di Dio: spirito e parola. La dinamica dell’amore non può prescindere da queste componenti. La “carne” rivela la concretissima dimensione terrena che connota l’essere umano nel mondo e la sua caducità. Come l’animale l’uomo tornerà alla terra da cui è stato tratto: in tal senso è polvere e cenere. Ma quel soffio di vita proveniente dall’intimo di Dio lo abilita a trascendersi e in definitiva ad amare.

 

“Carne della mia carne” – “E il Verbo si è fatto carne”

Il più antico canto d’amore della Bibbia è l’estasi giubilante di ish per isha (uomo/uoma): “Essa è carne della mia carne” (basar mibbesarî), esclama il primo uomo innamorato (Gn 2,23).

La presenza della donna “sveglia” l’uomo, lo fa uscire dal sonno (vedi Gn 2,21) e lo fa parlare! Qui si rivela per la prima volta quella nefesh medabberet che secondo il filosofo ebreo Maimonide è ciò che distingue l’uomo da tutte le altre creature[2]. “Sotto il melo ti ho svegliato”, dirà la donna del Cantico (8,5). E le prime parole dell’uomo svegliato dall’amore sono piene di ammirazione e stupore.

“Carne della mia carne” è espressione indicante parentela e singolare alleanza. La ritroviamo identica in 2Sam 5,1 sulla bocca delle tribù d’Israele che riconoscono Davide come loro re[3].La componente fisica, corporea, particolarmente evidente nella relazione sessuale, connota in maniera concretissima l’amore dell’uomo e della donna. In realtà l’unione sponsale attua il progetto originario del Creatore che Gesù ribadisce e conferma: “E i due saranno una carne sola” (Mc 10,6-9).

Ma la carne è dimensione essenziale della stessa esperienza dell’amore divino dal momento che il Verbo si è fatto “carne”: kai ho logos sarx egeneto (Gv 1,14). Il cristianesimo è la religione della “incarnazione”, l’unica che arrivi a tanto! Di qui l’assioma patristico: caro cardo salutis. Oso parafrasare: caro cardo amoris, “la carne radice dell’amore”. Perché l’amore umano – anche quando non si esprime attraverso la relazione sessuale – non può prescindere dalla carne. Finché siamo in questo mondo anche l’amore per Dio è pur sempre “nella carne”, con tutto ciò che questo comporta: “Di te ha sete l’anima mia – dice il salmista a Dio – a te anela la mia carne” (Sal 62/63, 2).

D’altro canto non possiamo ignorare la valenza negativa della parola “carne” riscontrabile in vari testi della Scrittura[4]. L’intreccio carne/peccato particolarmente accentuato nella letteratura paolina ha pesato molto in una certa educazione religiosa, contribuendo a connotare negativamente la sessualità. Oggi si pone piuttosto un problema di comunicazione, vale a dire la necessità di tradurre la categoria biblica della carne (con le sue varie accezioni) nel linguaggio corrente, che preferisce parlare di corpo e corporeità. La nuova versione CEI (1997) si muove in tal senso[5].

 

Il canto del corpo: amore terreno e divino

L’esaltazione della corporeità trova ampio spazio nel Cantico dei Cantici, libro sconcertante per gli spiritualisti di ogni tempo, ma non per i mistici. Si vedano in particolare i canti estasiati del corpo (femminile e maschile), contemplato nel suo insieme e nelle sue parti, con sguardo ascendente e discendente: occhi, capelli, denti, guance, collo, seni… e dal basso all’alto: piedi, gambe, ombelico… (vedi Ct 4,1-7; 5,9-16; 6, 4-9). Indubbiamente erotico[6]. Tanto più sorprendente in quanto i due giovani amanti non sono ancora marito e moglie. Eppure – concludeva Rabbi Akiba – il Cantico “sporca le mani” (= è divinamente ispirato). E sulla base di tale convincimento fu annoverato nel canone delle Sacre Scritture.

Ciò significa però che il terreno porta il divino. In effetti l’eros del Cantico non è mai chiuso in se stesso ma aperto e trascendente, gode della reciprocità, conosce philia e agapê in una ricerca talvolta angosciante e sofferta (cfr. 3,1.2; 5,6). La giovane amante può dire: “Io sono del mio tesoro e verso di me è la sua passione” (7,11), rovesciando così l’affermazione della Genesi con la sua triste appendice: “Verso tuo marito sarà la tua passione ed egli vorrà dominare su di te” (Gn 3,16). Nel Cantico invece non vi è alcuna volontà di dominio: né di lei né di lui. La passione erotica liberata da ogni sopraffazione fa sì che lei si senta “la pacificata” (Ct 8,10). Ha trovato il suo shalóm (pace e benessere) in un rapporto d’amore pienamente gratuito e liberante. Perciò chiede al suo diletto: “Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio, perché forte come la morte è l’amore” (Ct 8,6)[7].

È interessante notare che nel Cantico non troviamo mai il vocabolo erôs né il corrispettivo verbo eraô, mentre invece sono entrambi presenti nel libro dei Proverbi. Sulla bocca della prostituta erôs e philia sono termini intercambiabili, in un sottile parallelismo che cela l’inganno: “Vieni, inebriamoci d’amore (philia) fino al mattino, godiamoci insieme amorosi piaceri (= dilettiamoci di erôs, Pr 7,18)”. Un detto di Agur afferma che l’eros di una donna non dice mai basta (Pr 30,16). Può sembrare negativo, ma avviene la stessa cosa con la divina Sapienza. Sorprendentemente infatti Pr 4,6 riferisce ad essa il verbo dell’amore erotico (eraô) : “Non abbandonarla ed essa ti custodirà, amala (con passione erotica) e veglierà su di te”.

 

Con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze

Per la Bibbia l’uomo è “essere bifronte o bidimensionale: alla sua faccia esterna e immediatamente percepibile si abbina il suo volto interiore, profondo e nascosto, noi diremmo il suo io intimo, che non sfugge allo sguardo penetrante di Dio e neppure all’occhio penetrante dello stesso interessato”[8]. Tuttavia se dagli elementi visibili della struttura antropologica vogliamo entrare nell’intimo, nell’interiorità della persona, non è in primo luogo il termine “anima” (psychê) che il vocabolario biblico ci fa incontrare, ma piuttosto “cuore” (kardia) e “reni” (nephros).

Il cuore è la sede dei sentimenti, dei pensieri e dei progetti. Solo Dio conosce pienamente ciò che è nel cuore (1 Sam 16,7), lui che scruta il cuore e i reni (Ger 11,20; Sir 42,18; Eb 4,12-13):

Più fallace di ogni altra cosa

è il cuore e difficilmente guaribile; chi lo può conoscere?

Io, il Signore, scruto la mente (lett. “cuore”, leb, kardia, cor)

e saggio i cuori (lett. “reni”, kelaiot, nephrous, renes) per rendere a ciascuno secondo la sua condotta,

secondo il frutto delle sue azioni (Ger 17,9-10; la Volgata traduce: “ego Dominus scrutans cor et probans renes”).

 

A queste dichiarazioni del profeta fa eco il Sal 138 (139): 

“Signore, tu mi scruti e mi conosci, 

tu sai quando seggo e quando mi alzo. 

Penetri da lontano i miei pensieri… 

Ti sono note tutte le mie vie;

la mia parola non è ancora sulla lingua

e tu, Signore, già la conosci tutta” (vv. 1-4).

In continuità di prospettiva Luca qualifica il Signore come “il conoscitore del cuore” (kardiognostes: At 1,24). Ora se Dio scruta l’intimo – il cuore e l’anima – si comprende facilmente che in amore non si accontenti di segni esteriori, ma esiga verità e dedizione piena: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5). Perciò nel Cantico l’innamorata si rivolge al suo Diletto chiamandolo: “Tu che il mio cuore ama”, “amore dell’anima mia” (Ct 1,7; 3,1).

Il cuore è parola decisamente rilevante anche nel NT. In polemica con l’esteriorità farisaica, Gesù ribadisce che l’importante viene “dal di dentro, cioè dal cuore” (Mc 7,21). Bisogna dunque coltivare non solo l’estetica del volto ma del cuore, ornandolo di mitezza e pace (1Pt 3,4). Nel cuore del credente deve abitare il Cristo, adorato e santificato come Signore (1Pt 3,15).

Merita attenzione anche un altro termine, che allude al grembo e alle viscere materne (rehem, splanchna) come sede di emozione e compassione profonda (splanchnizomai). È una dimensione dell’amore a cui sia Davide che Gesù si rivelano particolarmente sensibili, fino a diventare icona e chiara trasparenza del patos divino, delle sue viscere di misericordia. Basti evocare 2Sam 19; Mc 6,34; Lc 10,33; 15,20.

 

 

Un sondaggio nell’affettività vissuta

In questa parte centrale vorrei tentare una sorta di sondaggio nell’esperienza affettiva di due campioni della Bibbia: Davide e Gesù, due uomini visti con occhi di donna. Sarebbe interessante leggere in parallelo – per affinità e contrasto – il percorso affettivo dei due personaggi, dalla gioia dell’amore all’anima triste fino alla morte, dal fascino della bellezza all’amicizia, dal tradimento al perdono: l’amico Gionata rinvia al discepolo amato e agli amici di Betania, ma non di meno l’umiliazione di Davide e il figlio Assalonne evocano la passione di Gesù e il discepolo traditore.

Entrambi i personaggi sono esaltati per la loro bellezza. Davide è descritto nella sua fisicità in 1Sam 16: “Era fulvo, con begli occhi e gentile di aspetto” (v. 12)[9]. Della fisicità di Gesù i Vangeli non dicono praticamente nulla, non il colore degli occhi o dei capelli, né la sua statura, ma ci sono almeno due pagine che ne esaltano la bellezza: la Trasfigurazione, ricordata da tutti e tre i Sinottici10, e Giovanni[10] dove lo stesso Gesù si definisce “il pastore quello bello” (ho poimên ho kalos). Evidentemente tale definizione trascende la fisicità, ma non è senza una qualche allusione (specie nell’immaginario biblico) a quel “pastore bello” che fu Davide.

Un secondo elemento che avvicina le due figure è il cuore: “Egli scelse Davide suo servo… pastore dal cuore integro” Sal 77 (78), 72. Dio si compiace del cuore di Davide, nonostante il suo peccato. Perché lo trova umile, sincero, pieno di fiducia nel Signore, alieno da ipocrisie e formalismi, capace di slanci generosi e di compassione. Lo evidenziano in particolare i due racconti in cui risparmia la vita a Saul e il suo pianto alla morte di Assalonne. Quanto a Gesù, egli attrae perché “mite e umile di cuore” (Mt 11,28). Il suo amore si spinge fino a patire “giusto per gli ingiusti” (1Pt 3,18).

Inoltre ci sono degli aspetti che si richiamano per contrasto. Si pensi alle relazioni familiari. Mentre Gesù è il primogenito di Maria (Lc 2,7), Davide è l’ultimo di una famiglia patriarcale, quello che non conta e non ha peso nelle decisioni familiari e che rischia di essere perfino dimenticato, come suggerisce la domanda di Samuele a lesse, dopo che questi sembra aver finito di introdurgli i suoi figli: “Sono qui tutti i giovani?”. Rispose lesse: “Rimane ancora il più piccolo che ora sta a pascolare il gregge” (se ne era dimenticato?!). Dio ribalterà la situazione facendolo diventare il primo e il capo dei suoi fratelli, come canta Davide stesso nel Sal 151 trovato nell’originale ebraico a Qumran: “Io ero il più piccolo tra i miei fratelli / e il più giovane tra i figli di mio padre… Ma egli mandò a prendere me di mezzo al gregge / e mi unse con olio santo / e mi costituì capo del suo popolo / e governatore sui figli della sua alleanza”[11].

Delle relazioni di Gesù con la sua famiglia, i fratelli e sorelle menzionati da Marco nella visita a Nazaret, sappiamo assai poco[12]. Anche per Gesù tuttavia si realizza un capovolgimento di situazione, ma su altro piano: come risposta al suo volontario abbassamento. Pur essendo di natura divina, egli si fa liberamente ultimo, servo obbediente fino alla morte di croce. “Per questo – canta l’inno della Lettera ai Filippesi che invita i cristiani a lasciarsi abitare dagli stessi sentimenti – Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome” (2,9).

Ma entriamo direttamente nella trama del racconto che ci consente di articolare meglio alcuni passaggi chiave del percorso affettivo di Davide e di Gesù.

 

 

Uno sguardo al percorso di Davide

Per il giovane Davide, abituato a stare sui monti a pascolare il gregge di suo padre che “al tempo di Saul era anziano e avanti negli anni” (1Sam 17,12-15), l’ingresso a corte segna indubbiamente un notevole cambio di vita e l’occasione di un sorprendente percorso affettivo che matura nella bella amicizia con Gionata e nondimeno nell’arduo confronto con Saul: personaggio ombroso, dai sentimenti oscillanti tra amore e odio, ammirazione e gelosia. L’inizio è entusiasmante: “Saul si affezionò molto” a Davide (1Sam 16,21) e lo volle accanto come suonatore di cetra e suo scudiero. Ma ben presto, ingelosito dai suoi trionfi, gli muove persecuzione e tenta perfino di ucciderlo. Così Davide è costretto alla fuga.

 

“Guarda, padre mio…”

Due episodi rivelano in modo emblematico i sentimenti che abitano il cuore di Davide nei confronti di Saul. Li troviamo rispettivamente in 1 Sam 24 e 26. Nel primo caso Saul, che sta inseguendo Davide e i suoi uomini nel deserto di Giuda, nei pressi di Ein Gheddi, di fronte alle Rocce dei caprioli, entra in una grotta per espletare i suoi bisogni naturali, ignorando che proprio lì si nascondeva Davide coi suoi. E neppure li vede, perché entrando dalla luce al buio è come accecato. Ben lo riconoscono invece Davide e i suoi uomini, i quali interpretano l’evento come un segno di Dio: “Ecco il giorno in cui il Signore ti dice: Vedi, metto nelle tue mani il tuo nemico, trattalo come vuoi” (1Sam 24,5). Ma Davide non sposa questa idea strumentale, benché rivestita di motivazione teologica. Si limita a tagliare il lembo del mantello del suo re, totalmente disarmato in quella posizione poco regale. E quando Saul lascia la caverna gli grida dietro: “Perché ascolti la voce di chi dice: Ecco Davide cerca la tua rovina? Ecco, in questo giorno i tuoi occhi hanno visto che il Signore ti aveva messo oggi nelle mie mani nella caverna. Mi fu suggerito di ucciderti, ma io ho avuto pietà di te e ho detto: Non stenderò la mano sul mio signore, perché egli è il consacrato del Signore. Guarda, padre mio, il lembo del tuo mantello nella mia mano: quando ho staccato questo lembo dal tuo mantello nella caverna, vedi che non ti ho ucciso” (1Sam 24,10-12).

Saul scoppia in lacrime e riconosce la superiorità morale di Davide: “Tu sei stato più giusto di me, perché mi hai reso il bene, mentre io ti ho reso il male. Oggi mi hai dimostrato che agisci bene con me, che il Signore mi aveva messo nelle tue mani e tu non mi hai ucciso. Quando mai uno trova il suo nemico e lo lascia andare per la sua strada in pace? Il Signore ti renda felicità per quanto hai fatto a me oggi” (1Sam 24,18-20). Grande Davide! Si rivela qui un aspetto fondamentale per cui è gradito al Signore: il suo cuore integro e generoso. In 1Sam 26 troviamo un racconto analogo, che conferma il senso del precedente. Davide non cede all’opinione di Abisài benché anch’essa vestita di linguaggio teologico (“Oggi Dio ti ha messo nelle mani il tuo nemico. Lascia dunque che io l’inchiodi a terra con la lancia in un sol colpo e non aggiungerò il secondo” v. 28), ma si limita a portar via la lancia e la brocca dell’acqua, che poi mostrerà a distanza, dalla cima del monte. Una distanza che ben si addice ad esprimere anche il dislivello dei sentimenti che abitano Davide e Saul. Alla fine di quest’ultimo incontro a distanza ciascuno va per la sua strada.

 

 

L’amicizia di Gionata

L’amicizia con Gionata sboccia come fiore inatteso nella stessa casa in cui Davide sperimenta le insidiose trame di Saul. Aveva appena finito di parlare che “l’anima di Gionata s’era già talmente legata all’anima di Davide, che Gionata lo amò come se stesso” (1Sam 18,1). L’erede al trono, diversamente dal padre, è libero da ogni paura di concorrenza, anzi liberamente si spoglia per rivestire l’amico: “Gionata strinse con Davide un patto, perché lo amava come se stesso. Gionata si tolse il mantello che indossava e lo diede a Davide e vi aggiunse i suoi abiti, la sua spada, il suo arco e la cintura”. 

Particolarmente efficace l’espressione: “Lo amò come la sua anima (nefesh)”. Come la propria vita. Al punto che le due anime/vite diventano come una sola. Così Davide prima ancora della sponsalità che rende “i due una sola carne”, sperimenta il bene gratuito dell’amicizia che rende i due un’anima sola, l’uno preoccupato dell’altro come della propria stessa vita (cfr. 1 Sam 19,1 e 20,17). L’affetto di Davide per l’amico Gionata trova la sua più alta espressione lirica nel canto funebre:

Gionata, per la tua morte sento dolore,

l’angoscia mi stringe per te,

fratello mio Gionata!

Tu mi eri molto caro;

la tua amicizia era per me preziosa

più che amore di donna (2Sam 1,25-26).

 

 

Mikal e l’arca del Signore

Nella cupa casa di Saul oltre l’amicizia di Gionata fiorisce anche l’amore di Mikal, la figlia più giovane che “s’invaghì di Davide” (1 Sam 18,20). È astuta come Rachele la prima donna che Davide sposa diventando addirittura genero del re che lo odia a morte[13]. Come Rachele anche lei userà i terafim (le divinità domestiche, proprie delle varie tribù) per ingannare il padre e mettere in salvo la vita del marito (cfr. 1Sam 19,13-16 e Gn 31,19-35). Non c’è dubbio che Mikal lo amasse. Rischia molto infatti per metterlo in salvo facendolo calare di notte dalla finestra: scatena contro di sé la collera del padre (1 Sam 19,17). Eppure non sembra essere il grande amore di Davide, il quale non trova in lei l’affinità d’animo che aveva invece con suo fratello Gionata. La diversità dei sentimenti appare in tutta la sua evidenza in occasione del trasferimento dell’arca del Signore[14].

“Davide danzava con tutte le forze davanti al Signore” (2Sam 6,14). Mikal invece stava a guardare dalla finestra e vedendo il re che saltava e danzava “lo disprezzò in cuor suo” (6,16). E a cerimonia finita non mancò di esternare i suoi sentimenti: “Bell’onore si è fatto oggi il re di Israele a mostrarsi scoperto davanti agli occhi delle serve dei suoi servi, come si scoprirebbe un uomo da nulla!”. Davide rispose a Mikal: “L’ho fatto dinanzi al Signore, che mi ha scelto invece di tuo padre e di tutta la sua casa per stabilirmi capo sul popolo del Signore, su Israele; ho fatto festa davanti al Signore. Anzi mi abbasserò anche più di così e mi renderò vile ai tuoi occhi, ma presso quelle serve di cui tu parli, proprio presso di loro, io sarò onorato!” (2Sam 6,20-22). L’episodio non rivela solo un piccolo diverbio familiare, ma due cuori diversi: quello di Davide innamorato del Signore, che non teme di umiliarsi e di perdere la propria dignità danzando e cantando in suo onore, e quello di Mikal, orgoglioso e legato all’immagine di sé, che giudica del tutto sconveniente il comportamento di Davide. La differenza è radicale, uno è capace di pazzie per il suo Dio, l’altra è fredda e razionale, Dio non sembra così importante per la sua vita. 

 

 

Quando l’amore sposa la saggezza: Abigail

Abigail è la donna che Davide incontra in un momento nero, in cui la rabbia e l’orgoglio ferito stavano decisamente prevalendo con il rischio di far precipitare il nostro eroe dalla vetta all’abisso, dall’amore capace di perdono alla vendetta. Il racconto si colloca infatti in 1Sam 25, proprio in mezzo ai due capitoli in cui Davide dà prova di grande generosità, risparmiando la vita di Saul. Avendo sentito che un certo Nabal, assai ricco, stava facendo la tosatura del gregge, Davide avanza richieste per sfamare i suoi uomini. Ma si sente rispondere con insultante tono provocatorio: “Chi è Davide e chi è il figlio di Iesse? Oggi sono troppi i servi che scappano dai loro padroni” (1Sam 25,10). È troppo. Come chi è Davide? Tutti sapevano dell’eroe che uccise il gigante liberando Israele! Detto e fatto: “Cingete tutti la spada!”. Tutti cinsero la spada e Davide cinse la sua e partirono dietro di lui circa quattrocento uomini (v. 13).

E mentre Davide sale verso la casa dello stolto Nabal deciso a fare una strage prima del sorgere del sole, qualcuno avverte la moglie di lui, la saggia Abigail, che interviene prontamente inviando verso gli affamati abbondanti porzioni di cibo, e quindi scendendo lei stessa sul dorso di un asino all’incontro con Davide. Quando i due si trovano di fronte, lei veloce balza di sella, si prostra a terra e inizia un discorso che progressivamente conquista Davide fino a colpire il punto dolente: “Non sia di angoscia o di rimorso al tuo cuore questa cosa: l’aver versato invano il sangue e l’aver fatto giustizia con la tua mano, mio signore” (v. 31). E ha pienamente successo. Davide resta colpito dalle sue parole più ancora che dalla sua bellezza ed esclama: “Benedetto il Signore, Dio d’Israele, che ti ha mandato oggi incontro a me. Benedetto il tuo senno e benedetta tu che mi hai impedito oggi di venire al sangue e di fare giustizia da me” (vv. 32-33).

Abbiamo buoni motivi per immaginare che questa donna abile e saggia, che Davide prende in moglie di lì a poco, data l’improvvisa morte di Nabal, abbia continuato a stargli vicino con il suo intuito perspicace e la saggia lungimiranza dell’amore[15].

 

 

Betsabea e il peccato di Davide

Vorrei evocare rapidamente un’altra relazione, che mi sembra importante per il nostro tema in quanto rileva anche gli aspetti problematici del percorso affettivo di Davide. L’incontro con Betsabea porta evidente il segno del cedimento alla seduzione. La storia è nota, ma il racconto è di tale finezza psicologica che il rileggerlo è sempre arricchente. In primo luogo meritano attenzione le nuove coordinate:

– era “il tempo in cui i re sogliono andare in guerra” (2Sam 11,1). Ma Davide può concedersi ormai di restare a casa e condurre vita agiata e regale.

– era “un tardo pomeriggio”, precisa il narratore entrando più direttamente in tema. Dopo un pranzo regale Davide si era concesso una debita siesta e quindi “si mise a passeggiare sulla terrazza della reggia. Dall’alto di quella terrazza egli vide una donna che faceva il bagno: la donna era molto bella di aspetto” (v. 2).

Di donne belle il suo harem non era certo sfornito, ma lui ora vuole quella, pur sapendo che era la moglie del suo mercenario straniero: Uria, l’ittita. Il re può fare ciò che gli piace, agli altri tocca accontentarlo: “Mandò messaggeri a prenderla. Essa andò da lui ed egli giacque con lei” (v. 4). Nessuna parola tra i due. Ma dopo qualche settimana Betsabea fa udire la sua voce: “Sono incinta”.

Comincia la spirale dell’inganno volta a coprire il misfatto. Davide tenta a sua volta la seduzione con il povero Uria, ma il gioco non gli riesce. Anzi quel soldato straniero gli dà una lezione non solo di carattere morale, ma di sorprendente carica affettiva nei confronti di ciò che era stato il grande amore di Davide, l’arca del Signore: “L’arca, Israele e Giuda abitano sotto le tende, Ioab mio signore e la sua gente sono accampati in aperta campagna e io dovrei entrare in casa mia per mangiare e bere e per dormire con mia moglie? Per la tua vita e per la vita della tua anima (nafsheka), io non farò tal cosa!” (v. 11).

Una tale solidarietà sarebbe stata indubbiamente apprezzata da Davide in altro contesto, ma ora pensa soltanto a salvare la faccia e per coprire il suo peccato ne concepisce un altro peggiore. Ci vorrà il profeta con la coinvolgente parabola del ricco che porta via l’unica pecorella del povero per svegliare il cuore assopito di Davide che pronuncia la sentenza: “Chi ha fatto questo merita la morte” (2Sam 12, 5). “Tu sei quell’uomo!” (v. 7). Il seguito ci porta dentro i sentimenti del Miserere: “Abbi pietà di me, o Dio secondo la tua misericordia, nella tua grande bontà cancella il mio peccato”. Davide fa appello al grembo materno di Dio, alle sue viscere di misericordia (kerov rahamêka, “secondo la tua grande misericordia”). Riconosce che Dio vuole “sincerità nell’intimo” e pertanto chiede un cuore nuovo:

“Crea in me, o Dio, un cuore (leb kardia) puro

rinnova in me uno spirito (ruah /pneuma) saldo.

Non respingermi dalla tua presenza

e non privarmi del tuo santo spirito (ruah qodsheka, to pneuma to hagion sou).

Ecco dove appare pienamente la struttura antropologica dell’amore! Troviamo qui termini importanti in ordine al nostro tema, come “cuore” e “spirito” con esplicito riferimento alla “grande misericordia”, il divino grembo materno capace di generare ciò che l’essere umano peccatore non sa darsi: cuore puro e spirito santo.

 

 

Viscere di compassione

Come Natan aveva annunciato, Davide sperimenta umiliazione e rivolta da parte della sua stessa famiglia: è il proprio figlio che attenta al suo regno! Eppure in tale situazione viene alla luce il Davide che dà il meglio di sé in termini di cuore e spirito rinnovati, capaci di amare secondo Dio. Solo rapidi accenni a quella che possiamo chiamare la sua via dolorosa. Davide sale piangendo il monte degli Ulivi, fugge lasciando Gerusalemme alle spalle, umiliato dal figlio che sulla terrazza del palazzo reale violerà le sue mogli e concubine.

 

Lasciate che maledica…

Mentre Davide fugge per salvarsi la vita, un certo Simei della casa di Saul lanciando sassi contro di lui lo maledice, gli augura la morte e la fine del regno. Gli uomini armati che camminano a fianco del re vorrebbero azzittire una volta per tutte quell’insolente. Ma Davide li trattiene con queste parole: “Ecco, il figlio uscito dalle mie viscere cerca di togliermi la vita: Quanto più ora questo Beniaminita! Lasciate che maledica, poiché glielo ha ordinato il Signore. Forse il Signore guarderà la mia afflizione e mi renderà il bene in cambio della maledizione di oggi” (2Sam 16,11-12).

Ancora una volta Davide legge gli eventi diversamente dai suoi uomini. Anche Simei rientra nel piano del Signore. Non si tratta di zittire il nemico che maledice, ma di ottenere misericordia dall’Unico che può capovolgere la situazione e benedire entrambi. E che il cuore di Davide sia davvero orientato al perdono lo conferma ciò che avviene a rivolta domata, quando Simei gli si getta innanzi tremante: “Non morirai!”, lo assicura il re (19,24).

 

Assalonne, figlio mio!

La pagina più toccante è indubbiamente la sorprendente reazione di Davide alla morte del figlio Assalonne. Credevano di dargli una bella notizia annunciando la fine della rivolta capeggiata dal figlio ribelle e traditore. E invece il re “fu scosso da un tremito, salì al piano di sopra della porta e pianse; diceva in lacrime: ‘Figlio mio! Assalonne figlio mio, figlio mio Assalonne! Fossi morto io invece di te, Assalonne, figlio mio, figlio mio!’ … La vittoria in quel giorno si cambiò in lutto per tutto il popolo, perché il popolo sentì dire in quel giorno: ‘Il re è molto afflitto a causa del figlio’…. Il re si era coperta la faccia e gridava a gran voce: ‘Figlio mio Assalonne, Assalonne figlio mio, figlio mio!’” (2Sam 19,1-5).

Deve intervenire Ioab, il generale dell’esercito, per ricondurre a ragionevolezza un Davide che infatti è “oltre”: più simile al cuore divino che a quello di un comune padre mortale. Ioab entrò in casa del re e disse: “Tu copri oggi di rossore il volto di tutta la tua gente, che in questo giorno ha salvato la vita a te, ai tuoi figli e alle tue figlie, alle tue mogli e alle tue concubine, perché mostri di amare quelli che ti odiano…” (2Sam 19,6-7).

 

Cuore, anima, spirito… e carne

Il rapido sguardo al percorso di Davide ci ha mostrato una dinamica affettiva che coinvolge cuore, anima, mente e spirito, ma anche viscere e carne. Cuore amante quello di Davide, capace di slanci generosi, di compassione e perdono, appassionato di Dio, fedele all’amicizia di Gionata, sensibile alla bellezza delle donne e vulnerabile: sperimenta tutta la debolezza della carne con Betsabea e il vortice del peccato… Eppure – come bene evidenzia l’evangelista Matteo – è proprio da quella che fu la moglie di Uria che Davide genera la carne e il sangue del Messia[16]. Il Cristo assume la carne del peccato e la trasfigura di eterno Amore.

 

 

 

Uno sguardo al percorso di Gesù

Come ha vissuto l’affettività Gesù Cristo figlio di Davide, concepito di Spirito Santo nel grembo purissimo di Maria (Mt 1,16.18-23)? Quali relazioni con la famiglia, con i discepoli e le donne che lo seguivano, con gli amici, il traditore e i suoi persecutori? Come si esprime in lui la dinamica di erôs, philia e agapê? Cosa ci insegna il Maestro su questo tema e cosa comporta per noi seguire le sue orme? Mi piacerebbe leggere il percorso affettivo di Gesù in parallelo a quello di Davide, per affinità e contrasto, raccontando le pagine dei Vangeli che mostrano come egli viva in modo eminente i nobili sentimenti di amicizia, prossimità e compassione che abbiamo riscontrato in Davide. E nondimeno evidenziare la distanza etico-spirituale di questo figlio di Davide che percorre la via della messianicità regale sconvolgendone gli schemi: in termini di radicale non violenza, facendosi ultimo e servo di tutti, amante fino a dare la propria vita.

Accenno semplicemente a tre piste di sviluppo che riguardano la corporeità, la psicologia e la spiritualità dell’amore nel senso che coinvolgono corpo/carne, anima e spirito, erôs, philia e agapê. Quando Gesù a poco più di trent’anni si presenta sulla scena pubblica è un uomo capace di relazioni affettive mature e liberanti. Sa dialogare con uomini e donne di varie categorie sociali, è appassionato predicatore del Regno di Dio e si prende cura di tutto l’uomo, anima e corpo: tocca (perfino i lebbrosi!) e si lascia toccare, baciare, profumare…

Colpisce la sua profonda umanità. Non umilia mai l’interlocutore, uomo o donna che sia. Come Davide è pieno di gioia per Dio e di amore attraente. Ne sono affascinati in particolare i lontani e gli oppressi che si sentono accolti, interpellati, mai giudicati: “Venite a me voi tutti che siete stanchi e caricati di troppo peso e io vi darò riposo” (Mt 11,28).

 

 

“Se il tuo corpo è tutto luminoso…”

Si potrebbe leggere l’intero insegnamento di Gesù sotto il profilo dell’affettività. Muovendo dal Discorso del Monte vorrei notare anzitutto la gioia che sposa il coraggio di amare secondo Dio. In realtà l’esordio di Gesù è un grido di gioia: makàrioi, “beati”! Immagino un volto da giullare prima ancora dei tratti solenni del Maestro a cui ci hanno abituato gli splendidi mosaici bizantini e le sante icone. In realtà l’evangelista Matteo riesce a tenere insieme la dimensione solenne del Maestro che siede in cattedra sul monte, con un volto luminoso, che sprizza gioia, perché non si può dire “beati, felici!” con la faccia seria e tanto meno triste. Il figlio di Davide e di Maria erompe in un grido di giubilo perché ha capito il gioco di Dio, il suo personale coinvolgimento a fianco dei poveri e degli afflitti. Le beatitudini sono un nuovo modo di vedere, ma anche di sentire e di amare la vita.

La parola usata da Gesù per designare la situazione di beatitudine (makàrios in greco, ashrè in ebraico) esprime una felicità profondissima, la gioia che sta a fondamento dell’esistenza e viene da Dio[17]. La lingua greca utilizza il vocabolo eudàimon per la gioia che si può ottenere da un soddisfacente vivere umano, la gioia dei sensi e dell’amicizia. Ma beati non sono semplicemente i contenti o i fortunati. Gesù dà spazio alla libertà, alla gioia di chi riesce a vedere le cose da un altro punto di vista, quello di Dio e del suo Regno.

In questa prospettiva vanno comprese le indicazioni che egli impartisce in ordine a una “giustizia più grande” (Mt 5,20), la quale include il coraggio della riconciliazione e del dominio di sé, la rinuncia alla violenza e perfino l’amore verso i nemici (5,21-48). Un allargamento di campo che si appella al Dio della creazione, il quale mostra di amare non solo i buoni ma anche i malvagi. Il sole sorge infatti su tutti, giusti e ingiusti, buoni e cattivi. Su questa esperienza tanto positiva quanto universale, Gesù fonda il principio base della sua etica di amore: la imitatio Dei. “Amate i vostri nemici e pregate per coloro che vi perseguitano affinché diventiate figli del Padre vostro…”. Notiamo che qui la figliolanza divina è vista in divenire, come esigenza etico-esistenziale. La parentela la si riconosce dalla somiglianza… In altre parole il volto divino si riflette in uomini e donne che nei solchi violenti della storia vincono l’odio con l’amore: “Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio”! Diventare figli e figlie di Dio è allora compito che ti appartiene, impegna le tue scelte di amore.

Gesù proclama “beati/felici i puri di cuore”. Come custodire tale gioia nell’ambito della reciprocità coniugale? Essa esige di evitare non solo l’adulterio condannato dalla Legge, ma più radicalmente il desiderio stesso dell’adulterio che contamina il cuore uccidendo la bellezza e la verità dell’amore: “Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore. Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna…” (5,2730). Gesù parla per immagini, con linguaggio figurato e con quel gusto del paradosso caro ai semiti: è preferibile cavarsi un occhio o tagliarsi una mano piuttosto che perire interamente!

L’occhio e tutto il corpo deve essere luminoso: “La lucerna del corpo è l’occhio. Se dunque il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso” (Mt 6,22). Luca riporta in altro contesto questo detto del Signore e lo esplicita così: “Bada dunque che la luce che è in te non sia tenebra. Se il tuo corpo è tutto luminoso senza avere alcuna parte nelle tenebre, tutto sarà luminoso, come quando la lucerna ti illumina con il suo bagliore” (Lc 11,35-36).

 

 

Viscere di compassione

L’affettività di Gesù trova espressione forte nel suo pathos per il popolo di Dio. Il Gesù che scende dalla montagna richiama il Dio dell’esodo che scende per liberare il popolo oppresso (Es 3,7-8). Il Maestro divino scende dal monte per farsi carico di tutte le sofferenze e infermità (Mt 8,17) e chiama quanti lo seguono a fare altrettanto. La compassione è l’anima della sua missione: “Vedendo le folle fu preso da compassione per loro perché erano stanche e prostrate come pecore senza pastore” (Mt 9,36; cfr. Mc 6,34).

Gesù coglie la situazione in profondità, non vede semplicemente una folla, ma singole persone, ciascuna con i suoi problemi. Sembra fotografare anche il presente, una sorta di radiografia compendiata in due parole: “stanche e sfinite”, ed è preso da un fremito. Come una madre per la creatura del suo grembo: un’emozione profonda, viscerale, bene espressa dal verbo splanchnìzomai che allude alle “viscere” (splànchna) e in particolare al grembo materno (come il corrispondente ebraico rahamìm). Fremono in Gesù le viscere materne di Dio, la sua divina misericordia[18].

Il medesimo verbo descrive la compassione del buon samaritano e del padre misericordioso (Lc 10,33 e 15,20), due personaggi che dipingono al vivo cosa significa lasciarsi ferire il cuore. Nel primo caso l’interlocutore di Gesù, un esperto della Legge, aveva già risposto bene alla questione sul che fare per avere in eredità la vita eterna. Aveva affermato il primato dell’amore di Dio e del prossimo (Lc 10,27-28). Ma restava una questione aperta: “E chi è il mio prossimo?” Chi devo amare?

Gesù non disquisisce sul piano teorico, racconta storie: una splendida parabola che muove da un’aggressione sulla strada infida che da Gerusalemme scende a Gerico. Un uomo viene assalito dai briganti, depredato e lasciato a dissanguare sulla strada. È la prima di tre scene che potrebbero intitolarsi:

– l’uomo malmenato 10,30

l’uomo trascurato 10,31-32

l’uomo aiutato 10,33-35

L’identità della vittima è lasciata nell’ombra, e non a caso. Ha poca importanza dal punto di vista di Gesù per il quale conta semplicemente l’uomo nella sua situazione di bisogno. La seconda scena invece è più ampia, con doppia serie di personaggi (sacerdote e levita) ma identico schema: “Avendo visto, passò dall’altra parte”. Ripetono entrambi il medesimo rito: vedono e passano oltre. Il verbo anti-par-êlthen rende quasi visivo l’ampio giro che devono fare per scansare quell’uomo insanguinato che ingombra il cammino… Per quali ragioni si astengono dal fare alcunché? Paura di contaminarsi? Ma l’incappato nei briganti non è un cadavere che contamina la purità rituale, è ancora vivo e chiede aiuto… Inoltre i due non stanno andando al Tempio ma semmai vi ritornano, poiché scendono entrambi da Gerusalemme. Hanno dunque offerto il sacrificio, ma non hanno imparato la misericordia… (cfr. Os 6,6 e Mt 9,12).

Dopo la brutta figura del sacerdote e del levita, sarà un semplice giudeo a dar prova di autentico amore del prossimo? Niente affatto. Non è un giudeo che si ferma “preso da compassione”, ma un odiato straniero, un samaritano! Egli però, diversamente dai due che lo hanno preceduto, si lascia ferire il cuore (esplanchnisthê) e tutto il resto viene come di conseguenza: una cascata di amore indicata da sette azioni puntuali. Si avvicina (proselton), si china sulle ferite, vi versa olio e vino, carica l’uomo sul proprio giumento, lo porta all’ostello più vicino e “si prende cura” di lui. Ecco l’amore corposo che Gesù vive e ci propone. Un amore che si lascia ferire il cuore e si fa carico dell’altro.

 

 

Amico di pubblicani e peccatrici

È solo per caso che nella redazione di Luca la parabola del buon samaritano sia la prima delle quindici parabole che Gesù racconta strada facendo verso Gerusalemme? Non direi. Infatti quasi alla fine del viaggio, quando Gesù arriva a Gerico, troviamo un’altra pagina soltanto di Luca: l’incontro con Zaccheo, il pubblicano (19,1-10). Quel buon samaritano che è il Cristo, scende fino a Gerico per cercare e salvare ciò che era perduto! In Gesù si manifesta la compassione di Dio per l’umanità sofferente e disorientata e nondimeno la straordinaria emozione della gioia divina. Dio trova la sua gioia nel prendersi cura dell’uomo e della donna, nel ritrovare ciò che si era perduto (cfr. Lc 15). Gesù ci ha fatto vedere al vivo, nella sua umanità, un Dio che ha viscere di pietà. Non un Dio freddo e distaccato, chiuso nella torre d’avorio della sua immutabile volontà, ma piuttosto un Dio fortemente coinvolto nella storia degli uomini, un Dio perdutamente innamorato delle sue creature, che non desiste dal cercarle.

Gesù percorre la via del dialogo e della prossimità. Si potrebbe leggere l’intero Vangelo dalla prospettiva dell’amicizia che Gesù coltiva liberamente, con uomini e donne. È amico di persone oneste e ragguardevoli come gli amici di Betania (in Luca l’episodio di Marta e Maria segue immediatamente la parabola del buon samaritano), ma anche di noti pubblicani e donne di mala fama. Spesso è Gesù che prende l’iniziativa e si fa mendicante di amore: così al pozzo di Giacobbe con la donna di Samaria (Gv 4,5-26), così a Gerico con quel pubblicano che lo guardava incantato dal sicomoro: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19,5). Gli osservanti della Legge lo denigrano come “mangione e beone, amico dei pubblicani e dei peccatori” (Lc 7,34), un’espressione che appare in tutta la sua forza sullo sfondo dell’Antico Testamento dove un’accusa simile è meritevole di morte[19]. Ma Gesù non esita a chiamare al suo seguito anche Levi-Matteo, il gabelliere di Cafarnao, e non disdegna di sedersi alla sua tavola in compagnia di tanti amici pubblicani: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt 9,12-13).

Ma accetta inviti a pranzo anche dai farisei, ama davvero tutti. Tra le pagine indimenticabili, l’incontro con la peccatrice proprio alla tavola di Simone il fariseo, una scena che andrebbe gustata nei dettagli, tra le più hard del Vangelo, sia per il contesto in cui avviene che per l’imbarazzante complicità del Maestro (cfr. Lc 7,36-50). Luca, da artista del racconto, riesce a dipingere la scena e i personaggi con grande maestrìa, giocando sulla forza dei contrasti. L’imprevisto mette in luce due comportamenti contrapposti smascherando la verità dei sentimenti. La donna – una peccatrice ben nota nella città – si gioca in prima persona e in massimo grado, fino in fondo. Determinata e concentrata in ciò che intende fare, entra in scena da protagonista, con tutto l’occorrente per dar prova di sé: “un alabastro di unguento”. Non si cura degli sguardi dei commensali, è tutta presa dai sentimenti che esterna ai piedi del Maestro dove piange tutte le sue lacrime: un bagno di lacrime! E quando ha finito il pianto e si rende conto del diluvio sui piedi del Maestro, li asciuga coi lunghi capelli, li bacia e li profuma col suo unguento prezioso… Neppure una parola, ma lacrime, baci e carezze.

E Gesù lascia fare. Non interrompe quel pianto, né quei gesti sinceri impregnati di eros. Anzi apprezza l’espressione genuina della donna, lamentando con Simone il comportamento contrario: “Tu non mi hai dato un bacio, lei invece…” (Lc 7,45). La scena, come dicevo, offre vari elementi per una lettura erotica, ma Gesù l’addita come donna che incarna l’agape: êgapêsen poly, “ha molto amato”. Dio non disdegna l’eros, lui che ha viscere di compassione. E molto è disposto a perdonare dove incontra passione e pentimento sincero.

 

 

Gli amici di Betania e l’ultimo convito

L’evangelista Giovanni indugia nel presentare le relazioni di particolare affetto che lo legano agli amici di Betania. Marta è la signora di casa, accogliente e premurosa (Lc 10,38-42). In Giovanni è anche la prima che corre incontro al Maestro e fa una splendida confessione di fede: “Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, che viene nel mondo” (Gv 11,27). Lazzaro è l’amico. Basta questa parola per evocare la profondità della sua relazione con Gesù e l’attesa implicita nel messaggio: “Ecco, il tuo amico è malato” (Gv 11,3). E quanto Gesù gli fosse affezionato lo dicono apertamente le sue lacrime, non più trattenibili quando Maria gli si getta ai piedi e gli ripete: “Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”. L’Evangelista annota che Gesù si commosse profondamente e scoppiò in pianto anche lui, tanto che i presenti dicevano: “Vedi come lo amava!” (Gv 11,32-35).

E Maria? È inseparabile da quel suo gesto amante che la caratterizza in maniera emblematica agli occhi della comunità cristiana: “Maria era quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli” (Gv 11,2). La scena viene narrata in dettaglio nel capitolo successivo, nel contesto del banchetto festoso per la risurrezione di Lazzaro, avvolto da un presagio di morte (“sei giorni prima della Pasqua”) che solo Maria intuisce: splendida icona di Chiesa amante (Gv 12,1-3). Infine – e siamo all’ultimo convito – una sorprendente intimità la rivela il discepolo amato, che non si fa alcun riguardo di poggiare la testa sul petto (stêthos) di Gesù, sotto lo sguardo degli altri (Gv 13,25). Solo così, in questa posizione di singolare intimità, può porre l’inquietante domanda: “Signore chi è?” e ascoltare la singolare risposta del Cristo, che giocando ancora una volta sui simboli evidenzia tutta l’amicizia nei confronti del suo stesso traditore: “È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò” (13,26). Amore corposo quello del Cristo, che dà il cibo e si lascia mangiare (vedi Gv 6) e intinge il boccone dell’amicizia anche per il discepolo che con un bacio lo tradirà (Mt 26,49-50).

 

 

Il pastore bello che depone la propria vita

“Nessuno ha un amore più grande di questo: dare (deporre) la vita per i propri amici”, dichiara Gesù ai suoi discepoli nell’ultima cena (Gv 15,13). E lui lo fa. È il pastore bello che depone (tithemi) la propria vita per le sue pecore (Gv 10,11). Cosa del tutto inconcepibile nel quadro dell’esperienza umana, per quanto un pastore sia amante delle sue pecore. È la massima solidarietà: una vita “per” (hyper). Nel quarto Vangelo la preposizione hyper si trova quasi sempre in un contesto sacrificale: Gesù dà la sua carne per la vita del mondo (Gv 6,51); depone la propria vita per le pecore (10,11.15); muore e non per la nazione (ebraica) soltanto, ma per radunare i dispersi figli di Dio (11,50-52). Notiamo in particolare un forte collegamento con il discorso sul pane di vita:

– Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo (6,51) 

– Il buon pastore dà la sua vita per le pecore (10,11.15).

Un essere-per che significa piena disponibilità e dedizione, fino a dare (letteralmente “deporre”) la propria vita. Come viene deposta la veste per lavare i piedi. Veste e vita si richiamano nel linguaggio simbolico di Giovanni. Quel deporre le vesti per lavare i piedi, dice anche il senso del suo deporre la vita che Gesù afferma di compiere liberamente:

“Per questo il Padre mi ama: perché io depongo la mia vita, per poi riprenderla di nuovo.

Nessuno me la toglie, ma la depongo da me stesso, poiché ho il potere di deporla 

e il potere di riprenderla di nuovo” (Gv 10,17-18).

Uno che può dare e riprendere non è un servo: fa il servo ma è un signore, come viene esplicitato quando Gesù, dopo aver lavato i piedi ai discepoli dichiara: “Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene perché lo sono” (Gv 13,13). La sovrana libertà di Gesù nel donare la vita per le sue pecore costituisce il “comando” che egli ha ricevuto dal Padre e anche il motivo per cui il Padre lo ama. La figura che nella nostra esperienza maggiormente si accosta a questo dare la vita del pastore è quella della madre che è totalmente per, spazio aperto, dono gratuito, ascolto amorevole. “Io sono il pastore quello bello – dice Gesù – conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e depongo la vita per le pecore (Gv 10,14-15).

Nel linguaggio biblico la “conoscenza” non si limita alla sfera intellettiva ma si estende alla vita affettiva fino a includere l’intimità che lega lo sposo alla sposa. Il Signore ha conosciuto il suo popolo con la passione di un uomo per la donna del suo cuore (Os 2,18-22; Is 54,4-8), con la tenerezza di una madre per il frutto delle sue viscere (Is 49,15). L’ascolto del Padre che tanto ama il mondo (Gv 3,16) rende Gesù capace di un incomparabile ascolto di ciascun uomo e donna nella unicità dell’essere e della situazione esistenziale. Questo aspetto è bene evidenziato anche nell’incontro del Risorto con la Maddalena, la quale riconosce Gesù proprio quando lui la chiama per nome: “Maria!” (Gv 20,16).

 

 

 

Per un “ordo amoris” nella prospettiva del Cantico

Corporeità dell’amore

La “corporeità dell’amore” esige attenzione al cosiddetto body language. Siamo chiamati a maturare relazioni profondamente umane, senza avere paura di dire l’amore anche con il corpo, sviluppando tenerezza e cordialità (il che non significa sdolcinature). Ho l’impressione che le nostre realtà formative siano ancora molto distanti dalle scene imbarazzanti dei vangeli. Meglio a commentare dottrinalmente e passare oltre, che restare dentro il plastico realismo narrativo della peccatrice alla tavola di Simone il fariseo!

La corporeità dell’amore Gesù l’ha espressa in vari modi, dal toccare al lasciarsi toccare, fino a lavare i piedi e darsi in nutrimento: dalle nozze di Cana all’ultima cena. Conseguentemente la corporeità dell’amore entrerà in gioco anche nell’ultimo giudizio dove il Cristo si riconoscerà nel corpo dell’affamato, dell’ignudo, del carcerato… Matteo 25 ricorda ai cristiani di ogni tempo le ultime conseguenze della sua incarnazione, ovvero della corporeità dell’amore.

 

Psicologia dell’amore

È stato detto: “Si vede bene soltanto con il cuore”. Direi che ciò è profondamente biblico. Dio lo chiede come primo e fondamentale comandamento, esigendo di essere amato “con tutto il cuore”. Ma per amare con tutto il cuore bisogna anzitutto lasciarsi ferire il cuore! Ne è un bell’esempio il buon samaritano che diversamente dal sacerdote e dal levita, “vide e fu preso da compassione”. Psicologia dell’amore è vedere oltre le apparenze, vedere dentro, comprendere e compatire. Non conoscenza epidermica, ma comprensione profonda. Il pastore bello chiama le pecore per nome, le conosce personalmente, una per una (Gv 10,3). Conoscere è solidarizzare. È compagnia feriale e non solo dei giorni festivi, quando abbiamo tempo e ci fa comodo. Include il “deporre” il proprio mondo e le proprie vedute – Gesù parla di psychê nel vangelo del buon pastore.

 

Spiritualità dell’amore

L’espressione non deve ingannare: non la intendo in chiave spiritualistica, il che si ritorcerebbe ancora una volta contro la concretissima dimensione della carne. Nella sua accezione fondamentale “spiritualità” dice riferimento allo “spirito”, dunque a ciò che nell’uomo costituisce l’elemento supremo e unificante, che nella prospettiva biblico-cristiana è partecipazione dello Spirito santo, Amore eterno e sostanziale che lega mutuamente il Padre al Figlio. La spiritualità è dunque il dinamismo che orienta e unifica varie espressioni dell’affettività. Non nasce dalle ceneri del corpo e della psiche, ma è ciò che fa vivere pienamente il corpo e la psiche, nella prospettiva evangelica del “corpo luminoso”, ovvero della tras-figurazione.

Anche il nostro corpo è chiamato a comunicare spirito, come testimoniano i cristiani ben riusciti che sono i santi. Basti pensare a Francesco d’Assisi o Madre Teresa di Calcutta, dove tutto il corpo e ogni ruga del volto parla di spiritualità dell’amore. Cosa infatti rende luminoso il volto e diafano il corpo se non l’amore? Andrebbe riletto in questa prospettiva il cantico dell’amore (agapê) in 1Cor 13, magari con i sentimenti di santa Teresa di Gesù Bambino che trovò pace nel martirio che le affliggevano i suoi grandi desideri quando comprese la sua vocazione all’amore.

Donec formetur Christus in vobis! Ecco la parola guida dell’impegno pastorale di Paolo, che il nuovo beato Giacomo Alberione amava ripetere alle congregazioni della Famiglia Paolina. Lo Spirito guida l’affettività sulle orme del Cristo, secondo la sapienza dell’amore di Dio. E così Paolo può scrivere ai Romani: “Se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi… Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio” (Rm 8,11.14). Erôs, philia e agapê non si escludono nell’ordo amoris dello Spirito del Cristo che ha il compito di guidare (hodêgêsei) verso la verità tutt’intera, la verità dell’amore (Gv 16,12), attuando il comandamento di Gesù: “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 13,34).

 

Valorizzando il coro

Il modello che a mio avviso potrebbe essere utilmente rivisitato è quello del Cantico dei Cantici dove le varie dimensioni dell’amore si intrecciano in armonia, nel quadro di una natura partecipe e consenziente e in gioioso contrappunto con il gruppo degli amici e delle amiche. Il coro/comunità che ruolo gioca nei nostri percorsi affettivi? Sarebbe importante scoprire a livello di formazione umana e spirituale non solo la funzione della guida, ma anche quella del “coro” che consente di verbalizzare e condividere i sentimenti. Nel Cantico il coro è presente sia nei momenti gioiosi della ricerca e della celebrazione dell’amore (vedi in particolare la rilevante presenza delle “figlie di Gerusalemme” nel primo capitolo e anche alla fine, in Ct 8,4), sia nei drammatici notturni dove le amiche di lei sono messaggere d’amore presso l’amato cercato e non trovato: “Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, se troverete il mio tesoro ditegli che malata d’amore io sono!” (Ct 5,8).

È interessante notare che nel Cantico sono le amiche che fanno da guida all’innamorata che va cercando fin dalla prima scena il suo tesoro, non già proponendo percorsi scontati ma un nuovo modo di vivere. A lei che i fratelli avevano posto a custodire la vigna (1,6), le amiche suggeriscono di cambiare attività, sulle orme di colui che va cercando: “Se non lo sai, o la più bella tra le donne, esci sulle orme del gregge e pascola le tue caprette presso le dimore dei pastori” (Ct 1,8). La sfida nell’ambito formativo non la vedo tanto nello scrivere un ordo amoris sulla carta quanto nella vita, dove le cosiddette componenti antropologiche le avvertiamo come dimensioni inalienabili della nostra identità, chiamata a trascendersi proprio nell’esperienza dell’amore. L’amore infatti è da Dio e chi ama dimora in Dio (1Gv 4,16).

 

 

 

Note

[1] “Da quel momento l’essere umano resta segnato sia simbolicamente sia realmente da questa funzione tanto primordiale: la respirazione. E la sua respirazione, la sua vita, sarà vita e respiro in e da Dio”: M. T. PORCILE SANTISO, Con occhi di donna, Bologna: EDB 1999, 45.

[2] Rûah hen, c. I, citato da M. T. PORCILE SANTISO, Con occhi di donna, 46.

[3] “L’ebreo può riassumere l’idea di uomo non già nello spirito-alito (come tendeva a fare la mentalità greca con l’idea di anima), ma piuttosto in quella di carne-corpo… dire basar, cioè carne-corpo, può già significare uomo, appunto perché è la struttura corporea nella sua visibilità e fisicità che caratterizza e denomina l’essere vivente. È questa la ragione per cui una cinquantina di volte nell’AT, il solo termine basar indica l’uomo cogliendone la caratterizzazione che lo fa tale proprio nella strutturazione visibile e plastica del suo essere”: R. CAVEDO, “Corporeità” in: P. ROSSANO – G. RAVASI – A. GIRLANDA (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello Balsamo (Mi): Edizioni Paoline 1988, 310.

[4] Gesù stesso dice a Nicodemo: “Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito” (Gv 3,6) e nella sinagoga di Cafarnao alla fine del discorso sul pane di vita/carne del Figlio dell’uomo, ai discepoli scandalizzati dalle sue parole egli replica: “È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita” (6,63).

[5] Si veda ad esempio 1Pt 4,1-6 dove il termine “carne” è scomparso, mentre nell’originale greco vi ricorre quattro volte e suggerisce un forte parallelo tra il soffrire “nella carne” (sarx) del Cristo – espressione del massimo amore – e la conseguente rinuncia da parte del cristiano alle “passioni della carne”.

[6] Cfr. E. BOSETTI, Cantico dei Cantici: “Tu che il mio cuore ama”. Estasi e ricerca, Cinisello Balsamo (Mi): San Paolo 2001.

[7] Il Cantico si accontenta di dire “come”, consapevole di quanto sia vorace e inesorabile la morte. Ma se l’amore può contrastarla, si prospetta già più forte. Neppure le grandi acque possono domare le fiamme dell’amore perché “sono vampe di Yah(weh)”. “Dio è amore e chi sta nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui” (1Gv 4,16).

[8] G. BARBAGLIO, “Psicologia” in: P. ROSSANO – G. RAVASI – A. GIRLANDA (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello Balsamo (Mi): Edizioni Paoline 1988, 1257-8 (tutto l’articolo: 1257-1271).

[9] La stessa espressione ritorna nel capitolo successivo, che racconta la sfida con Golia. La bellezza gentile di Davide, che spiega il suo fascino sulle donne, viene notata anche dal gigante ma con tono dispregiativo, come insignificanza militare: “Il Filisteo scrutava Davide e, quando lo vide bene, ne ebbe disprezzo, perché era un ragazzo, fulvo di capelli e di bell’aspetto” (1Sam 17,42). Quanto ha influito la descrizione della fisicità di Davide sulla iconografia di Gesù (dipinto frequentemente con capelli biondi e occhi azzurri)?

[10] Mt 17,1-8; Mc 9,2-8; Lc 9,28-36.

[11] Cfr. E. BOSETTI, La tenda e il bastone. Figure e simboli della pastorale biblica, Milano: EP 1992, 73.

[12] Nell’episodio della visita a Nazaret, Marco ricorda i nomi della madre e dei fratelli: “Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?” (Mc 6,3). Sull’argomento cfr. G. DANIELI, “Maria e i fratelli di Gesù nel vangelo di Marco”: Marianum 40 (1978) 91-109; J. GILLESS, I “fratelli e sorelle” di Gesù, Torino: Claudiana 1985; S. GRASSO, Gesù e i suoi fratelli. Contributo allo studio della cristologia e dell’antropologia nel Vangelo di Matteo, Bologna: EDB 1994; G. BARBAGLIO, Gesù ebreo di Galilea. Indagine storica, Bologna: EDB 2003.

[13] La storia del matrimonio di Davide evoca quella di Giacobbe, ingannato da Labano. Anche Saul inganna Davide promettendogli in moglie la figlia maggiore Merab, ma poi senza alcuna spiegazione la dà invece a un altro, Adriel di Mecola (1Sam 18,19). D’altro canto l’amore di Mikal, che Saul intendeva sfruttare come una trappola, si ritorcerà contro di lui perché la figlia innamorata si schiererà a favore di Davide.

[14] Dopo aver accompagnato le gesta gloriose di Giosuè, l’arca del Signore era caduta nelle mani dei filistei (1Sam 4) i quali credevano di averne vantaggi ma sperimentarono il contrario, tanto da sentire il bisogno di liberarsene con doni propiziatori. Davide la fa trasportare con grande solennità da Kiriat-Iearim a Gerusalemme (2Sam 6).

[15] Per un approfondimento della figura di Davide e di Abigail rinvio al mio libro: La tenda e il bastone, 64-83.

[16] Cfr. E. BOSETTI, Matteo. Un cammino di speranza, Bologna: EDB 2002, 43-45. “Poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli ne è divenuto partecipe”, leggiamo nella Lettera agli Ebrei (2,14), che aggiunge: “In tutto simile a noi, escluso il peccato” (4,15).

[17] Nella Bibbia, compreso il Siracide ebraico, troviamo questo grido di felicità 52 volte, di cui 26 nei Salmi. Il termine “beati” è diverso da “benedetti” (euloghemènos in greco e barùk in ebraico) e non coincide neppure con le categorie della felicità umana.

[18] Il verbo splanchnìzomai ricorre cinque volte in Matteo e quattro hanno per soggetto Gesù: 9,36; 14,4; 15,32; 20,34. L’altra occorrenza è in 18,27 nel contesto della parabola del servo spietato e il suo uso non è meno significativo: designa infatti quel kyrios “signore” compassionevole dietro il quale è facile scorgere Dio stesso. È degno di nota che nella versione greca dell’Antico Testamento, detta dei Settanta, il termine splanchnìzomai non viene utilizzato per Dio, forse per evitare un antropo – (meglio un gineco) – morfismo, mentre il Nuovo Testamento lo usa volentieri per Gesù.

[19] E. BOSETTI – A. NICCACCI, “L’indemoniato e il festaiolo. Lc 7,34-35 (Mt 11,18-19) sullo sfondo della tradizione sapienziale biblico-giudaica”, in: F. MANNS – E. ALLIATA, ed., Early Christianity in Context. Monuments and Documents, Jerusalem: Franciscan Printing Press, 1993, 381-394.